Cap. V – L’ABITATO

Sul finire del Quattrocento, il castrum S. Stephani aveva acquistato quell'assetto topografico che, nel centro storico, è rimasto sostanzialmente immutato fino ai nostri giorni.

Le turbolenze che durante questo secolo si abbatterono sul Basso Lazio per gli spostamenti delle compagnie di ventura, la prevalente anarchia nelle cose temporali della Chiesa e lo sfaldamento della signoria dei conti di Ceccano costrinsero i comuni rurali della valle dell*Amasene a prendere nelle proprie mani gli affari politici ed in particolare a provvedere alla difesa delle popolazioni restaurando le mura castellane e rafforzando le opere difensive, nonché ad armare la cittadinanza per far fronte alle eventualità.

Il perimetro delle mura è abbastanza riconoscibile a chi ne ricerchi le vestigia dietro i disfacimenti, le aggiunte ed i rifacimenti degli ultimi secoli. Il punto chiave della difesa fu e rimase a lungo la rocca ceccanense che occupava l'area del fabbricato conosciuto oggi come il Palazzo del marchese o Palazzo incantato (1). La rocca, o castello, aveva poi perduta la sua importanza con la costruzione difensiva della Porta, ed era stata abbandonata e lasciata rovinare; ma rimase in parte abitata, anche se fatiscente, fino al 1753 (2). Fu nella seconda metà del Settecento che Giacomo Jorio di Marcantonio, uomo di certe pretese il quale fu per un breve periodo fattore aggiunto dei Colonna, acquistò la vecchia fabbrica e la trasformò in un bel palazzo nello stile di quel tempo, aprendone gl'ingressi dalla parte della montagna e proteggendone l'accesso con una casamatta dalla parte della chiesa di S. Sebastiano, dove nella pietra chiave dell'arco del portone è ancora visibile il blasone di questo signorotto con le sue iniziali ai lati di una colonna inghirlandata e la data 1787. Il palazzo era a due piani con gli ambienti di servizio al piano terra; la sua linea elegante venne deturpata da una sopraelevazione a blocchi di tufo fatta fare dalla famiglia Popolla che acquistò l'edifìcio all'inizio dell'Ottocento.

Il castello sorgeva sull'orlo dello sprofondo di Vallaréa in posizione molto forte, con l'entrata all'interno dell'abitato; dell'antica struttura rimane solo una mezza torre incastrata nell'edificio rifatto e che una volta faceva da pernio a quella parte della cinta muraria che scendeva lungo la scarpata di Vallaréa.

Dalla torre di Vallaréa il muro esterno del castello arrivava vicino alla chiesa di S. Sebastiano — sorta come cappella della guarnigione — dove un'altra torre, scomparsa, ancorava il tratto di mura che si collegava con la Porta formando una massiccia opera di difesa, le cui disposizioni interne sono ancora reperibili nei passaggi, sottoportici, andirivieni e scalette dei casamenti lungo l'odierna via della Rocca; il profilo di queste costruzioni è individuabile tuttora nella linea dei tetti osservata da piazza Umberto.

La Porta venne ristrutturata nel Quattrocento e nel suo complesso prese alloggio il castellano con i suoi armigeri, con i quartieri di guardia nella torre e le prigioni dalle finestre ad inferriata che si affacciano ancor oggi sotto la Loggia. La torre della Porta, popolarmente detta di Metabo da un'iscrizione che un letteratuccio del paese vi fece mettere nel secolo scorso in commemorazione della vicenda virgiliana, fino agli anni Venti sorgeva più alta del presente e diroccata; nella finestra di mezzo si riconoscevano le linee di una bifora ed in basso, al limite della scarpa, si aprivano feritoie ad archibugio praticatevi probabilmente al tempo dei briganti.

