come eravamo

VILLA, SPORT E CEMENTO

Che lo sport faccia male è una verità ormai universalmente acclarata, assodata e codificata; sono rimasti solo i medici a bofonchiare il contrario e a ripetere la decrepita litania della mens sana in corpore sano. I medici, si sa, sono sempre in ritardo con i tempi che volano veloci come i neutrini, e si mostrano sempre più restii ad ammettere le novità scaturite dall’esperienza quotidiana più che dai trattatelli pseudo scientifici. Ma lo sport fa male, ne sono certo. State a sentire.

Quando eravamo bambini giocavamo a palline, uno sport caratterizzato da alcune regole-capestro: le pezze a fuoco, che indicavano la presenza di ostacoli lungo il percorso, il frucquio, che determinava la distanza minima tra una pallina e l’altra, la buca dove occorreva indirizzare le palline altrui con abili colpetti di prestigio. Stavamo per ore in ginocchio e ci alzavamo, alla fine, con un terrificante mal di schiena. Tutti i nostri vecchietti che vediamo ingobbiti e ricurvi aggirarsi per viuzze e cantrocce sono, senza dubbio, ex giocatori di palline. Dunque: fa bene lo sport?

Poi venne il gioco del picchero, una specie di trottola ma con delle drammatiche complicanze psicologiche. Il picchero, a forma di piccola pera di legno, era azionato da una lunga cordicella - la zagaglia – che gli consentiva di roteare vorticosamente in un’area delimitata da un cerchio entro il quale avvenivano tragedie inenarrabili. Chi, infatti, prevaleva nell’infuocata tenzone aveva il diritto di infliggere al picchero del rivale micidiali fendenti con la punta di ferro del proprio attrezzo: erano gli gnogni che costituivano perniciose pugnalate al nostro cuore, prima ancora che al nostro picchero. Vorrei vedere in faccia chi afferma che lo sport fa bene.

Quando iniziavamo a indossare quegli orripilanti calzoni alla zuava, il gioco si faceva ancora più complesso e articolato. Giocavamo a "uno monta", un autentico calvario per chi, inviso alla sorte, era costretto a inculupuzzarsi - piegarsi ad angolo retto - per permettere alla ciurma di pestiferi ragazzi di saltare sulla sua groppa, devastandola, mentre si recitavano alcune precise parole d’ordine. Chi sbagliava, chi incespicava e chi non eseguiva a regola d’arte gli esercizi imposti dal manuale del gioco, era costretto a prendere il posto dell’inculupuzzato. Disposti in fila indiana, iniziavamo a saltare, uno dopo l’altro, recitando la seguente filastrocca: Ostia, uno monta, due al buco, tre la figlia deglia re, quattro lo spazzino, cinque botta culata, sei olé incrociata, sette or giggetto, otto lo sparanetto, nove ‘na cica di prova, dieci timbro e posta, undici la mora dei surici, dodici ultimo sparanetto.

La nostra perfida indole pecoreccia era racchiusa in quei dodici comandamenti che si consumavano sul corpo indifeso e rassegnato dell’inculupuzzato. Lo sport fa bene? Chiedetelo a lui!

E il calcio? Poteva mancare lo sport più amato dagli italiani? Non poteva. Le cronache ci tramandano da zio a nipote – e con dovizia di particolari - le infuocate partite tra Villa e Giuliano all’improvvisato stadio delle Case Spallate. Era il derby della ciocia, giocato con le mani, più che con i piedi, perché spesso la rissa prevaleva sulle coordinate tattiche del 4-4-2. Ci ritrovavamo ammonticchiati sul muretto che separava lo stadio con i bassifondi della ‘Urizia a trepidare per i nostri eroi che si battevano con indomito ardore contro le orde degli infedeli, scesi con tracotante baldanza dalle ventose cineta.

Ecco Mariopio, sgusciante ala destra di lotta e di governo, che si incuneava tra le trincee nemiche come forchetta nel burro; ed ecco Dante, possente mezz’ala d’attacco che anticipava le movenze e le gesta di Di Stefano; e che dire di Luigino-la luna, deputato a tenere lontano dalla nostra area di rigore le temerarie incursioni delle falangi nemiche con interventi stile kung-fu? E il portiere? Vittorio Planera volava da un palo, o meglio da una giacchetta all’altra (sostituivano i pali) con uno stile e una prontezza che sarà in seguito imitata da Zoff. Completavano la squadra altri gregari (quelli chiamati a portare la croce e gridare ammén) che facevano il cosiddetto lavoro sporco, soprattutto quando si passava dal fioretto alla sciabola, ovvero dalla palestra al ring, insomma quando giungeva il momento di fare a cazzotti.

Ci fu poi la breve ma intensa esperienza della squadra targata Libertas, quella, per intenderci, dello scudo-crociato-pane-assicurato, guidata dal mitico Peppone. Con il cambio di casacca cambiò anche l’avversario e cambiarono, purtroppo, anche i risultati: le partite soporifere con Amaseno si conclusero quasi sempre con pesanti rovesci.

