Cap. XI - CHIESE DEL TERRITORIO DI SANTO STEFANO E' difficile dire quali e quanti siano stati i luoghi sacri del territorio di S. Stefano prima del secolo XVI; fin dal tempo del primo cristianesimo sorsero nella valle dell'Amaseno santuari, chiesette e cone, talune convertite dai riti pagani a quello cristiano, altre erette dalla derfrvozione delle genti del posto, e molte altre messe su alla meglio con annessi romitori da monaci greci rifugiatisi in gran numero nell'Italia meridionale in seguito alle persecuzioni iconoclastiche. La maggior parte di queste strutture scomparvero lasciando spesso il nome alle contrade dove sorsero: S. Andrea, S. Maria Maddalena, Pezza dei Santi, Cona di Pietro Giovanni, Cona della Portella; altre invece, sopravvissute alle intemperie degli elementi e alla rapacità umana, erano ancora aperte al culto sul sorgere del Cinquequecento: S. Salvatore, S. Silvestre, S. Maria del Pozzo o della Pozza, S. Maria della Stella, S. Maria della Neve e S. Giovanni Evangelista a valle; S. Antonio Abate e S. Sebastiano alla periferia del paese; e dentro le mura castellane la chiesa arcipretale di S. Stefano, quella di S. Pietro ed una seconda dedicata a S. Sebastiano; solo più tardi, nel Settecento, sorsero le chiese di S. Antonio di Padova fuori Porta e della Madonna dello Spirito Santo. E' interessante notare che la maggior parte delle chiese della comunità si trovavano nella campagna, anche se la popolazione era concentrata nell'agglomerato del castrum. Nell'itinerario del vescovo Calassi del novembre 1585, non si fa alcun riferimento alla chiesa di S. Salvatore al Porcini, lungo la strada che da Vallefratta andava a Priverno, Sezze e Velletri, né a quella di S. Silvestre in fondo alla strada delle Sparelle, anch'essa vicina a questa strada (1). Probabilmente le due chiese erano state abbandonate a metà secolo in seguito alle devastazioni e alla gran fame di quel tempo; ma che esse fossero ancora aperte alle devozioni della popolazione al principio del Cinquecento ce lo dicono i riferimenti catastali a terre ad esse decimate (2). La tradizione popolare ricorda che queste due chiese facevano parte di conventi, ma pare più ragionevole pensare che ad esse fossero annessi romitori, e che le tombe di frati che i contadini rinvenivano di tanto in tanto lavorando nei campi adiacenti ai ruderi di queste chiese ed i cimeli in esse trovati appartenevano agli eremiti che da tempi antichissimi vi si associarono. Di queste chiese oggi non rimane nemmeno un rudere. Il resoconto Calassi ricorda due chiese di campagna dedicate alla Vergine Maria: S. Maria della Neve e S. Maria del Pozzo. Della prima, il redattore dell'itinerario scrive: « Nelle immediate vicinanze della città era la chiesa di S. Maria della Neve, unita a S. Stefano », cioè aggregata amministrativamente alla chiesa arcipretale. « Questa chiesa stava rovinando. Il Calassi ordinò che si cercasse un architetto e ingiunse agli ufficiali della città di aiutare con i loro contributi l'opera dei sacerdoti » per compiere i necessari restauri. L'altare maggiore era ornato da un'insigne immagine della Beata Vergine Maria e l'altare dedicato alla Madonna aveva l'immagine della Vergine, di S. Lucia e di S. Caterina » (3). Non si trova altro riferimento documentario o nella tradizione a questa chiesa; la sua prossimità al paese fa pensare che fosse ubicata nella contrada della Pezza dove oggi sorge la cona dell'Immacolata presso le terre appartenenti alla famiglia di Marcantonio Jorio. Se si sia fatto il restauro ingiunto dal vescovo Calassi, non sappiamo; probabilmente no. Ma quando le chiese venivano abbandonate e lasciate rovinare, le res sacrae venivano rimosse e trasferite ad altre chiese; e la tela della Madonna, S. Lucia e S. Caterina di questa chiesa, la troviamo alla fine del Settecento nella sagrestia della vecchia chiesa di S. Pietro: « Nel muro vi è un quadro grande di tela colorito