Da questa torre le mura riprendevano la discesa, prima lungo una striscia d'orto al margine del fossato, poi sul ciglio della roccia tufacea cingendo la parte più antica del paese per raccordarsi alla Portella; che non era allora quella conosciuta come tale oggi, ma quel poderoso arco a sbieco che si apre nel complesso delle case che una volta facevano parte delle mura e che vennero poi tagliate per facilitare l'accesso al Borgonuovo attraverso il vicolo della Portella. Dall'arco della Portella si entrava in un piccolo spiazzo dov'era il posto di guardia e da dove risaliva la via del Forno di sotto, oggi via degli Archetti, verso l'interno del paese.

Le mura continuavano chiudendo la contrada di Campodoglio verso ponente, dove si attaccavano ad una gobba di torrione e facevano angolo per proseguire poi dietro la chiesa di S. Pietro e lungo la scarpata di Vallaréa a ricongiungersi al castello. Al basso del torrione di Campodoglio s'apriva anticamente una porta secondaria, poi murata; in tempi più recenti ad esso venne addossata una torretta quadra per l'avvistamento dei briganti.

Ancor oggi, questo tratto di mura che si alza sulla roccia nuda dell'ouso di Vallaréa folto di pruni, fichi, melograni, sambuchi, somacchi e bagolari, tutto bucherellato di finestre ed incrostato di balconi, loggette con cessi e tubature di scarichi, rimane il più suggestivo. Lungo la base delle mura si aprono porte di cantine e di stalle, vani oscuri, aditi, passaggi e buchi che arrivano all'interno del paese, alcuni dei quali vennero scavati per poter tenere contatti clandestini con i briganti. In corrispondenza con la contrada dell'Ospedale vecchio, si alza una emitorre ben conservata, con una feritoia a tiro verticale ricavata da un blocco di tufo e messa nella muratura in calcare, mentre da una seconda è stata ricavata una finestra. Poco più in su di questa torre trecentesca le mura, che si allacciavano al castello, sono scomparse a causa delle frane avutesi nel passato in questa zona; nei pressi della torre si apriva fino al secolo XVIII la porta dell'Olmo, per la quale si scendeva agli orti di Vallaréa.

Quasi tutto lo spazio chiuso dentro il perimetro delle mura castellane era coperto da aggregati di case; i pochi spazi vuoti erano adibiti ad orto. Sul finire del Quattrocento, il paese era diviso in nove contrade o rioni: Portella, Campodoglio, Santo Petro, Ecclesia, sotto la Ecclesia, Piacza, sotto la Piacza, Hospitale e Guìtia, alle quali verso la fine del Cinquecento si aggiunsero altre due, Corte e porta Cimino, e nel Settecento quella del Borgonuovo che marcò l'ultima espansione edilizia dentro le mura. Le zone aperte erano quelle di Allerta e di Intirlòrta che dalla Portella si prolungavano al margine della scarpata a mezzogiorno fino sotto il torrione di Campodoglio e di Allùlmo, sotto la Rocca, oltre la Guizia, in gran parte scomparse per frane.

Il primo insediamento dei profughi di S. Stefano in valle sorse lungo l'odierna via delle Ceneri, conosciuta localmente come il Cegneraro, densamente popolata fino a non molti anni addietro, ma ora quasi deserta. Era il posto più sicuro, sull'orlo del fossato e non troppo distante dalla rocca ceccanense; ancor oggi questo primo borgo rimane completamente appartato dal resto dell'abitato, chiuso entro due archi d'accesso con androni e sottoportici.

Quando lo spazio divenne troppo ristretto, la comunità cominciò ad espandersi verso l'alto, dove venne costruita la prima grande chiesa e dove, nella piazza, si avevano i raduni di popolo, i parlamenti con gli uomini del conte di Ceccano e si teneva il mercato, e ad allargarsi verso ponente dove sorse un quartiere residenziale nel quale fino alla metà del secolo XV risiedevano alcune delle più importanti famiglie della comunità: Cori, Cajani, Tambucci, Sfarra, Valle ed altre.

