Cap. IX - RELIGIONE E REGIME ECCLESIASTICO

All'austera escatologia medievale dominata dal terrore della morte e dell'inferno, e che giustificava le miserie umane in base alla determinante necessità di dover espiare individualmente e collettivamente i peccati, peccatis exigentibus, venne a sovraimporsi sul finire del Cinquecento una maggior preoccupazione con la vita intcriore, non dissimile dal pietismo che si stava affermando tra i luterani nel nord Europa, e che scavalcando il determinismo coinvolgeva il cristiano in uno sforzo attivo, personale e collettivo, per la salvezza dell'anima e che cercava di far della vita, nelle parole del cardinale bolognese Gabriele Paleotti, una gioiosa anticamera dove imparare l'arte del ben morire.

In questa nuova concezione teleologica, la morte acquistava il valore di un dolce bene da aver caro — la siisser Todt cantata dai tedeschi — come avvenimento desiderato e necessario per poter passare dalla vita alle fiamme purificatrici del purgatorio ed essere così ammesso al cospetto divino. Questa concezione molto più umana del passaggio all'altra vita, senza rinnegare l'inferno e la morte eterna, dava più ampio risalto al purgatorio e alla speranza della salvezza dell'anima da guadagnare per sé e per altri attraverso preghiere ed opere di carità; ed era per questo che S. Carlo Borromeo poteva dire che nessuna cosa gli appariva più gradevole dell'incontrare cadaveri portati a seppellire, perché le loro anime si erano già avviate ad incontrarsi con Dio.

Questa visione religiosa influenzò la società contemporanea ed anche l'arte figurativa del Seicento, ed aveva le sue radici nella reazione alla mondanità della Chiesa degli ultimi secoli e alla dilagante miseria morale e corporale della popolazione.

Si vennero così a formare nuovi tipi di associazioni parareligiose nelle quali signori e villani, sempre uguali davanti a Dio, ora incappucciati e vestiti di sacco, erano indistinguibili anche agli uomini. La rinascita dello spirito religioso e la costituzione di confraternite contribuì all'allargamento del contenuto sociale delle attività eccle-siastiche locali permettendo a gruppi laici di coadiuvare i sacerdoti e di organizzare speciali devozioni e celebrazioni.

Le confraternite godevano di una certa autonomia localmente in quanto esse erano sotto la giurisdizione della curia vescovile, alla quale pagavano direttamente il cattedratico, la quale le sorvegliava attraverso il vicario foraneo, anche per prevenire deviazioni dottrinali comuni al misticismo che le caratterizzava. Unite dal fervore religioso, esse vennero a formare vere e pro-pri organizzazioni sociali nelle quali la popolazione trovava quello spirito di solidarietà che superando le divisioni di classe permetteva un'azione collettiva nella celebrazione di feste, nelle processioni nelle quali gli uomini vestiti di sacco e le donne con i distintivi sfilavano dietro i propri stendardi.

Le confraternite, attraverso donazioni e lasciti dei confratelli, accumularono poi un notevole patrimonio in terre ed in altri beni che conferirono loro una posizione d'importanza nell'economia locale. Quattro confraternite raggrupparono la popolazione di S. Stefano negli ultimi secoli, e cioè quella di S. Pietro, del Sacramento, del Rosario e del Purgatorio; ad esse si aggiunse per un breve periodo di tempo quella dell'Addolorata.

Di queste, la più antica era quella di S. Pietro, che poi scomparve nei primi anni dell'Ottocento coinvolta nello sfortunato tentativo di costruire un grandioso tempio in onore del principe degli apostoli. Nell'antica chiesa di S. Pietro, « sino dall'Anno 1566... era eretta la Confraternita chiamata di S. Giovanni apostolo, e indi di S. Pietro cumulativamente; e in seguito sempre è stata chiamata la confraternita di S. Pietro » (1).

Con tutta probabilità, questa confraternita nelle sue origini era associata ai riti antichissimi, anche pre-cristiani, che si tenevano nel santuario di S. Giovanni, e che a causa delle sempre più malsicure condizioni a valle tra il Tre-Quattrocento fu costretta a trasferirsi in paese, ospite della chiesa di S. Pietro. Non si conoscono le finalità originarie di questo sodalizio, ma già nel 1585 i confratelli, vestiti di sacco bianco, provvedevano all'accompagnamento dei morti (2).

Queste attività funerarie vennero probabilmente assunte dalla confraternita dopo il suo trasferimento nella chiesa di S. Pietro, nell'ambito della quale si trovavano gli antichi cimiteri della comunità; funzione che venne meno quasi completamente con lo spostamento delle tumulazioni, eccettuati i malfattori, nella chiesa parrocchiale, come si ricava dai libri di conto fine Settecento: « dalla stola detta bianca e nera, incerto poco per accompagnamento di morti » (3).

Durante questo periodo, la confraternita era diventata un ente immobiliare con suo scopo immediato l'amministrazione dei propri beni, nei quali erano stati integrati quelli già appartenenti alla chiesa che la ospitava, e la cura della chiesa stessa e delle suppellettili sacre e quadri, e dell'archivio dei Luoghi pii che ivi si trovavano. Dal lato religioso, l'incombenza dei confratelli era ridotta alle solenni officiature con messe e vespri nelle festività di S. Pietro e di S. Giovanni Evangelista alle quali prendevano parte, come ad altre occasioni festive, nella loro « veste... di barbantina color rosso, colletti di ruisse color turchino celeste, stemmi tondi di carta coloriti ad olio rappresentanti il triregno e chiavi, co' cingoletti di bambace rossi »; e nelle processioni portavano « quattro lanternoni di legno vecchi assai di color rosso e con consimili aste, dorati a velatura in più parti». Dal suo fondo rendite, la confraternita di S. Pietro contribuiva a varie attività religiose e sociali, ed in particolare: « Boccali due romani di olio... ogn'anno... al padre predicatore quaresimale... rubio uno e quartelle tre di grano che si somministra alii infrascritti, cioè al maestro di scuola... all'organista della chiesa madre... al direttore spirituale della Congregazione dei sacconi... al mandataro vescovile ».

