Cap. I - LA VALLE DELL'AMASENO NELL'ANTICHITÀ E DURANTE IL PRIMO MEDIOEVO

La valle dell'Amaseno s'addentra dalla piana pontina come un ampio golfo verde tra gli ultimi contrafforti dei monti Lepini che separano la valle del Sacco dalla costa tirrenica e gli Ausoni, che risalendo dal mare di Terracina si addossano agli Aurunci per chiudere il Basso Lazio e dare accesso alla Terra di lavoro e al Regno.

Ai suoi approcci fa guardia la volsca Priverno, una volta etrusca, e dalle montagne circostanti si affacciano i castelli di Roccasecca, Roccagorga e Maenza; risalendo poi il corso del fiume verso levante, la valle si restringe per un tratto, allargandosi nuovamente in una insenatura fra le possenti pile calcaree dei due sistemi montuosi, con gli Ausoni che calano quasi a picco sulla riva del fiume, mentre l'asprezza dei Lepini viene addolcita da una serie di colli in declivio formati da materiale eruttivo proveniente dal vulcano laziale.

Dominano l'alta valle le vette di Cacume e Gemma verso settentrione e quelle dei monti delle Fate e Calvo a mezzodì; sulle alture sorgono cinque antichi paesi: Amaseno, già S. Lorenzo, presso le fonti del fiume; Villa S. Stefano, Giuliano di Roma e Prossedi a mezza costa sui Lepini, e Pisterzo, il più piccolo, annidato sopra un alto dosso degli Ausoni.

Il carsismo in queste montagne favorisce la circolazione di acque sotterranee e la formazione di numerose doline, inghiottitoi e voragini di varia grandezza, dette localmente ousi, volubri e catausi (1); scorrendo a valle, queste acque riaffiorano dalle falde tufacee in sorgenti e fontane che vanno ad alimentare i fossi e i rivi. Il fiume Amaseno, il virgiliano «Amaseno pater », ha le sue origini in una infinità di rivoli che scaturiscono ricamando di acque i colli di Vallefratta e che s'incontrano, s'incanalano, scompaiono nel sottosuolo e riemergono in fonti e stagni per riunirsi finalmente a dar vita con forti getti d'acque al fiume: « Amasenus abundans spumabat ripis ».

Il fiume, lasciata la conca da esso scavata, va a battere contro la base degli Ausoni per filare quindi verso Priverno ed oltre, raggiungendo l'agro pontino passato Fossanova dove, fino a non molti anni fa, si perdeva nella palude presso l'Appia con l’Ufente (2).

La storia della valle dell'Amaseno è stata determinata in gran parte dalla presenza dei due valichi della Palombara e di Vallefratta che sono i primi, dopo quello dell'Algido, ad offrire un agevole attraversamento degli impervi monti Lepini — una volta chiamati monti Volsci — dalla valle Latina verso il mare. Per questi valichi si erano mosse fin da tempi antichissimi le transumanze appenniniche dirette ai più miti e abbondanti pascoli pontini; e per queste strade scesero, tra il finire del sesto ed il principio del V sec. a. C., le tribù volsche del Liri-Sacco e delle zone preappenniniche con i loro birocci carichi di vecchi e bambini, i plaustri colmi di attrezzi agricoli e le mandrie belanti, ad occupare questa valle, alla quale dettero il nome di Amaseno dalla zona montuosa tra Veroli e Collepardo da dove alcuni di essi provenivano, usandola come base per la conquista della costa tirrenica dove tramontava l'egemonia etrusca. Virgilio, nel drammatico racconto della fuga di Metabo e Camilla, ci dà un quadro molto vivido dell'aspro paesaggio che si apriva anticamente sulle sponde dell'Amaseno (3).

L'occupazione volsca della pianura pontina fece della valle dell'Amaseno l'entroterra di questa bellicosa confederazione che venne ad estendersi dalla leggendaria Ecetra nell'alta valle del Sacco ad Anzio, e che per due secoli circa contrastò caparbiamente l'avanzata di Roma verso il meridione.