La popolazione si consolidò così nella contrada della Portella, che fu a lungo una delle più densamente popolate, e che ebbe il primo forno comunale, rimasto in uso fino a pochi decenni addietro. Per la Portella uscivano i contadini per recarsi a lavorare negli orti e nei campi, e le donne di tutte le età che scendevano ad attingere acqua alle fontane della Salce e Rentre, e a lavare nei rivi.

La Portella si spopolò di alcune famiglie notabili con l'apertura della contrada di Corte a fine Cinquecento, ma si riebbe con la costruzione del Borgonuovo, quella fascia di caseggiati sul ciglio del tufo lungo l'odierna via della Portella dove nel tardo Settecento s'insediarono i Bravo, i Perlini ed altre famiglie di recente arrivo nel paese. Per facilitare l'accesso alla nuova contrada dalla parte alta del paese, venne aperto nelle mura il vicolo della Portella, e per incorporarla difensivamente, si costruì un muro dall'ultima delle case fino alla strada di accesso dove venne aperta una porta — l'odierna Portella — che durante il tempo dei briganti venne murata più di una volta per limitare i contatti con i malviventi, cosa che causò gran disagio alla popolazione che per scendere a valle doveva risalire ed uscire per la porta in cima (3).

Il secondo ampliamento dell'abitato si ebbe con la costruzione di alcuni caseggiati nella zona adiacente alla Portella nella contrada di Campodoglio dove vennero aperti i primi frantoi della comunità; la sua posizione al margine dell'abitato permetteva il decorso direttamente a valle delle morchie e degli altri residuati della molitura. Questa contrada occupava lo spazio oggi intersecato dai vicoli Bellavista e Malpasso; rimase scarsamente popolata fino al Settecento quando vi si costruirono vari caseggiati; ma vi rimase sempre un frantoio, come indica il nome di una straduzza che porta ancora il nome di vicolo del Montano — montano è corruzione del latino molendinum cioè frantoio.

Forse contemporaneamente a quella di Campodoglio si sviluppò la contrada di S. Pietro intorno alla chiesa dedicata al principe degli apostoli. Fin dai primi secoli in questa chiesa venivano sepolti i morti della comunità, e nel Settecento c'erano ancora un sepolcro fuori le mura, quello degli uccisi e dei pellegrini nella sagrestia e quello dei sacerdoti sotto il pavimento della chiesa (4).

La contrada di S. Pietro comprendeva l'area intorno alla chiesa davanti la quale si apriva una piazzetta che collegava la zona di Campodoglio con quella che poi fu chiamata sottoportico Bolognese, oltre la quale incominciava la contrada dell'Ospedale che prendeva il nome dall'ospizio per i malati e gl'indigenti intitolato all'Annunciazione, sostenuta con le elemosine della popolazione, e che era sotto l'amministrazione e protezione del governo comunale (5). L'ospedale rimase in operazione fino al Settecento, quando venne aperto l'ospedale nuovo sul
l'alto di via Lata.

Oltre l'Ospedale c'era lo spazio aperto di Allùlmo con orti e qualche casaline, che si estendeva fino a sotto le mura del castello circoscrivendo la contrada della Guìzia o Urìzzia e dove, nel Seicento venne aperta la piazza dell'Olmo presso la quale esisteva, non distante dalla torre dell'Ospedale, una postierla per accedere alla strada vicinale che correva lungo le mura fino a S. Pietro e, prima della costruzione del Borgonuovo, fino alla Portella.

L'espansione dell'abitato a tramontana fu essenzialmente residenziale, mentre quello verso la parte alta del pianoro dove sorgeva il castello ceccanense ebbe significato politico ed ecclesiastico per la costruzione della chiesa parrocchiale e della curia comunale; qui si svilupparono le contrade Chiese e sotto la Chiesa, Piazza e sotto la Piazza che diventarono ben presto molto popolose. Il fabbricato della curia sorgeva sulla piazza del Mercato a destra, di chi guardi all'insù, dell'arco a sbieco della Rocca che anticamente era la porta che dava accesso all'area del castello isolato dal resto dell'abitato; è probabile che questa sia stata la porta Cimino, porta di cima, dei documenti cinquecenteschi. La piazza serviva da arengo per le adunate pubbliche e per il mercato; era vicina alla rocca e alla nuova chiesa nella quale erano state riposte le sacre reliquie salvate dalla chiesa a valle.