ad oglio, che stava nella chiesa antica parrocchiale, rappresentante l'imagine di Maria SS.ma con il Bambino a destra sule braccia, S. Lucia a destra, e S. Catarina vergine e martire a sinistra, usato, e alla rustica» (4). Il quadro risulta così trasportato «nella antica chiesa parrocchiale» dedicata a S. Stefano, e quando questa venne demolita a metà Settecento per la costruzione del nuovo tempio da dedicare alla Vergine Assunta in Cielo, esso venne, con tante altre cose sacre, messo in deposito nella chiesa di S. Pietro. La chiesa di S. Maria della Stella sorgeva a valle della Pezza sulla strada degli Spagnoli, al margine del Pantano; di costruzione molto antica, a metà strada tra S. Salvatore e S. Silvestre, era una delle tante chiese che costeggiavano questa importante via d'accesso al mare; restaurata con un lascito del conte Giacomo di Ceccano nel 1363, continuò a fiorire ancora per molti anni, poi scomparve completamente lasciando però il nome alla contrada nella quale sorgeva; a riconfermarne il ricordo, i santostefanesi hanno eretto una edicola dedicata a questa Madonna sul presunto sito dell'antica chiesa; fino ad alcuni anni addietro vi si teneva una fiera di bestiame. Questa chiesa non viene affatto ricordata nell'itinerario Calassi, e presumibilmente era rovinata e già abbandonata; ma nel resoconto della visita di questo vescovo, si parla di un'altra chiesa fatiscente che sorgeva apparentemente nella stessa area, detta S. Maria del Pozzo; si fa così avanti l'ipotesi che si tratti di una unica chiesa con due appellativi diversi. « Molto distante dalla città, in un periodo imprecisato, era stata edificata la chiesetta di S. Maria del Pozzo, completamente abbandonata, e divenuta rifugio di bestie, che liberamente ci entravano » (5). La chiesa prendeva probabilmente il suo nome dalla vicinanza alla zona allora acquitrinosa del Pantano, o Pozza; l'appellativo di S. Maria della Stella, più correttamente S. Maria delle Stelle, le venne forse dalla presenza in essa di una bellissima statua lignea della Madonna con un manto turchino tutto trapunto di stelle d'oro, che ancora si venera nella chiesa parrocchiale del paese sotto il nome di Madonna dell'Acqua, appellativo che potrebbe riferirsi alla sua primitiva ubicazione presso il Pantano. La più importante delle chiese di campagna nel territorio di S. Stefano, sia dal punto di vista storico-sociale che di quello artistico, fu e rimase fino a pochi decenni addietro quella di S. Giovanni. I ruderi di questa antichissima costruzione folti di edere, con le navate invase da rovi ed arbusti, le sinopie di santi e madonne che guardano con le occhiaie vuote dalle mura sbiancate dalla pioggia sono malinconici testimoni dell'ignoranza e dell'incuranza locale. Essi coprono tuttora il più antico sito sacro del territorio di S. Stefano, dove già in tempi antichissimi le genti che abitavano i colli e le valli sottostanti avevano eretto un santuario per l'officiatura dei loro riti lustrali e che poi con l'allargarsi dei rapporti civili e sociali tra loro divenne luogo per i raduni della comunità pagense che si era formata durante il tempo di Roma. Data la lentezza del processo sincretistico, specie nelle campagne, non è facile stabilire quando il santuario venne ridedicato al culto crisitano, ma ciò dovette verificarsi verso il sesto secolo, quando gli enti fondiari ecclesiastici dell'agro pontino dettero il via alla colonizzazione della valle dell'Amaseno. L'accettazione della nuova religione non comportava, al livello di popolo, l'abbandono di quelle credenze e riti comuni al patrimonio religioso di vari popoli, e che in effetti vennero utilizzati per agevolare la transizione dall'antica alla nuova fede; e le pozze nel tufo che raccoglievano l'acqua sorgiva, prima che scorresse ad irrigare le valli, usate nel passato per la lustrazione di uomini ed animali, venne riconsacrata come fonte battesimale per