Antonio Lauretti | |
Poesie | Poesie Dialettali |
Voci di Teravazzo "Spero che qualche mio verso come farfalla colorata si fermi un giorno tra spazi senza tempo ad assaporare sorrisi d’un vento amico." Alla mia Valle A te Valle … ch’ormai mi culli … tu che rapisti questo cuor acerbo … apri gli orizzonti del sapere qui su sospiri di terre che profumano di vita. Primavera a Teravazzo Ed ecco la storia, d’un piccolo ragazzo: ardita memoria pioppi di Teravazzo. Un cielo turchese qual mondo sconosciuto eroi, terre, imprese, d’un tempo già vissuto. Il tutto corre in fretta s’avvolge come un rito: mèta è quella vetta tra sogni di quel sito. Un vento sui capelli sfiorava quel tuo viso e corpi ancor più belli s’aprivano al sorriso. Baci di sol petali d’amor, per solo ben tra rose, spine e sepali amor mi risovvien … Venti del terzo millennio Gioventù senza meta, bruciate da un’era corrotta e veloce che portate invano una croce e non pesa di giusto valor. Sollevate convinti le teste alla vita guardate negli occhi in un mondo di motori e balocchi e di chiacchiere senza un perché. E` pur ver, ch’è passato di moda di conoscer poeti ed eroi; un sol dio, che conta per noi il denaro e la comodità. Siamo tutti scienziati e maestri, con in tasca un bel portafogli; non si pensa ad onori ed orgogli non si bada perfino all ’onor. L’uomo da giovane, guarda molto lontano: ma non vede, ciò che ha sotto gli occhi. Ciociaria Madre degli avi miei terra di uomini forti come rocce: eterni monti e faggi che sfidano il tempo. Nelle freddi notti un cielo inebriato aspetta l’aurora. O Ciociaria figlia d’Italia madre Terra accetta il mio Canto. A Priverno Quando il mio cor silente, posai sul nuovo stato rimase fecondato di luce e prati in fior. Tra le convalli erbose, il tutto intorno ispira; fin dove il guardo mira dolcezza in fondo al cor. Bellezza e fantasia sparse nel nuovo mondo, dentro il mio cuor profondo il canto mi dettò. Per te eterna Valle, culla d’antica storia di gesta e di memoria fiorente resterà. A te, che ormai mi culli sperando d’esser degno del tuo antico regno di gloria e civiltà. Arcana fantasia, sento dal cuor esprimere; voler con te dividere la vita e la beltà. In queste Volsche terre, nacque una "Regina" dai monti alla marina l’impronta resterà. Batte la bianca luna, lungo il tortuoso colle nel piano della valle, splende di luce ancor. Nostalgia Voglia di seder tra lor, tra i miei pastori gente robusta di questa terra amica semplice, cullata da valori che schiariscono il volto della Ciociaria. Tra fitte selve ricche di colori corro scrutando l’armonia di verdi sentieri, antichi amori, torna e sorride la segreta via. Sere tra rustiche dimore passan liete al suono di stornelli d’organetto, tra fantasie, notti lunghe e bimbi quieti. Ed io con loro canto canzoni e miti melodie che porto nel petto gustando allegro, fraterni inviti. Sogno Nellerma pace della mia dimora: muto, solingo, quadro immacolato in memoria di luoghi dove ho sognato, qui, nel deserto mio risogno ancora. Dolci fantasie d’oggi, come allora; chi mi sarà compagno inseparato? il mio romito verso inascoltato tra il profumo campestre dell’aurora. Su questa bianca pagina immortalo in questa culla piegherò la testa ove rimango a piangere da solo. Allor saranno i fior, il caro volo dei miei sogni, unico resta e resterà, soltanto il verso ignoto. Mio padre Un lontano giorno imprecisato, un uomo s’imbarcò nell’avventura: lasciava i monti suoi dov’era nato per la conquista d’una fertile pianura. Lasciava dietro a sé ricordi antichi, e tanta tristezza,con gli amici suoi non per nulla, per validi motivi, con leggerezza giudicar non puoi. Così si incamminò, per quei sentieri con addosso solo, malinconia; portando seco primogenito arcani pensieri, la sua Compagna, ed acuta nostalgia. Alfin giunse, al tramontar del sole nella promessa terra, a lui straniera; volse il guardo al colle, senza parole, e volse