L'apertura della nuova porta al basso di S. Sebastiano ed il consolidamento delle sue strutture in un vero maschio difensivo collegato alla rocca — nel quale si trasferì poi il castellano o capitano con la sua famiglia ed i suoi uomini d'arme — aumentò l'importanza della piazza come centro di attività civiche, e rese anche superflua la chiusura della porta Cimino, che incorporata nell'abitato rendeva facile l'accesso agli orti sotto la rocca, dove poi verso la fine del Cinquecento si sviluppò la contrada di Corte. Entro l'area tra l'arco della Rocca e l'imbocco della Loggia venne a concentrarsi sempre più la vita della comunità, ed in questa zona e nell'adiacente contrada Corte presero residenza dal Seicento in poi le famiglie più notabili del paese, e sotto l'elegante arco a sbieco, si fermavano a discutere ufficiali pubblici e cittadini prima di andare a sbrigar affari nella curia. Che questo sia stato il centro del paese sembra ricordarcelo una lapide nella volta dell'arco che dice: « A perenne memoria. L'anno 1654 luglio giovedì 23 notte seguente a hore sei fu il terremoto con gran danno di molti luoghi. Nel 1657 fu il contaggio (la peste) con gran strage di molte provincie et questo luogo per la Dio grazia e del protettore S. Stefano de uno e l'altro fu illeso ».

Abbiamo lasciata per ultimo la discussione della contrada Guìzia o Urizzia, oggi chiamata Gorizia. Il nome della contrada appare nei documenti in varia grafia: Gurizia, Ulizia, l'Agorizia, Allaurizia, la Gurizia, la Gorizia, la Garizia; popolarmente fino a non molti anni addietro veniva chiamata Urizzia; nei documenti del primo Cinquecento essa appare come Guitia, cioè Guizia, nome che pone problemi di etimologia.

Questa contrada era sorta contemporaneamente a quella della Portella, ma appartata da essa; perché? Si ricorderà che nella S. Stefano a Valle esisteva un gruppo di ebrei, i quali erano etnicamente e culturalmente diversi dal resto della popolazione; facevano parte della comunità da tempi antichissimi. Anche essi dovettero sfollare dalle loro abitazioni a valle e seguire le altre genti a monte; e come nell'antica comunità, anche nel nuovo insediamento essi continuarono a tenersi a parte e scelsero la zona più vicina al castello forse per maggior sicurezza dalle interferenze e discriminazioni ed anche per mettersi sotto la protezione del castellano; gli ebrei, gente di commercio e di denaro, erano molto utili ai signori feudali sempre bisognosi di quattrini. La Guizia era situata fuori dell'arco della Rocca, tra Ospedale e Allùlmo, concentrata lungo la via che poi si chiamò del Forno da capo, ed in tempi recenti via Leonina. Gli ebrei rimasero in questo agglomerato di case anche quando, con l'allargamento dell'abitato, si trovarono quasi accerchiati dai cristiani, ma la maggior parte di essi si era forse da tempo, per convenienza o convinzione, convertita al cristianesimo; e furono pochi perciò quelli che, come tanti altri nel Basso Lazio, vennero costretti ad abbandonare i loro quartierucci di paese, dove erano vissuti per secoli, in seguito agli editti pontifici del secolo XVI che li forzavano a rinchiudersi nei ghetti di Roma e di Ancona o ad emigrare, come molti fecero, nelle più tolleranti terre mussulmane.