L'importanza strategica della valle derivava dal fatto che il dorsale dei monti Lepini era occupato dalle colonie latine di Cori, Norba e Segni alleate di Roma, e solo attraverso la valle dell'Amaseno si potevano mantenere i rapporti sociali ed i collegamenti logistici della nazione volsca durante tutta la sua lunga belligeranza contro Roma. L'insediamento nella valle risultò nell'assorbimento delle genti autoctone, etnicamente e culturalmente affini ai Volsci; e da queste terre vennero, nei secoli che seguirono, non solo risorse materiali necessarie alla guerra ma soprattutto, come ci narra Tito Livio, quella « innumerabilem multitudinem liberorum » che i Volsci, « aeterni hostes », misero in campo contro Roma; e quando vennero finalmente sconfitti e soggiogati, i Romani fecero strage della popolazione, esiliarono i notabili dall'altra parte del Tevere, confiscarono le loro terre e incorporarono l'area pontina con la valle dell'Amaseno nella tribus oufentina.

Ma se i romani ebbero successo nel far scomparire questo ardito popolo dalla storia, non riuscirono però a distruggere la razza volsca, in molti casi sopravvissuta etnicamente fino ai nostri giorni (4).

La sconfìtta dei Volsci spostò l'asse della politica romana lungo le direzionali che divennero poi le vie Appia e Latina, tagliando la valle dell'Amaseno fuori delle strade di comunicazione. Le genti volsche vennero integrate nel sistema giuridico-amministrativo dei vincitori, ed i villaggi vissuti fino allora senza alcun nesso politico oltre a quello del sangue, con i coltivatori ed i pastori sparsi per i colli ed i monti, furono inquadrati nel sistema pagense che rispondeva più immediatamente alle esigenze della politica espansionistica di Roma; il processo d'integrazione nella civitas, ovvero cittadinanza romana, venne facilitato anche dal fatto che le genti laziali, i Volsci tra esse, avevano una credenza religiosa comune e si radunavano in santuari, nei boschi e presso fonti, a celebrare con riti agresti e lustrali il ciclo persefonico delle messi; sommersi così nella romanità, anche i Volsci provvidero le leve per gli eserciti che marciarono alla conquista del primato nel Mediterraneo prima e nel mondo dopo.

Durante il periodo repubblicano la valle rimase appartata, colta solo dagli strascichi delle ondate di storia quali furono le guerre puniche, sociali, servili e civili; ma sotto l'impero, con l'esacerbarsi delle condizioni sociali e l'intensificarsi delle vessazioni economiche e delle persecuzioni religiose, gruppi ed individui al margine della società urbana — schiavi fuggitivi, liberti spiantati, debitori insolventi, giudei e cristiani — cercarono rifugio in zone non distanti da Roma, ma impervie abbastanza per assicurare loro una certa pace; e vennero anche nella valle dell’Amaseno, dove si insediarono in aggregati di abitazioni al di fuori della comunità rurale, alla vita della quale parteciparono indirettamente con servizi, commerci e manodopera bracciantile. Il cristianesimo offrì a questi gruppi socialmente diversi — fatta eccezione di quello ebraico che si teneva rigorosamente appartato — un punto d'incontro che rese possibile la costituzione di una nuova comunità, con l'aiuto anche di fattori temporali che andavano maturando nell'ambito della organizzazione ecclesiastica.

Mancando un potere politico immediato, la giurisdizione di molte terre pubbliche nel Lazio era caduta nelle mani della Chiesa che le amministrava attraverso i suoi rappresentanti locali, vescovi ed abati. Con alacre spirito d'iniziativa, questi funzionari ecclesiastici videro chiara la necessità di integrare con le finalità religiose del loro ministero un programma di sviluppo economico nelle arti e nei mestieri e soprattutto nell'agricoltura con il recupero alle coltivazioni di quelle terre che negli ultimi secoli, per ragioni politiche ed economiche, erano state abbandonate al pascolo; si ebbe cosi una notevole estensione di colture essenziali di cereali, ulivi e viti.