Al contrario delle altre confraternite, quella di San Pietro non aveva gran seguito popolare, perché forse mancava di un forte richiamo religioso, ed era ristretta ad un numero limitato di soci, che nel 1801 erano: Pietro Pocci, priore; Lorenzo Colini, Pietro Tranelli, Paolo Palombo, Paolo Toppetta, Domenico del quondam Eugenio Lucarini, Vincenzo Toppetta, Alessandro Tranelli, Benedetto Maselli, Giovan Paolo Jorio, Giovanni Paggiossi, Luigi Lucarini, Bartolomeo Palombo, Vittorio Rossi e Filippo Toppetta (4).

Le confraternite del SS.mo Sacramento e del SS.mo Rosario furono costituite durante il Cinquecento formalizzando antiche pratiche devozionali in quell'ondata di fervore religioso che cercava di dare nuovo significato alla vita sociale scossa dagli eventi di quegli anni. A S. Stefano esse vennero regolarmente erette, la prima nel 1694, e la seconda nel 1745, ma anche nel paese la devozione per questi due aspetti del culto cattolico risaliva a molti secoli prima; un sodalizio dedicato alla devozione del Rosario esisteva già nel 1585, e nella chiesa parrocchiale c'era già « l'altare del S. Rosario, sulla cui parete erano dipinti i misteri del Rosario. Qui molti uomini e donne la prima domenica del mese ascoltavano la messa cantata e poi nel pomeriggio facevano una processione portando numerosi e bei vessilli » (5). Altrettanto antica era l'esposizione eucaristica delle Quarantore.

In paesi come S. Stefano, dove la vita si svolgeva lungo linee funzionali, queste pratiche devozionali erano socialmente importanti in quanto riunivano uomini e donne, signori e villani in attività collettive; particolare valore sociale aveva la recita del rosario, che oltre che nelle funzioni di chiesa, veniva recitato in gruppo rientrando a sera dai campi, di ritorno dalle fontane, in famiglia dopo cena e nella veglia intorno ai morti.

Caratteristica, era la tradizione primaverile d'inghirlandare le edicole con quadri della Vergine che si trovavano un po' dappertutto nel paese; davanti a questi altarini, nelle serate di maggio, si radunava il vicinato sui profferii, sulle soglie degli usci e per la strada a recitare il rosario e a cantare inni mariani che s'intrecciavano ed echeggiavano di contrada in contrada.

La confraternita che ebbe il più ampio richiamo tra la popolazione di S. Stefano fu quella delle Anime del Purgatorio, le cui pratiche devozionali in suffragio dei defunti risalivano anch'esse al medioevo, ma che si svilupparono in un vero culto delle anime sante durante il Seicento, per le ragioni alle quali si è già accennato, creando un forte vincolo di comunanza tra i viventi che cercavano di abbreviare il più possibile con preghiere ed atti di carità il soggiorno dei cari defunti tra le fiamme del purgatorio, ed i morti che da essi dipendevano per poter giungere più speditamente in paradiso.

Nella mentalità paesana, questo bisogno di mutua assistenza creò una realtà trascendentale nella quale le anime sante erano sempre intorno ai viventi e prendevano forma ed erano udibili ed anche visibili non solo nei sogni, ma anche nella vita quotidiana; le s'incontravano lungo i solitari sentieri di campagna, presso le fontane, negli angoli fuorimano del paese, nelle cantine, e a sera si potevano ascoltare le loro voci che dai sottoscala e dagli angoli delle stanze sommessamente si accompagnavano alla recita del rosario. La sera dell'Ascensione, le anime che avevano finito di scontare le loro pene nel purgatorio andavano a raggiungere il paradiso, ma prima facevano un giro per il paese passando in processione davanti le loro case; per agevolare questo loro ultimo tragitto terrestre, si mettevano brocche con acqua e ciotole con cibi sulle soglie di casa e si accendevano lumini ad olio sui davanzali delle finestre, e chi non era preso dal sonno udiva l'incedere dei loro passi leggeri, il fruscio delle loro vesti bianche di anime ed il mormorio delle loro preghiere.

A tener vicini vivi e morti c'era anche un fattore ambientale, cioè la prossimità fisica ai cadaveri che dopo il Seicento vennero sempre più spesso tumulati nella chiesa parrocchiale dove la popolazione si raccoglieva giornalmente, e in particolare in tempi di pestilenze e colera quando con il sovraccaricarsi dell'angoscia collettiva la differenza tra la vita e la morte diventava scempre meno discernibile.

La confraternita del Purgatorio venne organizzata probabilmente presso la chiesa di S. Pietro rilevando i compiti funerari della confraternita di S. Pietro. La sua sede originale va ritrovata nel caseggiato « in contrada Campidoglio, o sotto S. Pietro » nella facciata del quale « sono l'immagine di Maria Santissima e del Purgatorio »; caseggiato che poi attraverso lasciti di Petronilla Fiocco, Giuseppe Ferrari ed altri confratelli, passò quasi tutto di proprietà della confraternita.

La tradizione locale ricorda come in questo caseggiato, che nella pietra chiave del portale in peperino porta ancora il monogramma di Gesù Cristo, abitassero una volta i « frati bianchi » che taluni dicono esser stati gesuiti passati a vivere clandestinamente in molti paesi laziali dopo la soppressione della loro compagnia nel 1773; ma con molta più probabilità, i frati bianchi non erano altro che i sacconi, cioè gli accompagnatori funebri, prima confratelli di S. Pietro e poi del Purgatorio, che si radunavano in questi locali per indossare i rituali .sacchi bianchi.

Rimangono ancora, sulla facciata della casa, tracce degli affreschi notati nel testamento di Giuseppe Ferrari, mal ridotti dalle intemperie e da schegge di bombe nel 1944; nel basso dell'intonaco sporge ancora un blocco di tufo con la data 1716; si tratta di due quadri: quello in alto, dentro una nicchia, raffigurava le anime sante tra le fiamme del purgatorio; l'altro era una movimentata scena della fuga in Egitto con la sacra famiglia inseguita dai cavalieri di Erode.

Questo caseggiato apparteneva ancora alla confraternita al principio dell'Ottocento; ma già dalla metà del Settecento, la sua sede era stata trasferita nella « chiesa rurale di S. Sebastiano dove esiste l'altare della B.ma V. Maria del Carmine ». Questo altare, con la tela della Vergine che oggi si trova sopra l'altare della chiesa del camposanto, era stato eretto in cappella con dotazioni della famiglia Passio; il rev. don Giuseppe Passio, vicario foraneo, era ex officio presidente della confraternita durante questo periodo. Una delle maggiori responsabilità dei confratelli del Purgatorio, dopo quella dell'accompagnamento dei feretri, era la recita dell'ufficio per i defunti fratelli, come hanno fatto fino all'inizio del presente secolo quando la confraternita aveva cambiato nome in quello della Buona Morte; chiamati dal rintocco della campana, essi vestivano i sacchi neri con corda ai fianchi ed il cappuccio riversato sulle spalle, e allineati sui sedili in muratura che fiancheggiavano l'altare maggiore della chiesa di S. Sebastiano, recitavano le varie parti dell'ufficio funebre.