Il ricordo della presenza israelitica ha lasciato riflessi nel linguaggio santostefanese, oltre al nome della contrada. Problematica come si presenta l'etimologia di Guitia, con le varianti essenzialmente fonetiche che da essa evolsero, la chiave della sua origine va ricercata o nel digramma Gu che potrebbe derivare da varie radici che caratterizzavano la posizione storica degli ebrei nel mondo occidentale con commutazione dal latino Ju di Judeus e che da Judia passa a Gutia quindi, con metatesi, a Guitia; o nella trasposizione dell'ebraico Goy, al plurale Goyim — epiteto dispregiativo dato dagli ebrei ai loro correligionari che avevano abbandonata la legge di Mosè — che con l'inserzione fonetica, della T formava Goy[t]ia cioè contrada dei Goy, il che potrebbe anche indicare che a S. Stefano esistesse una comunità rifugio per i Goyim dei paesi vicini; meno probabilmente si potrebbe risalire alla etimologia di guitto persona gretta, stracciona, avara, come venivano chiamati gli ebrei per il loro commercio in panni usati e quali prestatori di denaro, o meno ancora a quella di ghetto.

La natura geologica del sottosuolo di questa contrada, formato probabilmente dagli ultimi depositi vulcanici, e la sua posizione al margine di Vallaréa rimasta affossata per la cessazione delle attività vulcaniche laziali, rese precaria la stabilità della zona assoggettandola a smottamenti e frane. Aggravarono questa condizione le cave di pozzolana che vi si fecero, forse dai primi tempi, per le costruzioni nel paese, intensificatesi durante il Settecento per i vari progetti edilizi tra i quali il rifacimento della chiesa parrocchiale.

L'arnaro, che si apriva a circa 16 metri dell'abitato estendendosi sotto di esso, aveva incominciato a dare preoccupazioni sulla stabilità del terreno al punto che, facendo seguito ad una relazione in materia del suo luogotenente nel paese, il principe Lorenzo Colonna mandava una lettera agli amministratori comunali di S. Stefano in data 13 agosto 1774 nella quale avvertiva come « la grotta che si estende sotto l'abitato di codesta terra... possa col tempo apportare pregiudizio allo stesso abitato... Se si crederà necessario, la facciate fortificare e chiudere nella bocca a spese del magistrato per ovviare alii... pregiudiziali scavi che entro vi si fanno» (6). Ma nulla venne fatto, e al principio dell'Ottocento il continuo scavo aveva portata la grotta ad una profondità di 48 metri sotto via del Forno da capo, per una larghezza di 3 e altezza di 2,70 metri. Lungo questa strada, dov'era il forno baronale, abitavano le famiglie di Costantino Leo, Antonio Fabbi, Antonio Bravo e Biagio Olivieri con altre case in affitto; c'era un caseggiato appartenente alla confraternita del SS .mo Sacramento ed alcune case diroccate; e in fondo alla strada, al di qua dell'apertura della cava, un orto appartenente al canonico Giuseppe Bonomo.

Che ci fosse una certa imminenza di pericolo lo rivela la vertenza tra Costantino Leo e Matteo Bonomo, nipote del canonico Giuseppe, due tra le personalità più in vista del paese; il Leo cercava di far desistere il Bonomo dall'innaffiare l'orto dello zio perché le acque penetrando nel terreno indebolivano la volta della cava; ma sarebbe rimasta querela tra notabili se non fossero venuti gli eventi ad illustrare la drammaticità della situazione nel 1829: « Questa grotta nella notte dalli 29 alii 30 maggio rovinò per la sola lunghezza di metri 16 che rimaneva fuori del paese... per l'indebolimento delle colonne naturali lasciate per sostegno... (e) rovinò tutto l'arnaro » (7). La contrada venne evacuata e la Delegazione apostolica di Frosinone mandò ingegneri a studiare la situazione e presentare progetti sul da fare. Durante la perizia si scopri l'esistenza di un altro « grottone... consistente di massi più duri e di diversi strati con frequenti stillicidi » sotto la strada, e l'ingegnere nella sua relazione avvertiva che venisse « proibito... di trescare o battere granaglie nel vicolo del Forno da capo ov'è sottoposto il grottone, come ancora di steccare legna, gramolar canapa o lini ».