i catecumeni anche con il rito ad immersione ancora in uso nella Chiesa latina in quei tempi. Che come luogo di battesimi il santuario venisse intitolato a San Giovanni Battista, sembra perfettamente logico. Più tardi però, forse per l'influenza di monaci greci sfuggiti alla persecuzione iconoclastica che si stabilirono nelle vicinanze, il santuario venne ridedicato all'Evangelista Giovanni, dedica rimasta in effetti sino ai nostri giorni, ma non senza una certa confusione. La chiesa di S. Giovanni è composta infatti di due chiese diverse per il tempo che vennero erette e stile: quella grande, cioè la chiesa originale sorta sul santuario pagano e dedicata all'Evangelista, e l'altra più cappella che chiesa eretta nel Quattrocento come estensione laterale dell'altra, intitolata al Battista. Il perimetro della mura che racchiudeva queste due chiese si alza ancora al margine della « valle di Sancto loanni » al di sopra della fontana omonima, ora solo abbeveratoio per bufali, dove fino a pochi decenni addietro, a fine giugno, giovanotti e ragazze si recavano a farsi compari e comare S. Giovanni. All'interno rimanevano ancora imponenti le solide arcate che dividevano la chiesa dalla navata della cappella, con gli affreschi ancora in buono stato, specie nella cappella. La chiesa dell'Evangelista venne rifatta, più ampia, verso la fine del Millecento probabilmente per interessamento del conte Giovanni di Ceccano, e fu restaurata varie volte attraverso i secoli; verso la fine del Trecento quando era ancora chiesa unica, per un lascito del conte Giacomo di Ceccano, e l'ultima volta nell'Ottocento. L'architettura è quella comune ad una navata con tetto a capanna, ma la facciata rivela un'attenzione, da parte dei mastri muratori, allo stile romanico, com'era evidente nel portale con lunetta e l'occhio che originalmente doveva contenere un rosone lavorato. Quando si venne a costruire la cappella del Battista con la navata di accesso, la facciata fu prolungata con l'aggiunta di un altro porta'le più piccolo, che se la rese asimmetrica, non mancava di una certa grazia, con il lungo spiovente che correva incontro al declivio del prato; intonacata varie volte ed affrescata nella parte inferiore, porta ancora qualche traccia di dipinto. Al lato del portale grande, la sinopia di un santo in dalmatica, forse S. Stefano, il capo aurolato, fìssa con lo sguardo che sembra provenire dalla profondità dei secoli chi entra. All'interno, prima che crollassero le capriate, la moltitudine delle immagini sui muri nelle quali gli artisti trecenteschi avevano ritratto le sembianze di gente del paese guardavano ancora le ultime generazioni venute a pregare. Il crollo del tetto nel secondo decennio del corrente secolo causò completa rovina agli affreschi già deteriorati per l'umidità. L'altare dell'Evangelista era addossato al muro di fondo del presbiterio, e sotto di esso era una cripta, forse parte dell'antico santuario ma più probabilmente una tomba per i monaci e gli eremiti che si aggregavano al santuario. Ai lati dell'altare sono ancora vagamente riconoscibili due gruppi di affreschi: il Salvatore con la Vergine in trono in cornu evangeli, e la Crocefissione con S. Giovanni e le Pie Donne in cornu epistolae. Sopra l'altare doveva esserci un grande affresco di Giovanni Evangelista, al quale venne sovraimposta nel Seicento, in una grossa cornice di stucco, una tela ad olio che testimonia la prevalente confusione agiografica; in essa era rappresentata con crudo realismo la Salomè che teneva in mano per i capelli la testa del Battista dagli occhi spiritati e grondante sangue, causa d'infiniti incubi a generazioni di ragazzi; questa tela che, stracciata e scolorita penzolò dal muro fino a tempi recenti, veniva ritenuta dal popolo, con altrettanta ambivalenza di storia sacra, una rappresentazione di Giuditta con la testa d'Oloferne. Gli affreschi del muro laterale e di quello