La confraternita rifletteva ancora verso la fine del Settecento la prevalente divisione di classe. In una riunione del 2 ottobre 1794 si discusse, e venne poi approvato « un allargamento alla partecipazione ai benefìci della Congregazione ai nostri cittadini idioti (analfabeti) dell'uno e dell'altro sesso » e l'inclusione di essi « alla recita comune del terzo notturno... come pure con le cinque solite officiature doppie, cioè nella settimana dei morti... nella natività di N. S. Gesù Cristo, nel Carnevale... nella mezza Quaresima... nel Ferragosto ».

Durante questa seduta venne anche stabilito che fratelli e sorelle che non intervenivano alle solite offìciature potevano partecipare ai benefici della confratellanza con una « annua elemosina di un giulio », cioè 10 baiocchi, per i più facoltosi e di « un grosso », 5 baiocchi, per i poveri, e che per la festa della Purificazione venisse data una candela benedetta ai fratelli e alle sorelle. I soci venivano così classificati come fratelli di un paolo, che equivaleva ad un giulio, e fratelli di un grosso; e « gli nostri congregati fratelli letterati devono a ciascuno che muore per una volta sola celebrarli a chi paga il paolo tutto l'uffizio dei morti letto, a riserva che si canta l'Invitatorio, il Libera e la Messa: a quelli poi di un grosso l'Invitatorio col Notturno come sopra, e Messa cantata ».

Compito principale della confraternita era di provvedere con i propri fondi alle esequie dei confratelli secondo le prescrizioni dello statuto o secondo le stipulazioni del defunto se aveva fatto lasciti all'associazione; era richiesto l'accompagno, che differiva secondo il sesso del defunto, candele e tutto quanto necessario al rito funebre; alcuni dei fratelli avevano « il pietoso ufficio di incollare (portare a spalla) il feretro nell'associare i cadaveri in chiesa »; la confraternita versava ai sacerdoti officianti il consueto onorario per le esequie e per le messe.

La discriminazione nel riguardo delle donne scomparve nel 1850, quando venne deciso che «il funerale delle sorelle debba essere uguale a quello dei fratelli subito che la congregazione avrà formato un fondo sufficiente a supperire ad essi funerali ».

Il patrimonio della confraternita era abbastanza consistente con corrisposte in olio, uva, granturco e degli affitti per le case di sua proprietà nel paese; queste entrate erano integrate dalle quote dei soci e attraverso questue fatte nel paese da sorelle cercatrici.

I libri amministrativi della confraternita che vanno dal 1816 al 1926 formano un interessante documento di storia sociale del paese, e nelle voci d'entrata e d'uscita si svolge tutto un secolo della vita del paese: «Dalla vedova Carlo Palombo ed Alessandro Jorio siciliano., cioè granturco, di risposta alle grotte Saracene... Eredi Saverio Petrilli per la casa a S. Pietro... Per tre femmine da mandare a prendere tre bigonzi d'uva alla fontana Zicagnèa da Ranciotto... Da Domenico del quondam Cannine Rossi per le grotte Saracene... Messe da celebrare di buonora nella chiesa di S. Sebastiano all'altare della Madonna del Cannine.. Messe, officiature, arciprete e due assistenti per l'ottavario dei morti... Risposte in siciliano, cipicce, foglie di gelso, fichi, lino, cicerchie, fagioli, spelta, fave, biada... Affitti e feudi in denaro... Al muratore Carlo Buzzolini... all'organista... al sagrestano... al balio per due bandi... al sacerdote Baldassarre Perlini per 22 messe lette... a don Francesco Bravo per 4 messe lette... Spese occorse nella fucilazione di Gioia... Tassa ecclesiastica... Al campanaro Cacciavillani di Frosinone per la campanella... Elemosina per un ebreo fatto cristiano... Luigi Petrilli per la casa a S. Pietro... Messa cantata alla sorella Grazia Petrilli... Corrisposte d'olio da Filippo Jorio Carlone dalle Macchie... di granturco da Francesco Petrilli dalle grotte Saracene o sia Valcatora... Per accompagno del cadavere di Jorio Filippo Carlone in numero di 20 fratelli alla chiesa e camposanto... Per l'indicatore di confine alla Macchiarella nuovamente rivendicata dal principe Colonna... Funerale alla sorella Venditti Domenica vedova di Filippo Jorio... Per fattura del calvario dell'Agonia al falegname Francesco Petrilli... a Fe-derico Petrilli per l'accomodatura del banco della sagrestia... Per lavori murali in via Pasquino o S. Pietro... Per il funerale del confratello Petrilli Francesco non riportato nel 1912... Per il terremoto del 13 gennaio 1915... » (6). La confraternita di Maria SS.ma Addolorata venne ideata dal « rev. sig. don Luigi Maria Fiocco beneficiato della chiesa madre unica parrocchia di questa terra » e predicatore apostolico per i quaresimali, e venne eretta nella chiesa di S. Pietro « l'anno del signore 1795: poiché nel di 25 di maggio... fu fondata, con la dovuta licenza... (del) Rev.mo Pietro Paolo Tosi vescovo di Fe-rentino, dal rev. sig. don Luigi Fiocco autore di detta divozione... giusta l'istruzione venuta da Roma dal generale dei Servi di Maria di S. Marcelle al Corso » (7).

II rev. Fiocco aveva, tempo prima, fatto dipingere a Roma, a sue spese, il bel quadro dell'Addolorata che ancora si venera nella chiesa parrocchiale di S. Stefano facendolo poi mettere sopra l'altare di S. Pietro; più tardi, con il concorso dei devoti e degli altri sacerdoti beneficiati, la tela dipinta ad olio venne posta « dentro una ben ornata machinetta di legno colorita sull'ultimo gusto ». La nuova confraternita venne inaugurata nella chiesa di S. Pietro lo stesso giorno 25 maggio, ed il popolo « in tal dì concorse a folla per farsi descrivere (iscrivere) e vestire l'abito della gran madre di Dio Addolorata, e prima d'ogni altro avendo ricevuto l'abitino il lodato sig. don Luigi Fiocco dal molto rev. sig. don Stefano arciprete Bravo; indi si ascrissero e furono decorati dal santo abito » i vari ecclesiastici e le « persone più civili del paese e poi infinito popolo di questa terra ed anche dei paesi vicini » (8).