Venne e passò l'estate senza che nulla venisse fatto poi nelle notti tra il 12 ed il 14 ottobre si ebbero altri crolli; così li descriveva l'architetto Ignazio Ambrosetti: « Questo nuovo distacco di massi che restarono sconcatenati nell'avvallamento accaduto nella notte del 30 maggio ha fatto si che più non apparisca l'apertura della succennata caverna, e questa resti ermeticamente chiusa sbarrata dai macigni precipitati ultimamente al suolo » (8). L'Ambrosetti descrive la natura del sottosuolo come consistente di « materia ciottolosa e rapellosa », e mette in guardia le autorità sulla probabilità di nuovi crolli. Data la stagione autunnale, i lavori per il rafforzamento della grotta, per i quali l'Ambrosetti aveva preparato il progetto con i preventivi, vennero rimandati alla primavera, e poi non si fecero; e gli abitanti della contrada, sfollati dopo il primo crollo, tornarono alle loro case e si scordarono del pericolo.

E passarono alcuni anni ancora senza che si prendesse alcun provvedimento per evitare i crolli, e nel 1842, Matteo Bonomo reclamò presso il governatore di Ceccano che si facesse qualcosa; e costui doverosamente si rivolse alla Delegazione di Frosinone scrivendo che i lavori progettati in seguito ai crolli del 1829 erano rimasti « dimenticati, non furono più eseguiti, e gl'individui che avevano sloggiato dalle proprie abitazioni tornarono ad abitarvi, conforme tuttora vi abitano » (9). Il silenzio nelle carte degli anni seguenti ci dice che tutto rimase lettera morta. Ma il mattino del 28 marzo 1932, poco dopo cent'anni dal primo crollo, mentre un asino carico di legna passava davanti al forno, il selciato cede sotto gli zoccoli; la paura tornò, la popolazione venne fatta sfollare dalle case della via Leonina, già Forno da capo, e adiacenze, e prima della fine del mese tutta la contrada della Urìzzia era sprofondata nel grottone sottostante, fortunatamente senza vittime umane. Sopra la contrada sprofondata è stato aperto uno spiazzo, chiamato popolarmente Case spallate. L'abbondanza della « materia ciottolosa e rapillosa » in tutto il costone tufaceo sul quale sorge S. Stefano ha permesso nel passato il facile scavo di cantine, grotte e cisterne, alcune ora abbandonate, dimenticate e mai ripiene; fu solo l'eccessiva cava della pozzolana e la conseguente azione di acque meteoriche, oltre alla noncuranza umana, che portarono al crollo del 1932.

Il Settecento fu un secolo di grande rigoglio in tutti gli aspetti della vita in S. Stefano, e si ebbe anche una intensa attività edile che oltre a coprire le aree ancora disponibili intorno al paese con la costruzione del Borgonuovo e di caseggiati Allùlmo, restaurò edifici crollati e riempì spazi vuoti specialmente nelle contrade di S. Pietro, Campodoglio e del sottoportico Bolognese verso via Lata, zone che in questo periodo si popolarono notevolmente; s'iniziarono e portarono a termine grandi lavori come la totale ricostruzione della chiesa parrocchiale ridedicata alla Vergine Assunta, la trasformazione del fatiscente castello nell'elegante palazzetto di Giacomo Jorio, la costruzione dell'Ospedale nuovo all'alto dell'odierna via Lata, che prese il nome di via dell'Ospedale, nonché l'erezione fuori paese del santuario dedicato alla Madonna dello Spirito Santo; si spianò lo spazio fuori porta tra il fossato e la chiesa di S. Antonio e si dette mano alla costruzione del massiccio palazzo-castello dei principi Colonna; verso la fine del secolo si progettò anche la demolizione dell'antica chiesa di S. Pietro, che avvenne nei primi anni dell'Ottocento quando si dette inizio alla costruzione della nuova e poderosa struttura rimasta poi incompiuta. L'Ottocento fu perlopiù tempo di ristagno economico, politico e sociale. Fu solo verso la fine del secolo che, con la soppressione del brigantaggio e l'insediamento di efficienti comandi locali della polizia nazionale, s'incominciò a costruire fuori Porta, prima rimaneggiando, poi demolendo e ricostruendo nel tratto di mura lungo l'odierna via S. Sebastiano, poi costruendo case nella zona degli orti. In questo tempo, il nuovo governo proibì la tumulazione di cadaveri nelle chiese o all'interno dell'abitato, e si aprì così il cimitero nella contrada di Piaia.