A rafforzare questo piano di sviluppo venne il programma di risanamento dell'agricoltura messo in atto da papa Zaccaria con la creazione in varie zone del Lazio delle domuscultae e massae, vere aziende agricole, che accentravano tutte le attività economiche delle comunità in esse comprese intorno alla parrocchia; in questa economia comunitaria si integrarono le attività artigiane ed agricole dei vari gruppi e fornirono la base alla nascita del comune rurale; e a questo sforzo non mancò l’apporto degli ebrei, sempre circospetti, nel campo professionale e del commercio.

L'VIII sec. d. Cr. vide un notevole ritorno di vitalità nelle terre del Basso Lazio con un miglioramento della situazione economica, sociale e demografica. Fiorirono le domuscultae di Norma e Ninfa e quella di Ceccano, le diocesi di Tres Tabernae sull’Appia e di Terracina e quelle che furono poi le grandi abbazie di Marmosolio, Malviscido, Valvisciolo, di S. Stefano poi ribattezzata S. Maria di Fossanova, di Casamari.

Situata al margine di queste zone, la valle dell'Amaseno ne risentì gli effetti benefìci; molte delle terre arcifiniae della zona diventarono beni allodiali dei grandi monasteri lavorate da coloni locali che dipendevano dalle amministrazioni abbaziali, mentre i vecchi proprie-tari continuavano a coltivare le terre patrimoniali.

Mentre questo processo di ristrutturazione economica e risanamento civile e sociale sembrava avviato a plasmare una società nuova intorno all'ossatura giuridica di quella romana, altre forze s'inserirono nella dialettica degli eventi che condizionarono profondamente questo sviluppo.

Le ondate di barbari che si riversarono sull'Italia dal nord alimentarono un lungo periodo d'instabilità nelle cose politiche e di pessimismo e disperazione nelle popolazioni; sempre in cerca di ville, santuari e città da saccheggiare, essi riscoprirono le strade traverse della penisola, e i valichi della Palombara e di Vallefratta, da secoli abituati al silenzio rotto solo dal belare degli armenti e lo scorrere delle acque, risonarono del nitrito di cavalli e del tintinnio di armi e finimenti, « Goti e Vandali, Franchi e Longobardi, Alemanni e Saraceni... tutti hanno abbeverato i loro cavalli nelle onde dell'Amaseno » (5).

I barbari non indugiarono a lungo in queste valli dove i beni da saccheggio erano scarsi, ma i più ambiziosi tra i capibanda, arimanni e condottieri al seguito dei rè barbarici, colsero l'occasione per crearsi domìni personali insediandosi nelle antiche roccheforti laziali da dove potevano comandare le campagne vicine e le strade di comunicazione usando il loro potere militare per esigere tributi e pedaggi. Per rinforzare la propria posizione di comando, mandavano i cavalieri del loro seguito ad occupare posizioni chiave sui monti e nelle vallate circostanti consolidando il loro controllo sulle popolazioni che se anche politicamente libere dovevano comperarsi la protezione di questi prepotenti signori. Si era venuta a creare così una nuova fonte di potere politico, basato sulla forza, al di fuori di quello imperiale e della Chiesa e al di sopra delle libertà comunali.

Quando poi la questione della sovranità politica nel Lazio fu risolta con la creazione del potere temporale della Chiesa, quei signori che in Campagna e Marittima occupavano Molara, Segni, Anagni, Ceccano, Fondi, Terracina, Acquapuzza ed altre rocche, s'infeudarono al nuovo sovrano, il pontefice, ottenendo così il riconoscimento giuridico dei poteri che avevano ottenuti de usur-patione.

Tra l’VIII ed il IX sec., i cavalieri al seguito dei conti di Ceccano avevano occupate posizioni di forza nelle alture lungo tutta la valle dell'Amaseno dove avevano messe su torri e forti per alloggi e difesa; nell'alta valle la più importante di queste rocche era quella di Giuliano, o Loliano, che guardava il passo della Palombara, e che con quelle sussidiarie nei siti che poi diventarono Prossedi e S. Stefano controllavano i movimenti nella valle anche quelli provenienti da Vallefratta; dopo queste tre rocche, veniva quella di Pisterzo — Post Tertium — sugli Ausoni che serviva da vedetta sulla bassa valle e la piana di Priverno.