al cielo una preghiera. L’ora è soave e grande, nell’insieme pallido è il sol nell’orizzonte immerso nelle desolate lande ripensa ancor, al caro monte. Sogni poi l’attendon nel futuro ben segni che lasciò, sul suo cammino baciò la nuova terra con cuor duro: pensando all’indoman, nuovo destino. Ultimo saluto Era d’ottobre qual dolente sera all’apparir d’un sogno rivissuto; antico sguardo intriso di preghiera, abbraccio caldo, ultimo saluto. Figura forte dalla fronte altera, carca d’un qualche aspetto sconosciuto, pallido il volto ch’al domani spera miglior destin per me da te voluto. E gli occhi azzurri presero il momento che lacrima, nascosto aveva il sole, impetuoso nacque un sentimento fu muto il cor senza parole. Poeta, tu che lasciasti il segno dell’arcana feconda fantasia torna ancora col tuo ingegno ad illuminar questa vita mia. Gennaio 1967 È sera una fredda sera d’inverno, il camino fumica e scoppietta il freddo sembra eterno. Tutti seduti sulla panchetta, papà accende la sigaretta: intorno al fuoco regna la pace quello più piccolo sorride, e tace. Il sonno avanza, intorno alla fiamma già sullo scanno qualcuno giace; ragazzi a letto sussurra Mamma. S’è fatto tardi, è fredda la sera nella penombra qualcuno spera. La mia valle Sono solo: Prigioniero d’una Valle perduta vago verso ampi spazi sfidando il tempo eterno. M’accompagna un’idea muta, inespressiva ed arsa come fieno maturo. Tornano nel pensier motivi lenti e l’alto silenzio, come nebbia che invade la pianura. Sento o Amaseno Fiume solo il tuo lamento che risveglia il cor da brutta arsura. L’alba del giorno dopo Quel lontano giorno che partii, per un paese tutto sconosciuto, ove il cor non udì alcun invito, ma per la Patria non ci fu rifiuto. E quella notte risognai gli armenti con tutta la mia valle in fior; vedevo il fiume, quei dolci momenti, con nostalgia del mio grande amor: E le convalli, dove pure il giorno in mezzo ai fiori mi fermavo a sognar il sol d’agosto che splendeva intorno che amavo tanto, volevo salutar. Stanco m’adagiavo su rovi desolati, con la mano accarezzavo un fior pensando quindi, a quali duri fati avrei ceduto questo ardente cuor. Ma, sento che musica sussurra e questo cor ancor vorria cantar torno alla valle, nella pianura azzurra divento naufrago, sperduto in alto mar. O canto mio, intriso di nostalgia tra i balzi eterni, col mio caro fiume serate magiche, con le ridenti lune qual sentimenti, venti di casa mia. Notte di Montenegro Ore d’estate, nel casolare un vecchio e un bambino soli, nel ricordare. L’uomo parlava lentamente, il piccolo lo seguiva da vicino fantasticando solo con la mente. Mirava il volto stanco vedeva quel mondo lontano offuscato, vestito di bianco. O d’Italia caduti notte di Montenegro ricordi, tempi perduti. Quel volto canuto parlò della Triste Storia, partenza senza ritorno. Morì per la gloria quel Figlio Soldato nell ’ora di guerra ora col vento che tace suonate campane, campane di Pace. Sera d’autunno Il tutto tace, il piano i colli, case sparse nella notte scura fischi d’uccelli dalle terre molli coprono il silenzio, affanni di natura. Dai tetti grigi, fumano i camini e la goccia batte sulla gronda nella tranquilla oscurità profonda immensa luce, occhi di bambini: che siedono impazienti intorno al fuoco al tepore della rossa fiamma ma la sottile voce della Mamma chiede di pazientar, ancor per poco. Traspare tra la nebbia, flebil luce dal paesello, vestito di lampioni dal triste cor ella conduce cari ricordi, ricchi di emozioni. Vado Cusano Pianura solitaria verde campagna fertile suolo pago di torrenti. Verde manto incantato che sorride e sogna, rallegra i cuor dei pastori e degli armenti. Giorni senza fine, armonia di età possente, melodie lontane, e vicine: un giovane cuore ardente. Lirica Monti amici miei, parte d’una storia, viva è la memoria del valore e della gloria. Ancor son nei miei sogni i bei giorni interminabili, con