All'interno, il paese si ammodernava con le prime il-luminazioni stradali, i numeri civici dati alle abitazioni e la nomenclatura stradale, che derivò da nomi di famiglie che vi abitavano: Gentile, Galante, Leonina, Bolognese, Cafegna poi vicolo Bellavista; da situazioni ambientali: S. Sebastiano, S. Pietro, della Rocca, Lata, Malpasso, Giardino, Pianella e così via; l'odierna via S. Pietro venne a chiamarsi Campo di fiori nel tratto sotto la piazza, Pasquino in quello sotto la chiesa, quindi Borgo-vecchio e S. Pietro fino all'oratorio delle Anime Sante, dove iniziava via Borgonuovo, oggi della Portella.

 

 

 

(1) Non sono chiare le ragioni che indussero il popolo a designare come Palazzo del marchese o Palazzo incantato il rifatto castello ceccanense. In base ai documenti disponibili non risulta esservi mai stato alcuno in S. Stefano che portò il titolo di marchese, almeno che non vi abbia avuta residenza il marchese Ercolani quando era preposto alle finanze della Delegazione di Frosinone. ASF B/1132, 1816. Non da scartare l'ipotesi che l'appellativo abbia avuto origine nelle velleità nobiliari di Giacomo «Torio, o fors'anche da una eventuale residenza nel fabbricato verso la fine dell'Ottocento di un Giovanni Jorio soprannominato Marchese. L'appellativo « incantato » potrebbe essere derivato dalle varie apparizioni di spiriti che la tradizione popolare vi aveva localizzate.

(2) Tommaso Palombo fu Giuseppe aveva « una stanza di casa entro il castèllo in contrada L'Aurizzia ». AOVSS/GAT. 1753.

(3) ASiF. Direzione Polizia (Dir. Poi.) B/297. In una lettera anonima alle autorità di Fresinone, ci si lamentava che mentre la Portella veniva murata con risultante incomodo delle genti che abitavano nella parte bassa del paese, altrove si poteva entrare e uscire dal paese specialmente dalla parte della Rocca e della Urizzia. «Troviamo le largure di più di centinaia di palmi all'orto di Luggieri, e non si è chiusa la cantina di Lorenzo Bravo (dove) vi è la porta e non si è murata, alla casa degli ereti (sic) Tambucci vi è la porta fuori che ci è comunicazione al di dentro... Senza poi tanti e tanti altri siti, finestre bassissime per cui i malviventi possono conimodamente entrare al loro piacere».

(4) Inventario S. Pietro Apostolo (INV. SFA), 5-10. V. Capitolo sulle chiese.

(5) Biancamaria Valeri, « Il frusinate Silvio Galassi e la sua visita nella valle del Sacco (1585), Lunario romano 1980, Roma 1980, pag. 691.

(6) AtCVSS. Sedute Consiliari (Sed. Cons.): copia della lettera allegata al resoconto della seduta del 22 agoso 1774.

(7) ASF. B/1159 F/2986.

 

 
 

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