d'entrata erano talmente rovinati da lasciar vedere solo tracce di colori, qualche aureola e dei panneggi. Ora quasi tutto è scomparso. Scesa la predella dell'altare, immediatamente sulla parete a mano sinistra, si apre una porticina che porta alla cappella gotica adiacente. Una lapide sopra l'architrave, ora scomparsa, racconta l'origine di questo gioiello di arte ben conservato fino a pochi decenni addietro con gli affreschi ancor vividi, ed il bell'arco a sesto acuto, ora crollato. La lapide, che era ancora sull'architrave nel 1960, è stata rimossa ed asportata da ignoti. Il testodiceva: Questa cappella venne fatta costruire da Pietro Boccanappi unitamente alla consorte Jacobella dedicata alla gloria di Dio ed in onore del beato Giovanni Battista per la salute delle anime loro e di quelle dei loro parenti morti, che riposino in pace Amen. Nell'anno del Signore 1439, indizione seconda. Nicola di Andrea e Nicola di Donato fecero il lavoro. Che sia benedetto Cristo, e così sia (6). Chi sia stato questo Pietro Boccanappi non sappiamo; fu probabilmente originario di Roma, come sembra indicare il nome, stabilitesi nel castrum S. Stefani con mansioni amministrative dove prese moglie; il nome Jacobella era ancora comune in paese nel Cinquecento. Che fosse persona facoltosa ce lo dice questa costruzione che egli intendeva probabilmente come cappella con tomba di famiglia. Fu solo in un secondo tempo che venne deciso di integrarne la struttura in quella della chiesa preesistente, provvedendola di una navata di accesso, aperta attraverso archi a sesto rialzato, alla chiesa grande, ampliandone lo spazio. Da questa navata, che come s'è detto aveva un suo portale minore nella facciata appositamente prolungata, si accedeva per un grande arco a sesto acuto alla cappella, che nella sua identità artistica non aveva alcun rapporto con il resto della struttura. Nel breve spazio delimitato dalle vele che scendevano dalla volta a crociera gotica, tutta una folla di figure di santi e di personaggi della storia sacra si affacciavano fino a pochi anni fa dai frammenti d'intonaco quasi volessero aiutare il visitatore a dare un significato al tragitto umano tra passato e presente, a quello personale della vita, alla morte ed oltre. Sopra l'altare, contro il muro di fondo, si alzava la figura, quasi di dimensioni naturali, del Battista rivestito di una tunica e mantello che reggeva nelle mani il vassoio, pronto al sacrificio per la sua fede. Alla sua destra, in alto, nella sala dei festini alla presenza di Erode, Erodiade e molti convitati, Salomé danzava per ammaliare il re onde ottenere la testa del santo, mentre al di sotto, in un ambiente cittadino con alti edifici, era in progresso la strage degli Innocenti. Alla sinistra, dall'alto della volta, due angeli si lanciavano annunciando con le loro trombe la resurrezione della carne alle tombe in basso, che si andavano scoperchiando con i morti che si destavano sbigottiti. Ai piedi di S. Giovanni, al livello dell'altare, in cornu evangeli, tre figurine in miniatura, cappa scura su tunica bianca, con e mani giunte, si volgevano in venerazione verso il santo; la prima di questa, con barba ed aureolata, portava un bastone con una bisaccia con il segno di un pal-metta a sei foglie, forse S. Antonio Abate, mentre le altre due figure, senza barba e con il capo raso, sembrano uscite dalle mani di un artista copto. La cappella, che si apriva sulla navata con il bell'arco a ogiva, aveva tutta una sua unità di concezione artistica e religiosa. Lo stile degli affreschi nelle due chiese ben visibili fino agli anni Venti-Trenta si richiamavano all'arte di Antonio di Alatri; in particolare quello del Salvatore con la Vergine, al lato dell'altare della chiesa maggiore, le cui sembianze riconducevano al suo trittico nella chiesa di S. Maria Maggiore di Alatri, mentre la figura slanciata del S. Giovanni sopra l'altare della cappella gotica