I conti di Ceccano conservarono a lungo il loro controllo sull'alta valle dell'Amaseno, e al tempo della più grande espansione durante il principato di Giovanni I anche la bassa valle venne in gran parte sotto il loro dominio, che arrivò fino a Sezze. La valle fu così divisa in due sfere d'influenza, la bassa valle legata alle vicende di Priverno e Terracina, mentre l'alta valle venne coinvolta negli affari di Campagna; questa divisione permane ancora, con la ripartizione del territorio tra le province di Frosinone e di Latina.

Ma Priverno è rimasta fino a non molti anni addietro la capitale storica della valle; fu da quella parte che arrivarono i soldati di Napoleone, come alcuni secoli prima erano venuti quelli di Carlo V; l’alta valle, con la strada ancora detta strada degli Spagnoli che risaliva il corso del fiume per dirigersi poi a Vallefratta, era zona di passaggio obbligato delle truppe spagnole dirette verso il Regno.

Ma se i barbari del nord cambiarono l’assetto politico del paese inserendosi con aristocrazie locali tra il potere sovrano dell'impero d'oriente prima e della Chiesa poi e le istanze comunali, furono i saraceni che all'inizio del sec. IX cambiarono drasticamente il paesaggio fisico ed umano del Basso Lazio. Questi infedeli, arabi e berberi dell'Africa mediterranea, conquistata Sicilia e Puglia, intendevano assoggettare tutta l'Italia all'Islam, come avevano fatto nella penisola iberica.

Sfruttando la politica fratricida dei vari principi della costa napoletana che li assoldavano, essi impiantarono teste di ponte lungo tutto il litorale tirrenico, con una roccaforte alle foci del Garigliano, in modo da avere facile accesso alle loro basi tunisine e per poter fare scorrerie lungo tutta la costa. Essi si spinsero nell'entroterra penetrando nelle valli più remote del Lazio e di altre regioni, razziando, saccheggiando, violentando e spargendo terror panico, « e fu si grande la moltitudine di loro che coprivano la terra come i grilli ». Nell'agosto dell'846, circa 11.000 saraceni con 500 cavalli sbarcarono alle foci del Tevere e « assediarono Roma e presero la chiesa di S. Pietro, e di quella fecero la stalla de' loro cavalli, e disfecero poi molte chiese in Roma e fuori... e poi quasi tutta Toscana guastarono». La desolazione delle terre viene descritta con accorati accenti biblici dal monaco Benedetto di Soratte: « Regnaverunt aggarenis in romano regno anni XXX; redacta est terra in solitudine » (6).

Alcuni anni prima, gruppi di saraceni provenienti dai loro covi nel Circeo si erano riversati nella valle dell'Amaseno distruggendo Priverno e saccheggiando le comunità dell'alta valle, e passando per Palombara e Vallefratta andarono a raggiungere i correligionari provenienti da Benevento e Gaeta i quali, dopo aver incendiate le abbazie di S. Vincenzo al Volturno e di Montecassino, avevano invasa la valle del Liri-Sacco; anche Ceccano e le sue terre vennero messe a ferro e fuoco. Questo stato di terrore durò fino al 916, quando papa Giovanni X portò truppe alleate alla distruzione della piazzaforte saracena del Garigliano, precludendo così un soggiogamento dell'Italia centrale.

La lunga presenza della minaccia e dell'azione saracena aveva però cambiato definitivamente il modo di vivere delle popolazioni rurali, che forzate ad abbandonare le loro abitazioni nei campi si addossarono alle torri barbariche che sorgevano sulle alture e, per ottenere la protezione dei guerrieri di professione che le occupavano, si accomandarono, cioè s'infeudarono ad essi. Scomparvero così i villaggi aperti che dai tempi primitivi erano caratteristici delle valli come quella dell'Amaseno, e si formarono i castra con l'orizzonte chiuso dalle mura difensive e con le abitazioni addossate l’una all'altra come alveari; il processo d'incastellamento ebbe profondi effetti nella vita economica, sociale ed anche in quella interiore delle popolazioni; il costo umano del lavoro divenne molto alto, dovendo i contadini scendere quasi giornalmente a valle per coltivare i loro campi e risalire stanchi a sera verso le loro case; lo sradicamento dalla terra sopra la quale si svolgeva tutta la loro vita famigliare causò uno stato di alienazione che favorì l'accettazione di una escatologia fatalistica dominata dalle preoccupazioni dell'aldilà.