gli amici miei leali, che adesso vi dirò. Il pensiero va a Luigi il maestro mio d’un dì, trova Alfiero il professore assai mite e di gran cuore. Con lor passavo ore verdi e spensierate vagando per lumache o a prender nidi. Cuori birichini pronti a cogliere l’amore della salvia profumata l’odor della mortella che colpisce ancor nel cor. Il mio giardino Nella modesta mia abitazione tutto intorno, ho fatto un giardino; una piantina in mezzo di limone e quattro belle piante di lucino. Due albicocche con il mandarino con le due palme, che fanno da Signore le rose rosse con il ciclamino coi melograni che tengo sul cuore. E dietro a tutte l’altre cose mia moglie ci coltiva fiori e rose: un’aiuola illuminata di colore così rimane acceso il nostro Amore La siepe che rimane sempre verde fa che neanche l’anima si perde: la mia casetta, non è lussuosa a me basta che fiorisca la mimosa. Il pastorello C’era in un tempo ormai lontano, un giovane pastore, poverello: è un fatto vero, anche se strano, quando pioveva, non aveva ombrello. Libero, se ne andava, lungo i sentieri con i suoi armenti e i suoi pensieri. Andava per i colli e per vallate passava le sue ore spensierate. Portava appresso un piccolo fardello, e per compagno, solo un asinello. Nelle convalli solo, lui cantava nell ’aria, la sua voce vibrava. Vagava solitario, senza un cane mangiava qualche frutto con del pane, e lungo il fiume, su le amate sponde inghirlandava il capo, con le fronde. Dentro nell’acque limpide nuotava con grande maestria si tuffava, nelle giornate tiepide d’agosto, si soffermava all ’ombra di quel bosco. Cantavano gli uccelli, tremavano le fronde mosse dal vento, lento il mormorio dell ’onde così prendeva sonno, in quei momenti, tranquillamente al ruminar d’armenti. Quel piccolo pastore che sognava quella sua Fata, con lui s’addormentava, al suo risveglio restava sbigottito, talvolta muto non moveva un dito. Là nella valle la quiete vi regnava: solo una voce, dall’alto sussurrava. Nei verdi ulivi a Enrico Trapani Tra i verdi ulivi, dove ho già sorriso fra il canto degli uccelli, ho pianto: come un bambino, lacrime sul viso, un cuor dal dolore infranto. Nell’aria vedo come nubi nere, naufrago sono in mar profondo; vorrei salpare una delle sere, a visitar l’immenso fino in fondo. Ricordo e non capivo il senso di quel tenero dolce tuo sorriso, spesso la notte ora ci ripenso e mi risveglio stanco e confuso. Ora non è completa la famiglia, ogni sorriso ha una tristezza pia interminabil lacrima fra le ciglia la stessa ti bagnò, nell ’agonia. Padre mio, lassù nell’universo in questa immensità, son perso: nei verdi ulivi, dove i miei pensieri volano con te, lungo i sentieri. Ora in ginocchio, a la Vergine Maria: al suon de le campane del paese, vorrei venisse incontro, per la mia via. Pensieri Poesia di un giorno lontano: sogni di bambino che vivono ancora negli anni. E mi travolgono forse volano invano. Valori legati all’origine costruiti da amicizia con fondamenta forti che fan più lieti i miei giorni, specchio d’antico. Ricordi racchiusi nella mente e trascinati dietro come un fardello lungi dal separarti; miti pensieri, sempre presenti. Un astro d’argento ascolta piano, l’eco delle mie note a cui affido nell’aria, intrisa d’amore, lacrime al vento. Ad una madre Rivivo ancor, con futile memoria in questa valle umile suol mio, voci arcane d’una trist’Istoria ancor nel cuore quel commosso "addio". Nella valle regnava il giorno nell’aria il grido d’una voce, sulla crudele via del ritorno; quel ciel segnava la tua croce Segni di vita, sul finir del giorno nei campi, verso il casolare: il silenzio sostava intorno pie voci, parean sussurrare. Nell’ora che ritorna ogni pensiero, echeggiano le grida sotto il monte, parole miti intrise di mistero a pochi passi dall ’antica fonte. Chi mi parla al cor, tu lo sai, e rivedo quella visione estrema, la forza che al cor mi dai, a scriver porta, il