sembra rifarsi al S. Sebastiano del Trittico. Data l'influenza di questo artista sui pittori che lavoravano nel Basso Lazio durante la prima metà del secolo XV, è probabile che gli affreschi delle due chiese di S. Giovanni siano opera sua o della sua bottega. Data la sua posizione esposta e lontana dal paese, la chiesa di S. Giovanni fu soggetta alle intemperie e alla devastazione di bande armate, e venne abbandonata più di qualche volta. Così la trovò il vescovo Calassi nell'autunno del 1585: « Fuori della città si trovava anche la chiesa di S. Giovanni, con due navate e due altari, uno per navata. Un altare era dedicato a S. Giovanni ed aveva un'immagine dipinta sul muro del Santo titolare. Vicino a questa chiesa abitava, in una camera sordida ed indecente, un eremita dell'ordine di S. Paolo. Il reddito della chiesa ammontava a 25 scudi in frumento, vino, lino. Vi si celebravano 4 messe l'anno; nella festa di San Giovanni Battista, vi si cantava la messa ed il vespero. In tale giorno si svolgeva presso questa chiesa un mercato. Durante il restauro dell'altare maggiore erano state trovate delle reliquie, trasferite, senza licenza dell'ordinario, a Giuliano », ed il vescovo ordinò ai giulianesi di restituirle alla chiesa (7). La chiesa venne restaurata varie volte; un importante restauro si fece in seguito al lascito testamentario del 1363 fatto dal conte Giacomo di Ceccano già ricordato; questi lavori si riferivano solo alla chiesa, dato che la cappella gotica non era ancora stata edificata. Gli ultimi lavori di ripristino vennero fatti nel 1866 quando la chiesa « e specialmente il tetto (era) ridotto a tale stato, che se non vi si provvede presto, rovina ». L'arciprete Rocco Ventura ed il Capitolo, ricevuta l'autorizzazione dal vescovo mons. Gesualdo Vitali di vendere alcuni « censi capitolari », affidò i lavori al mastro muratore Carlo Buzzolini. La chiesa stessa era ancora in ottime condizioni, il guasto era nel tetto « prodotto dai ragazzi, che in diverse epoche dell'anno, e specialmente nel giorno antecedente e susseguente alla sua festività (di S. Giovanni Battista), vi salgono per suonare la campana »; e perciò il beneficiato rev. Luigi Maria Bonomi in una seduta del Capitolo nel settembre del 1866 proponeva di « toglierla effettivamente dal campanile di essa chiesa, straportarla nel campanile di questa chiesa madre ... a supplire alla mancanza della campanella ... (per) togliere l'occasione di salire sul tetto della chiesa rurale di S. Giovanni Battista. Perché in quella chiesa non manchi il mezzo di invocare i circostanti contadini alla messa, ogni qualvolta vi si andrà a celebrare, sarei di subordinato parere di togliere la campanella nel piccolo campaniletto della chiesa di S. Antonio Abbate, in oggi sospesa, e portarla nella chiesa di S. Giovanni Battista e situarla, non sopra il tetto, ma dentro l'occhialone della facciata collo spaco di dentro e così rimuova ogni danno che per la campana veniva causato nel tetto della chiesa ». Il Buzzolini completò i lavori per la fine di ottobre rifacendo tutto il tetto, restaurando il campanile ed il portale grande, facendo tutti i lavori di muratura e falegnameria, ripulendo ed imbiancando tutto l'interno della chiesa (8). Il lavoro si riferiva essenzialmente alla chiesa maggiore; la cappella gotica rimaneva ancora in ottime condizioni. La chiesa continuò ad essere officiata per la festa del Battista fino ai primi decenni del presente secolo quando, 'dopo la messa mattutina, al suono della campanella s'iniziava la mietitura. Negli anni Venti, il tetto era nuovamente in rovina, ma la chiesa rimaneva meta di gruppi di giovani d'ambo i sessi, scortati dalle nonne, che inghirlandati di vitalba, si recavano il giorno della festa del santo per i riti di comparatico di S. Giovanni. Nella chiesa maggiore, e più ancora nella cappella gotica, erano ancora distintamente riconoscibili quasi tutti i lavori