Ma la storia cambiò quando le incombenze elettorali catapultarono Andreotti - sì, quello del bacio a Totò Riina - nel nostro paese. Tra una sonata della banda musicale (oh, bianco fiore, simbolo d’amore la più gettonata) e l’immancabile salva di fuochi artificiali, trovammo il coraggio di chiedere all’illustre ospite la fornitura - in cambio dei nostri voti, naturalmente - di un consono abbigliamento sportivo per la nostra squadra in allestimento in quei giorni. Sarà pure un Belzebù quell’Andreotti ma le promesse le sa mantenere: arrivarono in quattro e quattr’otto 11 maglie giallo-canarino e 11 calzoncini bianchi sfioccati.

C’erano le maglie ma non c’era ancora la società. A chi affidarla? A chi aveva del grano da regalarci, ovviamente. Non ci fu bisogno della zingara per indovinare il prescelto: il dott. Pezza, il nostro medico condotto, un personaggio molto discusso e molto chiacchierato nel nostro paese, ma un cardiologo con le palle e un amico che non posso dimenticare perché si dimenticano le mezze cartucce, non i geni (chi non è d’accordo mente per la gola, sapendo di mentire). A completare lo staff societario furono assunti come allenatore Ruggero, ora non più tra noi, purtroppo, e Memmo za’ Juccia come tesoriere, l’unico tra noi a prova di bomba, colui insomma che non avrebbe mai avuto la tentazione di allungare le mani su qualcuno o qualcosa. Ma il dr. Pezza se ne intendeva di squadra e di calcio?

Questo legittimo interrogativo, non del tutto peregrino, fu subito spazzato via dal diretto interessato. "Squadra, calcio, società, gestione? Niente paura, mi comprerò dei libri e sarà tutto risolto", rassicurò il Presidente in pectore con quella sicumera che nascondeva un filo di timidezza e che chi non lo conosceva giudicava come spocchia. Non solo comprò libri e riviste, ma si prese la briga anche di interrogarci nel corso delle frequenti riunioni tecniche. "Che fa il battitore libero? E il terzino fluidificante? E lo stopper?". Un’angoscia, soprattutto per Ruggero, il mister, che sentiva sempre più la corda dello scetticismo generale stringersi sempre più intorno al collo. " Senti, Ruggero - gli disse una sera a bruciapelo – che fa un mediano metodista?". E Ruggero, con le spalle ormai rasenti il muro e con i nostri occhi puntati su di lui come le frecce su San Sebastiano, si allentò la cravatta, strabuzzò gli occhi, prese un bel respiro e soffiò: " Se sapiss….".

Nonostante l’entusiasmo, nonostante la buona volontà, nonostante l’innesto di giocatori esterni, come l’eclettico Mario Lampazzi, il Maradona della Palombara (non passava mai la palla), i risultati sul campo erano assai deludenti, per non dire raccapriccianti (come quelli dell’Inter di quest’anno 2011). Nella storia del calcio ciociaro non abbiamo lasciato segni persuasivi del nostro passaggio, ma soltanto il dubbio sul primo tentativo di ricorso al doping per favorire l’inversione di tendenza di alcune partite. Avvenne che un dì, nell’intervallo di una partita iniziata male e che si presumeva finisse peggio, Pezza si precipitò negli spogliatoi e mi consigliò/impose di assumere una pasticca bianca. Obbedìi, ma con esiti invero modesti. Questa pratica si perpetuò nel tempo e all’inizio di ogni secondo tempo dagli spalti risuonava la voce possente di Pezza che mi urlava "Pietro, hai preso la pasticca?". Figuratevi i tifosi delle squadre avversarie: un inferno di insulti. Seppi, poi, che trattavasi di innocenti pasticche di glucosio. Sarà…

Nella Polisportiva Villa il nuoto, forse, era lo sport meno praticato. Eppure se il fiume Amaseno potesse parlare, ci racconterebbe delle epiche gesta di un’intera generazione di giovani che hanno imparato a restare a galla, per lo meno, pescollando nelle gelide acque del Muraccio, una specie di piscina campestre che alimentava una incantevole cascatella, il nostro orgoglio e l’oggetto di ammirazione di quanti avevano l’avventura di transitare da quelle parti. Ora quella cascata non c’è più: l’hanno cancellata, profanata, oltraggiata certi lanzichenecchi del cemento che, chiamati a mettere in sicurezza il fiume, hanno dimostrato al colto e all’inclita di cosa sono capaci i barbari sguinzagliati in licenza premio a far razzia di cose e di beni.

