di Conte Mancinella Ebbene sì, lo confesso: provo invidia - una contorta, variegata e insana invidia – per i nostri baldi giovincelli che con le loro scalcinate motorette "ravvivano", soprattutto d’estate, la stanca quiete dei nostri caratteristici vicoli, stuprati dall’afa soffocante, dalle mosche impudenti e dai pizzichi di quei "moschetti" insolenti (patrimonio della nostra umanità) che rappresentano prove inconfutabili dell’esistenza di Dio o, a scelta, di Satana. A Villa S. Stefano, si sa (e chi non lo sa è bene che lo sappia), le notti non sono le solite notti - tutta pace, relax e ronfamenti vari - ma impazza una movida pirotecnica e cialtronesca che non annoia e non disturba, non innervosisce e non insolentisce. Barattoli di coca cola vuoti presi a pedate da improvvisati centrocampisti offensivi, gavettoni che svolazzano e si rincorrono per l’aere sanza stelle, stereo a tutta callara che sprigionano i loro innocui decibel dalle auto parcheggiate a macchia di leopardo anarchico, grida (non chiamatele schiamazzi, prego) che dal Manzanarre rimbalzano al Reno nello spazio di un amen. Proteste, rimostranze, vigili urbani o quant’altro? Niente di niente: a Villa la legalità ha una durata predeterminata, ore 8-14, orario ufficio - poi si chiudono baracca e burattini, arrivederci e grazie tante. Si entra in un’altra legalità, più casareccia e naif, una sorta di zona franca nel corso della quale spariscono le "autorità preposte" e riemerge dal nulla il branco a dare libero sfogo alle bravate serali e notturne. Con la benedizione e la comprensione (so’ ragazzi…) di quanti dovrebbero e non fanno. Del resto, perché meravigliarsi se proprio le suddette autorità hanno avuto, tempo fa, la brillantissima idea di emulare quelli della notte, facendo sparare alle due di notte 24 "colpi scuri", pari alle 24 callare utilizzate per cuocere i ceci della tradizionale Panarda di S.Rocco? Roba da ricovero immediato e a tempo indeterminato. Questo incipit (che andrebbe approfondito, forse) mi offre l’opportunità di riandare indietro nel tempo, a tanti anni fa (sono ormai troppi, accidenti), quando al calar della sera eravamo costretti, noi ragazzi di ieri, a tornare trafelati a casa, dove andava in scena il rito del santo rosario e la frugale cena, prima di andare a nanna. Eravamo diversi, eravamo speciali? Nossignori: eravamo ragazzi effervescenti, come quell’acqua che aiuta la digestione, eravamo spericolati, come quelli che si buttano con il parapendio, eravamo propensi ad allestire casini di ogni risma, ma senza maitresse, ma non ci era data la possibilità. Ce lo impedivano i nostri genitori (altra razza, altra costumanza) che, pur senza conoscere la Montessori e i suoi metodi, ci inculcavano - e c’erano riusciti - una rigida educazione spartana, incentrata su quattro pilastri che non ammettevano spazi di trattativa: il rispetto degli altri, l’osservanza degli orari, la frequentazione della chiesa e/o sagrestia e la paura. Ecco, la paura che ci induceva a camminare muro-muro costituiva la caratterizzazione più saliente della nostra iniziazione alla vita. Tutto era paura e tutto era riconducibile alla paura. Eravamo appena nati e già la paura si materializzava alla fonte battesimale, sotto l’organo della chiesa, dove il prete di turno brandiva l’aspersorio benedicente a mo’ di clava, quasi a zittire i nostri alti lamenti per quell’acqua fredda che ci aveva riversato sulla fronte. Perché non scaldarla un po’ quella bene/maledetta acqua? Ma non potevamo parlare, per ovvi motivi, per cui zitti e mosca. A quest’inizio problematico sarebbero, ahimè, seguite altre e ben più incisive prove tecniche di terrorismo. Quando iniziava il periodo delle pappette, entrava in scena il lupo cattivo. "Se non mangi, arriva il lupo". Il lupo non arrivava mai, ma lo scopo dei nostri genitori giungeva sempre in porto: farci mangiare e ingozzare di intrugli di dubbia provenienza e di ancor più dubbio gusto. Più ingrassavamo e più erano contenti. Eravamo come maiali allevati con la glianna, destinati alla vendita sotto Natale. Un figlio smilzo, magro e filiforme era vissuto come una tragedia. Ma il lupo, pur ritardatario, veniva evocato dalle nostre mamme anche nelle cantilene pre-sonno " …questo bimbo a chi lo dò? Lo daremo al lupo nero che lo tiene un anno intero". Addirittura! Chiudevamo gli occhi alla svelta e iniziavamo a girovagare tra i monti e le valli di questo meraviglioso (forse) paese, scappando a gambe levate per sfuggire alla bieca fiera. Siccome le bugie hanno