di pittura; la tela dell'altare maggiore, detta di Giuditta ed Oloferne, staccatasi in parte dal muro, penzolava, e quando una piccola brezza la muoveva, il capo sanguinolento del Battista in mano a Salomé, con i suoi occhi spiratati, sembrava ravvivarsi e metteva i brividi agli astanti e faceva scappare i ragazzi impauriti. Venduta dai Colonna, che ne avevano acquisito il giuspatronato una volta dei conti di Ceccano, la chiesa è passata di male in peggio; e fino ad una ventina o pochi più anni addietro si sarebbe potuto conservare questo gioiello dell'arte locale, ma lo si è lasciato andare alla malora irrimediabilmente. L'ultima chiesa che venne eretta nelle campagne di S. Stefano fu quella della Beata Vergine Sposa dello Spirito Santo, in seguito all'apparizione del 1721; ecco come gli eventi che portarono alla costruzione di questo nuovo santuario vengono descritti in un documento del 1866. L'anno 1721, trovandosi già una cappelletta per cui vi era dipinto sul muro a fresco l'immagine di Maria SS.ma col figlio in braccio, e dalla parte opposta lo Spirito Santo in forma di colomba per cui quelle contrade avevano già nome dello Spirito Santo, un quinto di miglio circa distante dalla terra di fronte di S. Stefano, in una (zona) boscosa, l'anno suddetto 1721 si manifestò, giusto si asseriva da uomini più vecchi del paese, con risanar patentemente uno zoppo. Fu grande il concorso dei popoli forestieri, onde fu dovuto smacchiare il luogo dove era sita la cappelletta. Colle largite limosine sotto il di 10 febbraio 1724, l'arciprete e beneficiati di questa chiesa parrocchiale supplicarono il vescovo di Ferentino per la licenza di erigere la chiesa, e difatti fu ottenuta. Sotto il di 7 maggio detto anno 1724 fu posta la prima pietra per la costruzione della nuova chiesa, che fu benedetta dall'arciprete don Marc'Antonio Petrone, come delegato dal lodato Mons. Vescovo con la solita solennità, e ne fu fatto pubblico rogito per gli atti del notare Feliciano Lolli di Prossedi, come consta dalla scrittura esistente nell'archivio di questo reverendo capitolo. Nel 1733, il di 14 maggio fu terminata la detta chiesa e in detto giorno ed anno, che fu giorno solenne festivo dell'Ascensione, la detta chiesa fu benedetta dalla beata memoria di Mons. Fabrizio Borgia vescovo di Ferentino, a bella posta venuto con decoroso seguito e concorso di forestieri, ed esso lodato prelato, benedetta la nuova chiesa vi celebrò la santa messa » (9). Un esame delle strutture della chiesa rivela due tempi di costruzione: quella del 1733, ed un ampliamento con l'aggiunta di una navata d'accesso con volta a botte avvenuto non si sa quando. La prima costruzione appare esser stata un ben proporzionato tempietto in stile classico chiuso entro quattro archi molto slanciati, ancora visibili nella muratura interna ed esterna, sopra i quali posava una graziosa cupola con decorazione lacunare; è molto probabile che in questo tempo vi venisse messa nella fascia basale la scritta in latino; ancora esistente, che dice: « Dedicata allo Spirito Santo in onore della gran madre che il popolo di S. Stefano chiama della Spirito Santo e così la venera » (10). L'affresco della Vergine sul muro della cona venne rimosso e posto in una nicchia sopra l'altare in ornato stile barocco sotto la cupola. Questo grazioso dipinto della Vergine ed il Bambino Gesù rimase intatto, anche se toccato dall'umidità, nella nicchia con sportelli fino allo sfregio fatto durante la rapina del 1938. Se c'è qualcosa che sorprende nella linea architettonica del tempietto originale è lo slancio delle arcate che, anche se si alzano eccessivamente in corrispondenza dallo spazio, riesce a creare un forte senso di elevazione, verso lo spirito divino. Quando si decise di aggiungere la navata, fu necessario mantenersi all'altezza delle preesistenti arcate, e per ottenere la copertura della volta a botte, si sopraelevò il tetto al livello