Avremmo dovuto precipitarci al fiume con i forconi per infilzare le chiappe di quei vandali senza patria e senza pudore, e del tutto incapaci di capire la differenza tra una rosa e una cotica. Non l’abbiamo fatto perché siamo un popolo pacifista? O perché menefreghista? Diciamoci la verità, a bassa voce e senza farci riconoscere: siamo un popolo di grandi virtù e di grandi qualità (quasi tutte ben nascoste, per la verità), ma a volte si percepisce una sgradevole e preoccupante carenza di senso estetico, di cultura del bello e, soprattutto, di fierezza della nostra identità, delle nostre tradizioni e della nostra storia. Siamo cittadini "usi obbedir tacendo" di fronte a talune nefandezze che tendono a seppellire dietro una colata di cemento ogni speranza di progresso civile di questo paese, di recupero della sua memoria storica e di rispetto - sì, di rispetto – della propria dignità.

Siamo riusciti persino a consentire l’apertura di una finestra moderna e ben cementata nella torre di re Metabo, quello che salvò la figlia Camilla scagliandola con una freccia oltre le sponde del nostro fiume, avvolta nella corteccia di un albero. Anche questa torre, uno degli ultimi simboli della nostra tradizione, ha dovuto soggiacere a quel provincialismo culturale che sembra essere sempre più un’ inquietante testimonianza del nostro pressappochismo morale e civile. Mi piange il cuore nel confessare la verità sulla nostra inadeguatezza e, soprattutto, sulla nostra trascuratezza nell’attribuire al "diritto all’indignazione" il senso e il valore di una prerogativa non negoziabile e non opprimibile.

Amicus Plato - diceva Aristotele - sed magis amica veritas. La verità va detta, anzi urlata, soprattutto quando taluni tecnocrati senza cultura e senz’anima sembrano tendere a sequestrare il paese, imprigionandolo all’interno delle catacombe della loro inadeguatezza e rischiando di portarlo sulla via senza ritorno dell’involuzione e della decadenza morale e civile. Il mio diritto all’indignazione lo voglio difendere, affermando con chiarezza il mio dissenso su scelte cervellotiche e del tutto incomprensibili e avvertendo - per quel che può valere il parere del conte Mancinella - chi di dovere " fate pure, ma non in mio nome".

Mi riferisco all’ultimo oltraggio, in ordine di tempo, al nostro paese che è in corso d’opera: il cosiddetto recupero del nostro centro storico. Se la lingua italiana ha diritto ad essere imparata, conosciuta e rispettata - ma a questo punto nutro fortissimi dubbi - un’opera di recupero, di restauro e di valorizzazione di qualcuno o di qualcosa non può e non deve derogare da un assunto incontrovertibile: ciò che c’era prima, punto e basta. La volta della Basilica di Francesco ad Assisi è stata restaurata, dopo il terremoto, con gli stessi materiali travolti dal sisma, non con travi di cemento armato per rafforzarne la tenuta, e così è stato per Firenze, per la Cappella Sistina e per le migliaia di restauri in corso in tutt’Italia.

A Villa, invece, si studiano e si progettano procedure e restauri cervellotici, come se si volesse infilare una tuta sportiva Adidas al corpo di Cristo nella Pietà di Michelangelo, per protegerlo dal freddo. Cosa c’era "prima" nelle mura del nostro paese? Pietre, forse calcinacci, e quelle devono essere ripristinate. Nossignori. Una bella colata di cemento, una raffazzonata opera di stabilitura cementizia, magari imbellita a cose fatte con una leggiadra tinteggiatura giallo-cacarella: questo è il progetto dei lanzichenecchi nostrani. E le Belle Arti che dicono, che fanno? E Italia Nostra dov’è? E gli archeologi che collaborano con questa rivista e che, per certi versi, fanno un’opera meritevole di recupero, di conoscenza e di divulgazione dei reperti della nostra tradizione perché tacciono? Perché vanno a infrattarsi tra gli impervi sentieri che portano al covo di Fra’ Diavolo e non si accorgono dello scempio perpetrato a cinque centimetri dal loro naso? Mistero.

Dicono che il finanziamento originario sia stato dimezzato. E allora? Fate, e bene - rispettando la nostra storia - quel che i finanziamenti ridotti vi consentono e non vi macchiate di una ignominia invereconda; oppure sbattete in faccia alla Polverini i suoi trenta danari; ovvero, statevene a casa a cucinare le caldarroste (ma incidetele, prima, per non farle scoppiare; dai tecnici senza cultura e senz’anima ci si può aspettare di tutto); in ultima istanza, in nome di Dio fermatevi, astenetevi ed evitate questo oltraggio - che nessuno vi perdonerà - alla nostra dignità, alla nostra intelligenza e alla nostra tradizione. Una tradizione che si difende non solo con le minestre di pane nelle nostre sagre (ce la mettete la iuosa?) ma con la ferma determinazione a riappropriarci del nostro diritto-dovere di decidere sul passato e sul futuro di questo tanto amato quanto sfortunato paese.

Morale della favola: lo sport, come abbiamo visto, fa male, ma i lanzichenecchi del cemento ancora peggio.

<<< come eravamo

 

Le "cascatelle" delle Mole dopo i lavori, 22 marzo 2012

27.3.2012

 

www.villasantostefano.com

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