Per oltre un millennio, le genti dell'alta valle dell'Amaseno sfuggite alla furia saracena sono vissute chiuse dentro le mura dei castra di S. Stefano, S. Lorenzo, Giuliano, Prossedi e Pisterzo, battezzati e seppelliti spesso nelle stesse chiese. Questo paesaggio si era già assestato nel cambiato ritmo politico e sociale quando, nel tardo febbraio del 1274, fra' Tommaso d'Aquino accompagnato dal socius continuus fra' Rainaldo da Priverno, in viaggio per partecipare al concilio di Lione, entrò nella valle dell'Amaseno da Vallefratta diretto a Maenza.

Fra' Tommaso, sofferente per una sindrome apoplettica che lo aveva colto a Napoli qualche mese prima, aggravata poi da una concussione cerebrale per un incidente durante il viaggio presso Teano, pensava di riposarsi un poco presso la nipote Francesca moglie di Annibaldo di Ceccano, castellano di Maenza. Giunti a cavallo di somari presso la chiesa di S. Salvatore sul colle Porcini, agli occhi dei due frati si presentò la valle in tutta la sua lunghezza adagiata alle pendici delle montagne; la strada che portava a Priverno scendeva per i colli tra uliveti e vigneti, con tutt'intorno ancora visibili i segni delle recenti guerre tra Manfredi e Carlo D'Angiò; con l'incipiente primavera, negli arboreti fiorivano i mandorli e le ginestre incominciavano ad ingemmarsi, ai margini della strada fiorivano mammole e ciclamini, e nell'aria c'era odor di nepitella e rosmarino.

A valle, la strada costeggiava il fiume, e i salici cedevano già l'orlo delle acque a stiancie ed altre piante palustri; in alto erano visibili le mura sbiancate di S. Stefano, Giuliano, Prossedi e Pisterzo. Nella quiete primordiale, svolazzava qualche allodola verso il cielo e dai pantani arrivò lo zufolare di un bufalaro; il dottor angelicus con il presentimento della vicina morte a Fossanova, sentì forse nostalgia della fanciullezza lontana e dei versi di Virgilio.

 

 

 

(1) Ouso e i derivati catauso e cauto vengono dal greco chàsma larga apertura o fenditura; cfr. l'inglese chasm, .crepaccio, baratro.

(2) Grabriele D'Annunzio, « Lacus Juturnae », Alcyone: «e dolce m'è nella memoria il mio natale Aterno in letto d'erbe lente e l'Amaseno quando muor domato presso l'Appia col fratel suo l'Uffente ».

(3) La storia di Camilla, rielaborata da una fantasia popolare, è entrata a far parte del repertorio narrativo di S. Stefano, e verrà rievocata in Villa S. Stefano: Repertorio del dialetto, degli usi e tradizioni ora in preparazione dal presente autore.

(4) I vari aspetti della presenza dei Volsci nella valle dell’Amaseno e nell’Agro pontino sono discussi nei primi libri delle storie di Tito Livio e riesaminati da Gaetano de Sanctis Storia dei Romani, Léon Homo, L'Italie primitive et le début de l'imperialisme romain, e nella monografia di Arturo Bianchini, Storia e paleografìa della regione pontina nell'antichità. Roma, Signorelli, 1939.

(5) Don Augusto Lombardi, Appunti sulla storia di Villa S. Stefano, inedito

(6) Giovanni Villani, Istorie Fiorentine. Benedetto di Sant'Andrea di Soratte, Chronicon, in Georg H. Pertz Monumenta Germaniae H-sorica, Scriptores III, e G. Zucchetti, Fonti per la storia d'Italia, Istituto Storico Italiano, LV, Roma 1920; gli Aggareni erano i discendenti di Agar schiava di Abramo, cioè gli arabi.

 

 

 

 

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