La confraternita non possedeva beni alcuni; nata come parte del disegno di don Luigi Fiocco di costruire un nuovo e grandioso tempio dedicato alla Vergine Addolorata e a S. Pietro sopra il sito dell'antica chiesa di S. Pietro, essa scomparve al principio dell'Ottocento insieme a quella di S. Pietro nello sforzo per portare avanti la costruzione del nuovo tempio.

Quando nel 1803 venne demolita la chiesa di S. Pietro, il quadro dell'Addolorata fu trasferito nella chiesa parrocchiale; la devozione iniziata da don Luigi Fiocco continua ancora, e il quadro da lui fatto dipingere viene portato in solenne processione nel giorno della festa dell'Addolorata che si celebra la terza domenica di settembre.

La religione è una travolgente forza spirituale determinante negli sviluppi sociali e storici, dai quali viene a volta condizionata; la forma che essa prende riflette spesso le prevalenti condizioni storiche; ma nel perseguire le sue finalità trascendentali, formula ed impone concetti di morale personale che formano la base di una ordinata convivenza sociale.

* * *

« Chi serve l'altare deve vivere dell'altare »; così sentenziava don Francesco Bravo in una riunione del capitolo di S. Maria Assunta in Ciclo congregato nella sagrestia della chiesa il 3 agosto 1872 per discutere problemi economici ed i cambiamenti apportati dal nuovo regime politico alla condizione ecclesiastica nel Lazio. Il reddito netto della « massa comune », cioè dei beni della collegiata, era calato a tal punto che « è tanto tenue che pagati i dazi e i pesi annessi, appena è bastante... (per ciascun ecclesiastico) a potersi comprare un conveniente vestimento d'inverno » (9).

La rendita dei beni parrocchiali veniva divisa in nove parti, due delle quali andavano all'arciprete e le altre ai beneficiati. Si è già parlato della formazione delle proprietà ecclesiastiche nel territorio di S. Stefano attraverso dotazioni alle varie chiese e cappelle in seguito alla dispersione dei beni abbaziali e lasciti testamentari in terreni e decime da parte dei fedeli. Questi beni rimasero intestati alle varie chiese ed il reddito veniva utilizzato per la manutenzione del fabbricato da chi lo curava.

Quando o per ragioni di guerra, abbandono e crolli, le chiese o cappelle finivano di esistere come luoghi sacri, come nel caso di S. Maria della Pozza, S. Salvatore, San Silvestre ed altre, i loro possedimenti venivano aggregati a quelli della chiesa arcipretale e venne così a formare quella « massa comune » che divisa in benefici provvedeva, insieme ai contributi per i vari riti, al sostentamento degli otto ecclesiastici che dal Settecento in poi formarono il capitolo della chiesa collegiata di S. Maria. I beni ecclesiastici erano sotto la giurisdizione del vescovo di Ferentino, il quale doveva approvare gli atti relativi all'amministrazione di questi e, come s'è detto, di quelli delle confraternite; localmente, l'amministrazione di questi beni era sotto la tutela del vicario foraneo, il quale rappresentava l'autorità del vescovo in materia spirituale e temporale. I vicariati foranei, nei quali erano divise le diocesi, comprendevano secondo il caso una o più parrocchie nel territorio di un castrum o terra; nel caso di parrocchia singola, come in S. Stefano, il vicario foraneo poteva ricoprire, ma non fu sempre il caso, la carica di arciprete; localmente egli rappresentava, quale deputato ecclesiastico, gl'interessi della sua casta nelle discussioni del consiglio comunale. Data la natura teocratica della costituzione politica delle terre del patrimonio di S. Pietro, i beni ecclesiastici godettero a lungo privilegi vari, come le esenzioni da imposte comunali e feudali, e gli ecclesiastici locali si dimostrarono spesso re-frattari a far versamento di contributi alla Camera apostolica, nonostante severi rimproveri e ammonizioni da parte dei papi.

Un nuovo sforzo in questa dirczione venne fatto da Clemente XI con bolla data «Apud Sanctum Petrum sub Anulo Piscatorij » il 10 maggio 1704. Nel trasmetterne copia alla comunità di S. Stefano, Scipione de' Ricci, visitatore apostolico, specificava che « nella comunità di S. Stefano si trova il catastro in cui sono descritti i beni dei laici » e ordinava che entra il mese di giugno di quell'anno si facesse un censimento nel quale gli ecclesiastici «specifichino la qualità dei loro beni... (ed anche) di quelli del barone» (10).

Quale sia stata l'entità di questi beni ce ne da una idea il Catasto del 1753 che ne assomma il valore a scudi 1024,47, contro i 1700,21 scudi di tutte le proprietà private, come segue:

Capitolo di S. Maria

scudi

610,30
Chiesa di S. Sebastiano »  126,45
Chiesa e Confraternita di S. Pietro »  85,05
Confraternita del SS.mo Sacramento »  78,62
Confraternita del SS.mo Rosario »  71,15
Chiesa Madonna dello Spirito Santo »  21,10
Confraternita Anime Sante del Purgatorio »  10,25
Cappella di S. Rocco »  9,50
Chiesa di S. Antonio di Padova »  5,80
Cappella Madonna del Carmine »  3,35
Cappella di S. Giacomo »  1,90

La chiesa di S. Antonio Abate è elencata ma senza alcun reddito, mentre quella di S. Giovanni non compare affatto (11).

Queste chiese rimasero per lunghi anni ancora aperte al culto; quella di S. Antonio veniva ricordata in un lascito dei fratelli Filippo e Francesco Lucarini del 1794 con « un censo di scudi uno e 65 » (12).

Meno chiara è la situazione della chiesa di S. Giovanni; passata sotto lo giuspatronato di casa Colonna, con tutta probabilità i suoi beni vennero aggregati a quelli di S. Maria. Della cappella della Madonna del Carmine s'è già parlato, quella di S. Giacomo era situata nella vecchia chiesa parrocchiale e risaliva almeno al Cinquecento (13).