triste tema. Una Mamma, ancor contenta, quella Madre teneva la mano, quel brutt’anno, ognun rammenta sentiva il tuo battito lontano. Sia Pace nella Terra benedetta, tra lo splendor delle volte gialle qui cè ancora chi ti aspetta: fredda è la sera… solo nella valle. Preghiera "All ’Altissimo Padre" Un giorno di Settembre, come Maggio riuniti in una gita organizzata, per recarci in pellegrinaggio nella meta, umilmente sognata. Gente da tutto il mondo si recava pareva di esser in Paradiso, la Gloriosa figura, io contemplava il gran mistero, di quel dolce viso. Nell’aria un tal profumo dominava da far dimenticare la tristezza nei cuori solo Fede vi regnava commossi i petti a tale bellezza. Un bimbo figlio d’umil contadini portato per natura al sacrificio, lascia il paese, genitori e fratellini e per fede si richiama a Dio. Con la potente mano del Signore e sua inestimabile sofferenza il mondo intero, trascina con amore verso l ’altissima credenza. Beatissimo Padre di noi tutti, in nome del mondo ci affidiamo nelle tue mani, nei momenti brutti di star vicino a te, noi supplichiamo. Perdonaci le nostre debolezze, se intender di più noi non possiamo: le nostre vane frivolezze, nella volta dei cieli ora preghiamo. Ombra Pomeriggio d’estate: seduto all’ombra della mia casetta a respirare aliti della sera. Passano i minuti i pensieri volano com’ombra lontana verso Mondi diversi, a valori persi lontani e muti. Il fresco della notte rapisce i miei sogni, e mi riporta la realtà dei motori: sinistri rumori, spesso di morte. Italia Piccola donna, indifesa, madre d’Eroi, e luminari: a volte umiliata e offesa. Bellezza che inonda i mari, nessuno come adesso ti rese infelice, come il progresso. Io t’amo, spesso nella notte invoco il tuo nome, e penso alla tua sorte. Italia, io spero: che le mie note volino con patrio amor sincero, e sul tuo seno si posino. Il mio fiume Ai pié dei sacri monti, nasce, quell’Amaseno da quell ’arcane fonti, racchiuse da segreto. Verso vasti piani solchi quel suolo antico da tempi assai lontani di tutti fai d’amico. Fiume: tu che trascini spesso il mio cantare riportami quaggiù le cose care al buio t’aspetto, solo e senza lume. Notte di luna Quando la luna splende, al tremolar dell’ora, il vasto pian silente, s’innalza e si colora. E tu discendi, antico torrente, tra verdi balze nel tortuoso calle. Tu come me taci fremente lento e solitario cerchi la valle O grande gioia: sotto il cielo aperto, in alto vola. Nell’anima segreta, al sorriso deserto vorrei salir Poeta. All’amico Bernardino Massaroni Proprio vicino al mio abitato, coltiva un orticello Bernardino: con il pozzo, una pera che ha innestato la baracca dove, al fresco, mette il vino. Pianta un po’ di tutto con passione, cipolle, pomodori, piante d’olive, e qualche pianta pure di melone fa di tutto per tenerle vive. L’annaffia, le pota, disinfetta con amore, lì in mezzo si diletta: a volte mi ci trovo pure io, ricordo ancora, quando c’era zio. Nel campetto assai curioso facciamo due chiacchiere in compagnia, lo tengo allegro, e più gioioso poi ci fermiamo a casa mia. Al fresco del campetto facciamo a volte un banchetto una salsiccia, due olive, una licetta mangiamo con le mani, senza forchetta. Se parliamo di una cosa divina, sorride e prende la "marzollina": e quella, col vinello cerasolo è una delizzia, và giù da solo. Dentro la rurale baracchetta, dopo aver mangiato la licetta vestiti pure di soli stracci, ci sentiamo due signori, poveracci. Temporale nella valle Quando romba la marina fischia il vento di ponente, il temporale s’avvicina nella valle, travolgente. Verdi i monti, l’aria scura lingue di fuoco, sulla pianura il contadino nel fienile s’appiatta ad ogni colpo, che il cielo scatta. La pioggia cade, non ha premura, armenti ruminano senza paura, mentre il villano, dentro le stalle guarda pensoso, giù nella valle. Il fiume in piena, sponda a sponda, trascina infuriato