le gambe corte, col tempo avevamo capito la furbata dei nostri genitori (eravamo, forse, ingenui, ma non fessi). Ma l’antidoto alla nostra sgamata era lì bell’e pronto: il lupo andava in pensione per essere sostituito da un’altra minaccia ben visibile e ben corposa: Pippo! "Se non mangi, arriva Pippo." Pippo, chi era costui? Un omone corpulento - una brava persona - che si piantava all’improvviso di fronte al nostro sgomento e, strabuzzando gli occhi come Caronte dagli occhi di bragia, ci inquisiva con un perentorio "hai mangiato oggi? Biascicavamo farfuglianti risposte affermative, senza convinzione e senza convincere, ma per una settimana mangiavamo di tutto e di più perché la minaccia di Pippo non sembrava una esercitazione letteraria. Pippo se la rideva, molto meno noi derelitti costretti a sostare ore interminabili di fronte alla mangiatoia. Con il terrore del lupo e di Pippo riuscivamo a sfangare la fase iniziale della nostra grama esistenza per entrare a vele spiegate all’asilo delle monache, dove eravamo costretti a scoprire un’altra grave minaccia: suor Armida. Ci accoglieva, fin dall’inizio, con sospettosa e annoiata diffidenza, come se quel lavoro l’avesse in gran dispitto. Ma la presenza ingombrante e asfissiante di suor Armida (spero che il Padre che tutto sa e tutto ha visto l’abbia accolta come si deve all’ingresso della porta celeste) era una bazzecola a confronto di un altro mostro: Gioia! Era una figura cavernicola che si aggirava ai piani alti dell’asilo dove nessuno, dicasi nessuno, doveva andare a ficcare il naso. Un limite invalicabile, come le mura delle caserme militari. Cosa c’era, cosa si nascondeva e cosa avveniva al piano superiore di quel casermone-ghetto, donato alla popolazione (e non alle monache, come in effetti per anni si era preteso che fosse) dal padre nobile della nostra cittadella, il card. Domenico Jorio? Illazioni, sospetti, insinuazioni, maldicenze e dicerie si sono rincorse nel tempo, ma senza costrutto e senza certezze. L’unica certezza era Gioia, quella presenza inquietante - mezza donna, mezzo uomo e mezzo pesce avariato – che se ne stava lì acquattata in attesa di sbranare eventuali, sciagurati renitenti alle ferree disposizioni vigenti in quella casa chiusa ad occhi indiscreti. Per vari anni l’incubo Gioia ci accompagnò di pari passo con la speranza di una insperata liberazione. La liberazione avveniva con il nostro ingresso alle scuole elementari. Finita la paura? Macché: le bacchettate dei maestri, gli schiaffoni degli stessi, i quattro in pagella e i manrovesci dei nostri genitori per le immancabili marachelle (chi non ne ha fatto almeno un centinaio, alzi la mano) costituivano il nostro pane quotidiano, come il fallone (che schifo!) che eravamo costretti a trangugiare a pranzo, a merenda e a cena. Significativa la scenetta - sempre la stessa - che avveniva sotto i nostri occhi atterriti quando un nostro genitore incontrava il maestro. "Sor maé, accume uà?" e quando il maestro rispondeva con il solito grugnito "Insomma…" l’invito che ne susseguiva era agghiacciante "Tira, sa’". Inaudito, i nostri genitori incitavano i maestri ad alzare le mani sulle nostre imberbi gote, e quelli non se lo facevano ripetere due volte. La vostra domanda, cari lettori concittadini di sventura, l’ho già intuita, cosa credete? "Convivevate con la paura e sta bene, anzi male, ma non avevate mai un momento di relax, di svago, di gioco?". Certo che sì. In piazza - allora con un manto stradale fatto di terriccio e pietruzze bianche - avevano istallato dei sedili rettangolari di granito (o quasi) color crema pallido. Fatto il sedile, trovato il modo di giocarci su. Con un pezzo di carbone (pennarelli? E chi ce li aveva?) tracciavamo il diagramma apposito e iniziavamo estenuanti partite a fulminino, una sorta di filetto (mi pare), mentre le bambine giocavano "a campana". Iniziavamo, ho detto, ma non riuscivamo mai a portare a termine nessuna partita, perché all’improvviso - puntuale come la bolletta, salata, di Acqua Latina (che Dio l’abbia in gloria!) - si materializzava la guardia comunale - il mitico Angelo Maria - con tanto di cinturone, fondina e pistola scarica. "Vi mando a sbattere la testa per le scale della pretura di Ceccano", iniziava ad apostrofarci il tutore della legge, mentre in fuga precipitosa ci chiedevamo che male avessimo fatto, ed ancor oggi me lo chiedo e vorrei chiederlo all’arcigno (ma era un innocuo atteggiamento) vigile urbano che, un dì, ebbe a proferire ad un collega di Roma, conosciuto