La legislazione pontificia del Sei-Settecento integrò poco a poco i beni ecclesiastici nell'economia comunale; si è già detto come per far fronte alle pressioni di pagamento degli interessi sopra il debito pubblico venisse decisa a S. Stefano una colletta di uno scudo per fuoco « alla quale vi debbono concorrere anche gli ecclesiastici ».

Questa corrispondenza d'interessi economici tra la comunità e gli ecclesiastici si rafforzò dopo l'abolizione dei privilegi feudali con il motu proprio del 6 luglio 1816, quando gli ex baroni cercarono di far valere diritti di possessio e di giuspatronato nelle comunità prima a loro soggette; e per combattere quella che voleva essere una liquidazione di beni rivendicati dai Colonna in S. Stefano si ebbe una sequela di procedimenti presso il tribunale di Ferentino, arrivando al punto, dopo l'unificazione nazionale, che per proteggere i propri interessi e « far dichiarare di libera collezione ogni prebenda eretta canonicamente in questa chiesa di S. Maria », nel 1873 il capitolo si associava ad una causa intentata dal comune contro lo « usurpatore patrono », che era allora il principe Giovanni Andrea Colonna, « ed a tal uopo costituisce il suddetto sig. Sindaco (Celestino Bonomo) come procuratore, e concessionario, dandogli le più ampie facoltà costituendo il Comune procuratore con la clausola amplissima ut alter ego » (14).

Ma siamo già in regime sabaudo con il paese ribattezzato Villa S. Stefano, con molti dei privilegi ecclesiastici aboliti ed i beni soggetti a regolari imposte governative che causavano ristrettezze economiche, come quando nell'agosto 1872 il capitolo di S. Maria « per rimediare ai vistosi dazi all'attuale governo » decideva di affittare ad un tale di Amaseno « un terreno di proprietà Capitolare... per la somma di cinquanta napoleoni... (da consegnare al proposto capitolare) Baldassarre Perlini... che immediatamente paghi la scaduta rata di manomorta, ed il resto lo impieghi a pagare la tassa d'iscrizione ipotecaria » (15).

La morosità nel pagamento di tasse ed imposte da parte degli ecclesiastici di Villa S. Stefano era arrivata a tal punto da far dire a don Baldassarre Perlini durante una riunione capitolare nel giugno 1874: « pure bisogna vedere con vergogna apparire nella piazza, pubblica il nome di questo Capitolo, come moroso, per causa dei tre beneficiati assenti, che non pagano a suo tempo le quote erariali. Cosa che arreca gravissimo danno all'intero Capitolo » (16).

Durante questa seduta, don Baldassarre, che era il vicario foraneo, propose anche una ristrutturazione della « massa comune » capitolare in prebende individuali con ciascun canonico responsabile fiscalmente in proprio. Ma il millenario sistema dei benefici ecclesiasti veniva gradualmente eliminato dal nuovo governo italiano laico; in una delle ultime riunioni del Capitolo di S. Maria il 9 settembre 1880, erano presenti: l'arciprete don Giuseppe Felici, di Giuliano, succeduto dopo un lungo periodo di sede vacante al defunto don Rocco Ventura; don In-nocenzo Maria Palombo, don Luigi Maria Bonomi, don Baldassarre Perlini ed il chierico Stefano Bravo, assente come sempre don Filippo Pirri, mentre gli altri due benefici erano rimasti vacanti, uno per la morte di don Francesco Bravo, e l'altro per la rinuncia di don Albino Bragaglia, altro perenne assente.

Con la morte degli altri canonici finì la serie dei beneficiati che dagli stalli dietro l'altare maggiore della collegiata di S. Maria Assunta partecipavano alla recita degli uffici e ai riti della chiesa. Quando don Amasio Bonomi venne nominato arciprete, tutti i beni patrimoniali vennero raggruppati nell'arcipretura, come vennero imposte a lui tutte le responsabilità ecclesiastiche.

Non tutti i componenti la categoria ecclesiastica erano economicamente benestanti; c'erano anche gli eremiti, con una vocazione religiosa che risaliva ai primordi della cristianità. Il loro numero crebbe quando numerosi monaci greci sfuggiti alle persecuzioni iconoclastiche di Leone Isaurico vennero in Italia insediandosi sopra poggi ed in luoghi fuorimano dove si costruirono piccoli san-tuari, o cone, nella solitudine delle quali compivano le loro devozioni.

Questi monaci nel vero senso della parola rimanevano un po' alla periferia dell'organizzazione ecclesiastica, e per tenerli agganciati ad essa la Chiesa si adoperò per aggregarli in ordini religiosi eremitani, quali furono quelli di S. Paolo, S. Girolamo ed altri; nel 1585, uno dell'ordine di S. Paolo abitava « in una camera sordida ed indecente » vicino alla chiesa di S. Giovanni (17). Nell'età di mezzo la vocazione all'eremo era molto forte, alcuni chiamativi dal movente penitenziale, ed altri ricercandola come modo di sopravvivere al di fuori di una civiltà caotica e turbolenta. Secondo la tradizione orale, nel territorio esistettero nel passato molte fratarìe; ma più che conventi veri e propri, queste erano romitori dove morto un titolare, vi arrivava un altro.

Perciò, i cosiddetti conventi che si dicono essere esistiti annessi alla chiesa di S. Salvatore al Porcini, di S. Silvestre in fondo alle Sparelle, di S. Giovanni ed altre non erano altro che umili abitazioni di eremiti ed i sepolcri spesso trovati dai contadini che lavoravano i terreni nelle prossimità di queste chiese non erano che le tombe di questi umili servitori della divinità che, con il decorrere dei secoli, vennero scavate una vicino all'altra talmente da far pensare ad una vera necropoli monastica.

Questi eremiti, con l'elemosina popolare ed i pochi redditi messi a loro disposizione dalla carità e decime ec-clesiastiche, pensavano alla manutenzione delle chiese e delle cane alle quali si erano addetti; vi fu romitorio anche nella chiesa di S. Sebastiano, nello spazio dietro l'altare, poi adibito a sagrestia. I resti umani trovati durante i lavori per ricavare la canonica nella parte absidale della chiesa appartenevano a questi eremiti.