onda su onda: cala la sera, nelle dimore a fuoco lento passan le ore. In quel tepore che emana la fiamma, la cena attesa prepara la mamma, e nel silenzio fatto di preghiera una flebil luce, nella dolce sera. La mia casetta Sempre portai con me, quella casetta, all’ombra dell’olmo con la pergoletta. La siepe, il mandorlo di sotto il noce, le mie canzoni cantavo a piena voce. La cara nonna che spesso borbottava sempre col tegamino pronta stava. Cuoceva la cipolla con due uova al pari proprio d’una gran signora. Attorno a quella pietra col tavolino stavamo tutti e tre proprio vicino. E dentro al petto c’era la poesia che m’hai lasciato tu casetta mia. A mia figlia All’alba se ne parte l’operaio: volge lo sguardo al ciel, solo le stelle s’affida al suo destrier d’acciaio, per il valor, di quelle cose belle. Uomo, tu che vivi nell’ombra nel grigiore, d’un cielo perduto: un pensiero antico ritorna quella parte che non hai avuto. Gli anni passano, in un momento si rimira, si trova cambiato, la folta chioma, color d’argento: ora quel tempo gli resta lontano. Una vita che poco sorrise, quale pena doveva scontare; ad amare il mondo, non smise la realtà doveva affrontare. Nelle sere, pensoso rimira, gli tornano dolci pensieri: quando piccola, ora cuce e stira, e non crede, gli sembra ieri. Infanzia Ragazzo ascolta: mi diceva quell’uomo, dai verdi anni il tuo futuro, nessun sospetterà di tanto affanno, attento sempre, ed evita l ’inganno. Non abbatterti mai vola come aquila lontano, se vuoi voltati, migliora degli avi il solco tortuoso ed aspro, come sai. Un corpo forte e sano, ti ci vuole, per vivere e sopravvivere… Ma cerca il canto: guarda l’universo, nella notte ubriaca di stelle che sognano. Non tenere scritti nel cassetto, scrivi con la forza del tuo petto, avanti dunque, audace vai, e non fermarti mai. Se talvolta il cor ti si rattrista vinci l’ora triste, chiama le muse, pensa al bello dell’amore, passione ardente sempre vincente. A Giuseppe Lauretti mio nonno Tu uomo, che del popolo, semplice figlio oscuro guidasti il tuo cammino con animo sicuro. Gentile e grande d’animo, e di persona altera sempre lodasti l’umile per tua virtù primiera che hai trasmesso ai postari sul suol dell’avvenir. Carico d’un gran fardello, seguisti la tua via: non pochi sacrifici d’affanni e di fatica. Intanto, nel tuo cuore nascosto nel profondo: già conosceva il canto, la storia d’altro mondo. Dall’alto di quei monti seguivi da lontano, i passi dei tuoi figli, stranieri giù nel piano, con occhi attenti e vigili: d’arcana maestà. Ora per te io canto: anche se a tarda ora, il tuo ricordo intanto mi nutre, e mi consola. Ancor ripenso al giorno ultimo dell’or finale: quando fui di ritorno dal servizio militare. Muto restai, nell’umil dimora, allor con occhi incerti non seppi dir parola eterna fu l’immagine, quella figura nobile. L’antica sofferenza la fede, e l’alto lume, La giovane pazienza di gloria ha tinto il nome. Lungo la costiera Amalfitana Scorre il battello nell’aperta scena, d’un chiaro e fresco alito d’Agosto. Dalla scogliera brilla la serena dolce malinconia, che non conosco. Lontane nenie dell’onda che mormorate tristi con voci di spiriti non visti portate il piede mio sulla sponda. Van l’ali del pensier delle mie note, sul verde mare, su le acque ignote. Tra le bellezze antiche mai vedute le sacre sponde, de le rive mute. E dalle mute rive brillan le serre, tiepidi venti invian tal profumi. Chissà qual fata baciò le terre ricche di sole e d’esotici agrumi. O venti che date giovinezza, d’una natura, che mai non vidi, ridatemi la forza, e la freschezza di ritornar quaggiù, su questi lidi. E’ già sera, il crepuscolo si spande, sul pian dell’acque, dal tortuoso lido scorre il battello con divinità grande; trasporta i miei pensieri all’infinito. Io mi ricorderò, dei tuoi tramonti, allegro tornerò sul mio cammino, ritorno al mio paese, ai patrii monti: e innalzerò per