in occasione dell’Anno Santo, la celebre confessione " Come ti capisco, caro collega, pensa che a Santo Stefano c’è uno stop che mi sta a leva’ la pelle!". Era l’unico stop del nostro ridente e sghignazzante paese. L’ultima paura - poi altre paure ed altre ossessioni ci avrebbero condizionato la vita - l’avevamo il fatidico giorno dell’acquisizione della patente automobilistica. Nessuna felicitazione ma un solo, martellante consiglio " Guida l’auto sapendo che dietro ad ogni curva c’è un carretto trainato da un asino stanco". E quanti carretti ci sono in giro? E quanti asini? Ma alla fin fine queste paure e questo terrorismo domestico e artigianale non ci hanno impedito di vivere la nostra vita, di esplorare fino in fondo il nostro percorso professionale e le varie e complesse problematiche esistenziali. Giunti al termine di questo excursus sulle nostre paure e le nostre torture psicologiche, è giocoforza tornare, come si dice, a bomba, alle considerazioni iniziali sulla movida che ai giorni nostri strapazza il paese. Eravamo fessi noi o troppo scatenati e impuniti questi ragazzi di oggi? Quant’è dura e difficile la risposta! Il mondo è cambiato, è cambiata la scuola, sono cambiati i vigili urbani, le monache e i preti. Ma sono cambiati, soprattutto i genitori. Oggi, questi genitori (con una spiccata prevalenza delle genitrici) li ritroviamo accasciati sulle sedie allo sbocco delle cantrocce a combattere una durissima battaglia contro l’afa opprimente e il tempo che sembra essersi fermato sotto la loggia. Perché non ammazzarlo - questo tempo crocefisso sulle pietre arroventate della piazzetta - dedicandosi allo sport preferito dalle nostre massaie, quello del taglia e cuci? I figli? E chi li vede? Chi li sente e chi se ne cura? Chi si trova a transitare dalle parti di questi crocicchi è un uomo perduto: viene fotografato (chi è? A chi è figlio?), indagato (è sposato, quanti figli ha?), valutato (si crede ‘sto cazzo e non si ricorda di quando portava le pezze al culo), radiografato (sta male, poveraccio, non so come va a finì….)- ma è sin troppo chiaro che se ne fregano allegramente dei suoi livelli di colesterolo - vivisezionato (ha litigato con la suocera e la moglie sembra che..)- e i punti di sospensione lasciano intuire imbarazzanti situazioni di corna e quant’altro - tagliuzzato (s’è fatto presta’ i soldi dal compare e non ce li vuole restituire) e definitivamente liquidato tra reciproci ammiccamenti di consenso (mo’ uà alla cantina a beua e dopo va a tira’ alla moglie). Avanti il prossimo. Chi intende sottrarsi al massacro deve studiare percorsi alternativi per evitare l’impatto con le erinni del gossip. Per andare, ad esempio, dalle case spallate alla piazza è assolutamente esiziale evitare le forche caudine di via Lata e quelle altrettanto insidiose della preta caudata. L’alternativa? E’ bell’e pronta: dirigersi dalle case spallate verso San Sebastiano, utilizzando la rampa che rasenta il palazzo Marchese dove si trova lo studio dell’affermato cardiologo Franco Cesaro (è consigliabile una visita di controllo, non si sa mai); imboccare con decisione la strada che porta al cimitero, toccando ferro ed altri aggeggi più a portata di mano; affrettare il passo perché anche da quelle parti le erinni non scherzano; arrivati alle Fontanelle, piegare a sinistra e inoltrarsi lungo il bel viale alberato che conduce a San Giovanni; svoltare con precauzione ancora a sinistra (dopo i risultati del Referendum, a destra non ci vuole andare più nessuno) verso la Madonna dello Spirito Santo, con annessa preghiera di rito, ammirando, lungo il percorso, la collina di Drento e la fontana della Rentra; respirare profondamente di fronte alla cona della Madonna delle Grazie - altre giaculatorie - perché di lì a poco si dovrà affrontare la cima Coppi un terribile strappo al 40% che vi porterà sani e salvi in piazza, dove vi siederete e non vi alzerete più. E intanto si fa sera. I vigili hanno staccato da un bel pezzo, i carabinieri sono a Giuliano, le madri sono ancora lì a spettegolare: è l’ora tanto attesa della caciara. Si salvi chi può e chi non può non si scoraggi: domani sarà ancora peggio. Ma in conclusione mi sento di affermare che tra i ragazzi di ieri e quelli di oggi non c’è molta differenza, come si sarebbe indotti a credere. La differenza la fanno altri soggetti, altri comportamenti ed altre negligenze. Tutto qui.
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27.3.2012 |
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