II corpo ecclesiastico di S. Stefano consisté, fin da tempi antichissimi, deH'archipresbiterus e d'alcuni presbiteri di famiglie locali; l'arciprete, la cui carica spesso coincideva con quella di vicario foraneo, veniva nominato dal vescovo e, con poche eccezioni, non era mai del paese e ciò per tenerlo al di fuori degli interessi locali. Il primo arciprete del quale ci è pervenuto il nome fu don Giovanni Altobelli, che ebbe la carica al principio del Cinquecento; al principio del Settecento fu arciprete un membro della famiglia Gentile, del paese, al quale seguì don Marcantonio Petrone che il 7 maggio 1724 benedisse la posa della prima pietra per il santuario della Madonna dello Spirito Santo (18).

Tennero l'arcipretura durante la seconda metà del Settecento e l'inizio dell'Ottocento due personalità paesane: don Ignazio Tambucci e don Stefano Bravo; alla morte di quest'ultimo nel 1815 venne nominato il già ricordato don Luigi Maria Fiocco, seguito da don Stefano Palombo, quindi da don Rocco Ventura, don Giuseppe Felici, don Amasio Bonomi fino al presente don Luigi Falconi.

Furono vicari foranei nel Settecento: don Giuseppe Testa, don Giuseppe Passio e poi don Stefano Bravo arciprete; e verso la fine dell'Ottocento, don Baldassarre Perlini. Tra i presbiteri cioè i preti perlopiù provenienti da famiglie locali vanno ricordati: don Federico Croce, don Libero di Giovanni Lucarini, don Libero di Giovanni di Lucio e don Antonio Pepe nel Cinquecento; mancano notizie per il Seicento, ma nel Settecento troviamo don Luigi di Rocco Tambucci, don Domenico e don Pietro Palombo, don Carmine Jorio e don Domenico di Marcantonio Jorio e don Michele Bravo.

Con la costruzione della nuova Chiesa parrocchiale dedicata a S. Maria Assunta, sopra la vecchia parrocchiale dedicata a S. Stefano, demolita, venne eretto verso il 1770 il capitolo della collegiata di S. Maria composto dai seguenti ecclesiastici beneficiati: Stefano Bravo, arciprete e vicario foraneo, Giuseppe Lucarini, Giovan Battista Leo, Luigi Maria Fiocco, Luigi Bravo, Giovanni Pocci, Antonio Bonomi, Giuseppe Bonomo e dal chierico Felice Olivieri.

Nel Capitolo vennero consolidate tutte le funzioni religiose e le attività ecclesiastiche della comunità, esso si radunava periodicamente nella sagrestia della chiesa parrocchiale « dietro avviso a suono di campana » per mettere a punto il calendario delle funzioni religiose, alle quali i canonici partecipavano come concelebranti o assistevano dagli stalli del coro dietro l'altare maggiore.

Durante l'Ottocento, vennero nominati beneficiati forestieri perennemente assenti e che si presentavano solo a ritirar le risposte, cosa che causava notevole imbarazzo e danno economico al resto del Capitolo. Nel 1854 il Capitolo era composto da: don Stefano Palombo, arciprete, Rocco Ventura, prò-vicario foraneo, Innocenzo Maria Palombo, Luigi Maria Bonomi, Francesco Bravo, Baldassarre Pedini, Èrcole Marchetti e Antonio Angeletti.

All'arciprete Palombo succedette don Rocco Ventura, e scompaiono dal Capitolo i due beneficiati forestieri Marchetti e Angeletti rimpiazzati da altri due forestieri don Albino Bragaglia e don Filippo Pirri, mentre il posto rimasto vacante veniva assegnato al chierico Stefano Bravo. Durante Farcipretura vacante che seguì alla morte di don Rocco Ventura fino alla nomina di don Giuseppe Felici, il capitolo fu retto dal decano don Innocenze Maria Bonomo, con don Baldassarre Perlini vicario foraneo, economo e curato (19).

Questa breve rassegna degli ecclesiastici di S. Stefano non sarebbe completa senza un riferimento a tre prelati i quali, ciascuno nel suo modo, hanno fatto onore al paese.

Troviamo due di essi, don Domenico di Filippo Jorio e don Amasio di Giuseppe Bonomi, attivi nella vita religiosa della comunità verso la fine del secolo scorso.

Don Domenico nacque il 7 ottobre 1867, studiò nel seminario diocesano e venne ordinato a Palestrina nel 1891; dopo un breve soggiorno nel paese, andò a Roma dove continuò i suoi studi di diritto canonico nel pontificio seminario di S. Apollinare. A 30 anni iniziò la sua carriera nella curia vaticana, nella Dataria Apostolica, passando poi in altri uffici e al principio del secolo venne nominato prosegretario della Congregazione dei Sacramenti e segretario nel 1926. Elevato alla porpora da Pio XI il 16 dicembre 1935, del titolo di S. Apollinare, venne creato prefetto della Congregazione dei Sacramenti, posizione che tenne fino alla morte il 21 ottobre 1954. Quale segretario della Congregazione dei Sacramenti, l'allora mons. Jorio partecipò attivamente a quella fase dei negoziati del Trattato e Concordato Laterano concernenti i rapporti tra Chiesa e Stato in materia matrimoniale. Una lapide sopra la sua tomba nel vestibolo della chiesa di S. Apollinare a Roma ne ricorda le origini e la carriera ecclesiastica (20).

Don Amasio, poi monsignore, restò in paese dove per oltre un trentennio dedicò tutte le sue energie e beni al servizio della comunità ed in particolare all'educazione religiosa e sociale dei giovani, tre generazioni dei quali a cavallo di due terribili guerre mondiali lo conobbero e lo ricordano come l'arciprete per antonomasia che li faceva allenare ai giochi di palestra nell'incompiuta chiesa di S. Pietro, mentre i più piccoli coltivavano numerosi giardini nelle adiacenze; fece scuola a chiunque aveva voglia d'imparare; organizzò una banda musicale fornendo gli strumenti e facendo venire appositamente un maestro da Frosinone; portava i ragazzi in gite in montagna e a valle; li inquadrò in truppe di giovani esploratori prima che questa organizzazione venisse soppressa dal regime fascista, e quando ci voleva non lesinava uno scapaccione; rigido moralista, era un uomo per tutte le stagioni, dai fanciulli ai vecchi; egli dette al paese una coesione sodale-religiosa mai prima avuta.

Per rievocare la figura del terzo di questi prelati paesani, fra Pandolfo da S. Stefano, bisogna risalire al medioevo e alle torbide vicende politiche che lo caratterizzarono nel Basso Lazio.