te, l’inno divino. I trebbiatori Dov’è quel campo, con le quercie antiche con l’aia sotto, vicino al casolare: su quell’arena si specchiavan le fatiche di quei che, gladiator, parean lottare. Donne al sole, capavano la veccia, tra le spighe cullate dal vento, sui visi abbronzati, calava la treccia. Oh anni immortali, magico momento. Dov’è campo, quel tuo mare d’oro laddove si perdeva il mio cantare? Invitavo i passeri a volare, volteggiavo anch’io in mezzo a loro. Al paese suonavan le campane dicevano con calde note ov’ero! Mi voltai, vidi terre lontane sentendomi quasi un forestiero. All’ombra del verde melograno, qualcuno aspetta, guarda e dice: "Si sente appena il battito lontano del motore della trebbiatrice",,, Tutt’intorno, è calmo e tranquillo fino all’aia di zio Salvatore. Si ode piano, il trillar del grillo batte la trebbia, al calar delle ore. Chiesetta sul fiume Prossedi A te chiesetta sul fiume; che racchiudi misteri e memorie qui nel silenzio immenso, tra la solitudine infinita, illumini la valle, dandogli vita ed alla vita un senso. Dal nostalgico oblio accompagni i tramonti con la luce di Dio. Sole antico Torna a salir il sol dell’ora sui verdi, solitari monti; nella fitta selva regna l ’aurora: respiro di sere, nostalgici tramonti. E’ sempre quel sol che porto nel cor? Volano pensieri, piange la natura, ma la vita che non dura ripensa a quell’amor… Corre il progresso, torna l’estate: muoiono epoche dimenticate, fame, miseria, lotte ideali, dov’è la gloria, miseri mortali… Vedo nell’aria spegnersi l’antica melodia, tempi lontani e persi, o vana nostalgia. Vorrei tornasse a splendere quel caro antico sole, ma invan resto ad attendere petali e parole. Richiamo Vecchia selva, dai frondosi rami ampio miraggio, di pupilla assente: e come allor, dai di lontani mi guarsi fredda e paziente. Dimmi ancor, che m’ami dillo a un cuor, allor fuggente; che sente ancor, i tuoi richiami alla frescura, alla mia gente. Da le valli silenziose, tra la vaga sfumatura, lo splendor di tante cose: nel ricordo che perdura. Con le mie velate immagini, sol in quest’ampio squallor io, vi invoco o rocce vergini: non portatemi rancor. Mistero Tornerà la primavera, seguiranno nuove estati, ma quei fiori profumati torneranno a rifiorir? Forse un giorno un nuovo fiore in questi campi spunterà, nasce forse un nuovo amore; un altro mondo ci sarà. Venti lontani Rivedo ancor, un mondo con i fiori; che a poco a poco fugge dalle mani, quei profumi antichi coi colori vecchi ricordi, ormai lontani. L’affetto degli amici, le canzoni: serate allegre, allegri i cuor, scarpe modeste, vecchi calzoni ma dentro i petti c’erano i valor. Lasciamo stare il mondo, in mano alla natura; che l’acqua di quei monti arrivi fino al mar. Che i nostri figli vedano, la faccia dell’aurora; i sassi alle montagne lasciamo riposar. |
La ciuppara Paricchio tiempo, mo à passato da quande ficcai na mazzetta de fico, quand la vero mò la benerico cà nu signalo buono m’à lassato. Sta fico l’hai piantata ncima na fossa, i torno torno a fatto na ciuppara cà mò s’à fatta puro bella ròssa caccia la fico doci, i chella màra. Prò repensennece nù momento, è comm’a certa gente, d na razza chi si, chi no, gli t’è nu sentimento: chi t’è la capa bona, i chi la pazza. La streppegna Je songo n’ommo buono i lialo; a nisciuno so mai aucurato lo malo, songo girato l’Italia fine n’Sardegna, i mai me so scurdato la streppegna. Perché la streppegna è puro ròssa, i parte dalla terra de Vallecorsa: a stù paieso ciaie stato na vota m’so cummosso, quand m’hai llacota. Gli Vallecursani, sonn brava gente; i d fede, crideno agli Santi, ci stào, i ciao stati uomni culla mente; mà, è gliù paieso ch’fece gli briganti. Gli tempi moderni Nà vòta, i teneva n’aseneglio i à peti quasi mai ci camminava, sempre a cavaglio isso me purtava, chesto, quando glio munno era chiù beglio. Allora m’arecordo, se cantava, la gento steva tutta chiù cuntenda: chello poco che teneva, se magnava, i spisso faciavèmo la polenda. La sera passavèmo pè ssi prati iavèmo a truà glio vicino, sembravémo quasi tutti frati: i gl ’òmmeni, sé beveveno lo vino. Mò ammece cù sa cescarìa Coca Cola, aranciata, acqua ’nbuttigliata iamo a magnà, alla pizzeria, i la gente, sa mèsa ruinata. Sa pino dé macchine, i dé motori, sa propia cagnato mò glio munno non sé sentèno più, manco gli addori, se continua accusì, iamo a fùnno. Boni tempi Le serate d’vierno, cu gliù fuoco; Cù nà cannela, tutti a loco attorno chi s’addormeia prima, chi duopo aspettavamo, che se faceia giorno. Stavamo tutti nfacce a gliù cammino, càcruno sé senteia cà ruccava caràuto appuiato a gliù tavulino; prò ntànto gliù fumo te cicàva. Cà vota faciavamo la cummèddia n’ulavamo assére tutti quanti ma cé mancava sempre prò cà sedia cà gli vagluni aveino puro tanti. Tu t’recurdi come stavamo andanno; ne’nsembrava ma stavamo stritti ci capava, sia nò gliù scanno, i nua stavamo boni, zitti, zitti. La televisione ancora nen ci stava cù tutte quante appriesse se frignacce, cù gl ’iorganetto la sera se sunava; ammece mò nte guardi manco nfacce. Gliù cielo, me pareia più serino, gliù mùnno m’appareva tutto d’oro; mò me sembra nà cappa de cammino, i pé gli prati, nen vìri più nù fioro. Resurieno gli figli, cu i neputi ma nè facémo viecchi, puoco a puoco: pùro ca gli ùremo cào crisciuti, pòuri figli, nen tievo più gliù fuoco. A fratemo Resse nà ri fratemo Felicetto: "Nen se putéia campà, chu chelle prete, ando stavamo, a chello de nonno Peppo, a dieleta nen se semmena i nen se miete". Chiglio Fulice, è comme a zù Toro scherzenne t’rice sempe la verità puro ca isso néiè lavuratoro ma a modo sievo cià saputo fa: " Tu ci piensi, se stavamo dieleta ncima pé chigli ravi puro ca fussimo stati bravi nen putavamo fa chello che facemo". Rice: "Si, la costa sarà bella ma ieva bene cinquant’anni fa, ma mo dieleta mméso la murtella me rici: nua che stavamo a guardà? Aspettavamo, che uneia Sant Rocco pé magnarece do cici a la pignata cu na buttiglietta de chinòtto i pareia tutta d’oro la nuttata. Chissi nuòsti mo tietene tutto; machine, pane a grascia i maccaruni nen ce manca mai lu prusutto gni tanto rumpene puro gli cugliuni. S’à chistu munno nen si mai patito, nen può mai apprezzà lu pane bianco; ricune mò, ca sao divertito, ma nen sanno, ca jé me sento stanco". Gliù stradono Mò guardi, i t viri tutto cagnato: la via, gli campi cu i frattuni, quanto beglio tiempo prò a passato da quand’eravamo tutti vagliuni: Gli pennali, fatti du passuni t pare ca mò uno sa scurdato p’l’ufficina chigli tummuruni a chisti tiempi, chi ci avrìa pensato. Quand tu scìvi la mmatina purtivi annante quatte bufole ivi a dà gl ’iaggiro p l’ufficina te ne ive pizzichenne le muricole. L giurnate d vierno, p Teravazzo : te reparivi sotte a ca albuccio, la tagliola acchiappava ca ruazzo mente facìvo gliù spito, cu Ialduccio. Duoppo, appiccivi na cica d fuòco p daret a gli pieri na scallata i p’assucarete ca puòco; ma la schina, saveia già ammullata. Pe si straduni, ce steva tanta fanga: ci passava appena gliù carretto ca vota se rumpéa puro ca stanga; nsomma la fanga, t’arivava n’pietto. Duòppo paricchio, ce riéttene na bricciata i pareia nu tappeto de cimento; rumase cuntenta tutta la cuntrata jé spicialmente, era propio cuntento. Mo alla fine, ciau rato gliò sfalto: i pare c’anno fatto chi sa ché, nsé sa, come hao fatto, a dà s’appalto ma ie prò, gli saccio gliù perché. Bufalari Na sera, me passavo nò pensiero, da ì a’truà n’amico, nò vicino praticamente Aldo de Luigino: pe fa du chiacchiere, e pe di lo vero. Chiacchierenno co’ st’amico, semo fatto nu discurso cuntadino: facennoci pure cà bicchiere de vino, me desse: "Andò, senti che te dico". Parlenne de na questione praticamente sarieno sti bufali, ridenne me desse in conclusione: "Manco a magnà so boni, non so annudi. Chesta è na cosa seria, ci semo carichi de sti cosi niri è tutta fanga dunga tu t’aggiri i nun se vede manco la "materia"… Nua stemo a lavorà pe gli lattari: i cu sta scusa, cà lu latto è troppo le vinneno a prezzo de sciroppo damme retta, stavo a fà gl ’affari. Francia, Pettenicchio, chi ci para d’accordo cò stì raccoglitori nsembra, ma se scagneno gli favori i nui giramo dentro a sta callara. A favore teo puro la legge; latto pulito, culato, rifrigirato, sapemo bìa nua, quand’è custato; ma a nui chi ci protegge?