Fra Pandolfo fu, per un breve periodo di tempo durante la prima parte del secolo XIII, abate di Monte-cassino, sacrificato poi alla ragion di stato nel rinnovato conflitto tra papato ed impero. Ecco lo scarno resoconto che ci ha lasciato il cronista Riccardo da S. Germano.

«Nell'ottavo giorno di gennaio (1237) si è proceduto, secondo le prescrizioni canoniche, all'elezione di fra Pandolfo da S. Stefano ad abate cassinense, elezione che come per ispirazione divina fu approvata ad unanimità. In marzo, fra Simone da Presenzano e fra Stefano da Corvario andarono in Germania presso l'imperatore (Federico Barbarossa) con lettere del convento a lui indirizzate nelle quali si annunziava l'elezione canonicamente celebrata di fra Pandolfo da S. Stefano ad abate».

In maggio, i due monaci sono di ritorno in Italia con lettere dell'imperatore indirizzate agli arcivescovi di Capua e di Palermo e al vescovo di Ravello « incaricandoli di condurre accertamenti sulle qualifiche del nuovo abate... Nel mese di agosto fra Bernardo da Babuco, fra Giovanni da S. Germano, fra Gregorio da S. Stefano ed altri... andarono in missione presso il papa (Gregorio IX) a Viterbo per ottenere la conferma papale dell'elezione; ma ciò non fu possibile... perché non si era proceduto alla detta elezione secondo i riti stabiliti; ma dopo molte istanze i messi ottennero che, per il bene del monastero, fra Pandolfo rimanesse in carica come amministratore fino a quando fosse convenuto al papa ». E così venne fatto, e fra Pandolfo amministrò il convento fino al novembre 1238, quando venne eletto, ed approvato dal papa, il nuovo abate nella persona di fra Stefano da Corvario.

I retroscena di questa vicenda non sono chiari, ma i moventi erano politici; il monastero di Montecassino che controllava strategicamente la strada principale tra Roma e Napoli era di giuspatronato imperiale, e l'elezione del suo abate doveva avere il beneplacito dell'imperatore, che sembra fra Pandolfo abbia avuto; fu il papa, per ragioni ignote, a contestare l'elezione come « canonicamente difettosa » (21).

* * *

In tutte le religioni lievita un forte senso dionisiaco attraverso il quale l'intensità spirituale intima si manifesta in esperienze sociali con celebrazioni, feste, processioni e sacre rappresentazioni. Nei comuni rurali e cittadini del Lazio, dal medioevo fino al secolo scorso, il calendario includeva circa 60 festività di osservazione generale, altre di devozione locale, oltre alle domeniche. Nei paesi ad economia agricola, le feste coincidevano con le attività stagionali delle colture, e molte di esse discendevano direttamente da riti religiosi precristiani.

Tale era infatti la processione delle Rogazioni maggiori che si teneva a S. Stefano fino ad una cinquantina d'anni addietro il 25 aprile in coincidenza con la festa di S. Marco, con la quale si impetrava l'aiuto divino per le colture dei campi e per gli animali, celebrazione che si ricollegava direttamente alle Robigalia romane. La processione partiva dalla chiesa al canto delle litanie dei santi, dirigendosi verso la cappelletta dedicata a S. Marco nella contrada omonima, con i chierichetti inquadrati dietro il crocifero, ciascuno dei quali portava una lunga canna con la punta foggiata a croce, alla quale erano legati rametti di pennetella, l'odorosa nepitella. Giunti alla cona dell'Evangelista, l'arciprete intonava le invocazioni rogatorie e aspergeva con l'acqua benedetta la valle e la montagna.

Altra processione propiziatoria era quella che si teneva quando l'arsura minacciava le colture, con l'antica statua della Madonna dell'Acqua. Anche i riti popolari che accompagnavano la festa di S. Giovanni il 24 giugno erano di diretta discendenza dagli antichi riti lustrali, con uomini e donne che recitando una filastrocca si facevano la croce a vicenda con un garofano bagnato nell'acqua santa per farsi comari e compari di S. Giovanni.

Tra le feste caratteristiche di S. Stefano ancora osservate sono quelle di S. Antonio Abate, S. Sebastiano e S. Rocco, che avevano per scopo la richiesta di protezione contro malattie; per S. Antonio si raccoglieva legna per fare il fuoco in piazza, che veniva benedetto, e dal quale ognuno si portava a casa qualche brace per guardarsi da varie malattie ed in particolare dalla erpete zoster, il « fuoco di S. Antonio »; S. Sebastiano era ancor, prima di S. Rocco, protettore contro la peste e malattie respiratorie; di S. Rocco si è già parlato.

Forse il periodo più religiosamente intenso era quello della Settimana Santa, durante la quale si aveva una sublimazione di massa delle pene e dei dolori umani nella passione e morte di Gesù Cristo. Alla pazza gioia del Carnevale che vedeva gente d'ogni ceto riversarsi per le strade ed entrare anche nelle case, mascherata e camuffata nelle maniere più goffe nello spirito dei saturnali, seguiva la quaresima con le via crucis, le prediche ed altri riti penitenziali.

La grande commemorazione della passione e morte del Cristo incominciava la sera di Mercoledì Santo quando, legate le campane e coperte tutte le immagini sacre, i ragazzi facevano il giro del paese, chiamando con le loro voci stentoree e i rumorosi tricchi-tracche e raganelle la gente alla chiesa per l'ufficio delle tenebre cantato dai canonici; nella chiesa nuda rischiarata appena dalle quindici candele della hercia tenebrae davanti l'altare, il canto delle lamentazioni di Geremia e dei salmi penitenziali creavano un atmosfera di intensa drammaticità.

Nel pomeriggio di Giovedì Santo si osservava la commemorazione dell'ultima cena di Gesù, e nell'anacronismo tipico alla tradizione popolare, l'esposizione della Eucaristia veniva confusa con quella del Cristo morto. Nello spazio tra i due altari della navata in cornu epistolae si addobbava la cappella del sepolcro con drappi, luci, vasi e cassette folti di pallidi fili d'erba fatta crescere nel buio delle cantine; la processione del Cristo nella bara usciva dalla sacrestia annunziata dai tricchi-tracche dei chierichetti e dalla nuvola d'incenso che precedeva l'arciprete in piviale con l'ostensorio, sotto il baldacchino; lo accoglievano i canti sacri della popolazione, non senza il pianto delle donne al passare del Cristo morto, che poi veniva depositato nella cappella del sepolcro dove veniva esposto anche il SS.mo Sacramento all'adorazione dei fedeli.