… Nui se sa, gli bufalari n’è na classe troppo istruita, semo reduci de gli pagliari la scola è poca, della vita. Se fussémo no poco più combatti, facissemo la sera ca riunione ammece de guardà la televisione ci guarderemo meglio chisti fatti. Ve pare, se no iaria sto prodotto che fà parte de n’alimentazione, ce gira tutta quanta la nazione si signuri anno fatto terno a lotto". Borgo montano… "Gliù Macchiòno" M’recordo, quant’era nù vagliono: chigli tiempi erene propia biegli, jé steva a monte, a gliù Macchiono, la gente jeva tutta cogl ’aseniegli. Nponda pe chelle prete pi chello de nonno Peppo facenne annande i arrete fin’abballe da zu Richetto. Na rì, stava a balle a gliù puzziglio, vicino a gliù rettale de zu Toro, ‘ndò nonna piantava ca cucuzziglio, cu cà pianta de pimpitoro. Stava allu frisco, d’chella mandla: appuiato mpietto a na macèra, quande m’accuorsi, s’èra fatto séra i nci pensava più a costa retommola. Dòppo m’abbiai capammonte, pe non fà sta mpensiero chigli viecchi: pe la via pensava luntanamente i me truai sotte gli casavicchi. Quant’arrivai, steva nonna Assunta; aspettareme vicino agl ’iuorto i nonno Peppo, m’teneia de pùnta, i zitto zitto me guardave stuorto. Appena che passaie ca minuto, me resse: "Nsì magnato i né bivuto mo cumminzi a ì priésse a cà sbèteca, tiè famo n’è? T’còco la fritteteca". La rumane appriesse era ancora notte, pé l ’aria s’ùreia ancora cà stella, tòcca, ne sbièmmo pé ciammòtte dagliu murciolo, arrivèmmo pe Purtella. Nen d’rico, dapuò stava zù Toro chiglio aveia prupiamente forte la rì se metteva a fa gl ’attoro che s’apozza arajà puro la morto. Duòppo venne patémo nà rumàne m’recordo teneia la lambretta me repurtava a balle, alla Cusane, tra, la via Rumana i la fiumetta. Colle Palombo Spisso, m’arevè sto pensiero: quando me porterno méso sta valle, era piccolo, i me senteva forestiero chelle prete nù voleva lassalle. Patremo, era fatto na casetta arempòsta ncima nò colletto, veramente era no poco stretta; ntorno tanta tera come no fazzoletto. Erano chigli tempi malamente fortuna tenavemo no vicino, i erano davvero brava gente. Ancora ntenavémo gliù cammino, manco gliò puzzo:i non saccio ancora, ndò patremo tullivo stò coraggio à partizze nà matina de bonora cu natro sole, gliù mese de Maggio. Facive nà stalletta de passuni, m’arrecordo gl ’aiutava mamma: i pe cuprilla ienno a fa la stramma perché nui eravamo tutti vagliuni. Gli frate mei ereno npò più grossi, i ao patito forse più de mì saltenne i cadenne pe gli fossi, jé magari steva ancora a durmì. Doppo, i sacrifici s’erano appianati iàvemo verso n’epoca più bella, cò zì Ndoniuccio de Cupella pasciàvemo gli bufali pé si prati. Iàvemo abbeverà pé l’officina, allu frisco ciocavemo a carte, magnenne le muricole pe se fratte l’acqua 'gliù fiume era na medecina. Pé non parlà dapò de Teravazzo, na valle c’ancora porto ngloria la tengo sempre dentro sta memoria i guai a chi ci parla cò strapazzo. Gli pioppi, glio fiume, la frescura: gl ’iaseno cammineva a tutte l’ore paréva cà tenéva gliò motore ci giravémo tutta la pianura. Nò voglio di cu chesto ca me lagno: putaria scrive puro fino a dumane, quando tengo nu pezzo de pane s’acciarepenso non me le mango magno. Chello che so scritto n’è pé vanto, i manco è na storia travolgente: ma vularìa fa sapè alla gente, ca chisto core, spisso ha pure pianto.
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up. 11 sett. 2006