Nella lunga vigilia notturna, gente andava e gente veniva, mentre i chierichetti cadevano addormentati sulle cassapanche della sagrestia; e poi, verso le due del mattino, si radunavano alcuni uomini che indossato sacco con cingolo ai fianchi, prendevano la grande croce del Calvario e uscivano seguiti dai chierichetti, per fare il giro del paese cantando a distesa lo Stabat Mater, come una trenodia, per le strade deserte. Il Venerdì Santo, aveva luogo la sacra rappresentazione della morte di Nostro Signore detta popolarmente l'Agonia. Anticamente essa si svolgeva al di sopra della chiesa di S. Sebastiano nella contrada detta appunto alle Croci del Calvario; venne poi spostata all'interno della chiesa e quindi nella chiesa parrocchiale. Si costruiva un'impalcatura al di sopra dell'altare che poi si copriva con frasche d'alloro per simulare il Calvario, sopra il quale si alzavano le croci con il Cristo e i due ladroni, e sotto di esse la Madonna Addolorata, la Maddalena e S. Giovanni, mentre alcuni soldati romani di cartapesta facevano la guardia.

Il mastro falegname che aveva curato la messinscena provvedeva anche agli effetti scenici, tuoni e lampi, utilizzando grancassa, cimbali e luci. Le tre ore dell'agonia di Nostro Signore si svolgevano, a partire da mezzogiorno, in un'alternazione di canti e di prediche nelle quali si commentavano le sette ultime parole di Gesù sulla croce; erano tre ore fortemente drammatiche per i fedeli stipati nella chiesa abbrunita, ma sul palco del coro si vivevano momenti teatrali con i tenori e baritoni paesani che si facevano concorrenza negli assoli.

Completatasi la tragedia, il mastro della messinscena, come un deus ex machina, inscenava la deposizione, dalla croce, ed il Cristo schiodato andava ad adagiarsi sulle braccia protese della madre, che poi cominciava la discesa dal Calvario seguita da Giovanni e dalla Maddalena. L'ultima scena di questo sacro spettacolo si svolgeva a sera con la processione del Cristo morto, nella bara, per le vie del paese; più che una processione era un corteo funebre rischiarato da lanternoni e torce a vento con la popolazione che cantava le antiche laudi nelle quali si enumeravano le offese ed obbrobri fatti a Gesù confessando la propria colpa: « Sono stato io l'ingrato, Gesù mio perdono pietà ».

Caratteristica di questa processione era la tradizionale partecipazione di alcuni capifamiglia in sacco nero, corda e cappuccio calato sul viso, ciascuno dei quali portava una croce a spalla e, legato alla caviglia, un pesante fascio di catene che trascinate a ritmo lento sull'acciottolato evocavano i colpi della sferza sulle spalle di Gesù Cristo.

La passione del Cristo faceva vibrare corde simpate-tiche nella coscienza del popolo che in essa ritrovava un riflesso della sua vita terrena. Ma la tragedia ha un suo limite, e dopo la catarsi, brilla la gioia. Di buon'ora, la mattina del Sabato Santo, nelle case era tutto un rompere ed un battere d'uova, mischiar di farina e zucchero e grattugiare di limoni per le tradizionali pizze dolci, ciambelle, caprii e pupe per i più piccoli; e tra tutta questa attività ed i profumi di cannella, anice, noce moscata ed altri, si scioglievano le campane, e dalla morte veniva nuova vita. Nel pomeriggio l'arciprete incominciava la benedizione delle case con un seguito di chierichetti che si avvicendavano a portargli a casa i panieri colmi d'uova.

Era così arrivata anche la grande Pasqua; il giorno di Pasquetta c'era chi andava a far scampagnate; l'arciprete con i suoi chierichetti risaliva l'aspro sentiero che portava sopra la montagna al Macchione a benedire le capanne e pagliari dove abitavano quei gagliardi montanari che vi si erano trasferiti da Vallecorsa in cerca di terre da lavorare. Al ritorno, i ragazzi si fermavano lungo il fosso del Cupiccio e si divertivano a gridare e chiamarsi, e poi attendevano l'eco che rispondeva con le loro stesse voci.

 

 

(1) INVENT/SPAp., 2.

(2) Valeri, op. cit., 691.

(3) INV. SPAp., 46.

(4) Ibid. 9-10, 47.

(5) Valeri, op. cit., 691.

(6) APVSS/Confrat. Purg., passim.

(7) L'atto notarile della « Erectio confraternitae Septum Dolorimi Beatissimae Virgini in ecclesia divi martiri S. Stephani (sic) facta per R. D. Aloysum Fiocco die 25 mai 1795 indictione XIII » venne rogato dal notaio Vona di Monte S. Giovanni ma domiciliato a S. Lorenzo; v. ASF/Arch. Not. Amaseno, Vona N. 188; v. anche INV/SPAp., 48-53.

(8) INV/SPA., 50-51.

(9) APVSS/Sedute Capitolo S. Maria (Sed. Capit.).

(10) AOVlSS. Il testo delal bolla si trova allegato in copia alle risoluzioni consiliari per il 1720.

(11) ACVSS/Cat. 1753.

(12) ASF/Arch. Not. Amaseno», Vona n. 111.

(13) Valeri, op. cit., 691.

(14) APVSS/Sed. Capii.; v. anche ASF. B/1138 F/2939-40.

(15) APMSS/iirid.

(16) Ibid.

(17) Valeri, op. cit., 692.

(18) Il nome dell'Altobelli compare in AGVSS/Cat. 1500; quello del Gentile in don Luigi Falconi, Appunti storici intorno alla Madonna dello Spirito Santo, 7-8; per il Petrone v. anche APVSS/Invent. Madonna Spirito Santo.

(19) APVSS/Sed. Gapit., passim

(20) Per una memoria su mons. Jorio, v. di questo autore: « Due ciociari fra tanti », Terra nostra, Anno XX, ottobre-dicembre 1981.

(21) Georg Pertz, « Ryccardi de Sancto Germano notarli Chroni-ca », Manum. Germ. hisf., Script. XVIHI. Anche in Rerum Italicarum Scriptores ed. Carducci, voi. VII, dove in una nota a pag. 193 si dice che l'elezione di fra Pandolfo, approvata dall'imperatore, venne annullata dal papa « quia ipsam invenimus minus canonice celebrata ».

 

 

 

 
 

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