della calotta della cupola che così scomparve dalla linea architettonica incorporata nella copertura dell'edificio. Non sappiamo come si sia presentata la primitiva facciata; ma quella presente è architettonicamente sconcertante nella sua altezza e linee perpendicolari; i due grandi pilastri d'angolo che ne sostengono la troppo alta struttura fanno pensare ad un tempio egizio. La chiesa venne restaurata tra il 1872-73 per interessamento di don Baldassarre Perlini, come c'informano le scritte sulle mura esterne laterali, quando si rifece la « doratura dell'altare... l'ornato della cuppola, iscrizioni e tinta nell'interno ... (la stuccatura) dell'altare ... e cornicetta d'oro del quadro del Padre Eterno ... riatto di Stuccatura per i cornicioni interni ... accomodatura della porticina (che dava sulla strada per S. Giovanni, poi murata) ... due finestre con cristalli ... verniciare due porte ... fatto fare la cattedra a Mons. Vescovo per la benedizione della chiesa ... selciato innanzi la porta ... ripulitura dei fossetti lungo la via ... ». I lavori decorativi vennero eseguiti dal pittore Francesco Narducci quelli di falegnameria da Francesco Petrilli (11). Il ritratto « dipinto sul muro a fresco (degl'immagine di Maria SS.ma col Figlio » che nella primavera del 1721 « si manifestò » al povero zoppo che chiedeva la grazia, rappresentava una giovanissima madre, quasi ragazza, dal dolce viso ovale, con sguardo assente e pensieroso tale da suscitare forti emozioni, che reggeva sul ginocchio sinistro il bambino; un manto celeste le copriva il capo ricadendole sulle spalle. Il dipinto venne restaurato varie volte, anche da mani poco esperte che dettero al bambino uno sguardo strabico. Il 16 agosto 1938, mentre la popolazione del paese era congregata nella chiesa parrocchiale per la solenne celebrazione della festa di S. Rocco, ignoti ladri rubarono le corone e gli altri ori e argenti che la devozione del popolo santostefanese aveva donato alla loro Madonna. Secondo il racconto di chi era in paese quel giorno, mentre la processione di S. Rocco era in attesa di uscire dalla chiesa, ci fu un subito fragore di tuono ed un forte temporale, non insoliti a metà agosto; la notizia del furto sacrilego venne portata in paese da un contadino che rientrando per la processione aveva visti uomini bendati darsi alla corsa nelle vicinanze del santuario. L'oltraggio alla Madonna venne fortemente sentito dal popolo e, con a capo l'arciprete mons. Amasio Bonomi, tutti contribuirono alle spese per un nuovo diadema per la Vergine, ed il 21 settembre seguente si celebrò una grandiosa festa per l'incoronazione, presente il vescovo di Ferentino ed il cardinale Domenico Jorio. Sfortunatamente non si fece un restauro dell'affresco rovinato, ma la persona incaricata fece una pittura tutta nuova, un'immagine fredda, stilizzata senza il minimo di quel fascino che aveva caratterizzato l'altra Madonna. Forse il dipinto era rovinato senza alcuna possibilità di restauro; ma esisteva una bella fotografia della Madonna fatta da Pompeo Leo nel 1905, che poteva servire ad uno esperto pittore per una riproduzione dell'antica immagine. L'apparizione della Madonna, che fu essenzialmente un'esperienza psichica dello zoppo che per l'intensità della sua fede venne guarito, viene così narrata da Giacinto Popolla circa 100 anni dopo: « Nella facciata del consumato muro di detta Cappelletta (cioè della diruta Cuona dello Spirito Santo), esposta verso l'oriente, nella seconda Pasqua di Risurrezione dell'anno 1721, che fu l'il aprile, vi si dimostrò un'Immagine con il Bambino nel braccio sinistro, pitta a fresco in un incavo di pietre peperine, che sembrava ,di recente dipinta » (12). Secondo il Popolla, fu un cieco nato, tale Pietrangelo Filippi, e non uno zoppo come nella narrativa sopra citata, ad essere guarito dalla Madonna. C'è un'altra didiscrepanza nel racconto del Popolla; il giorno dell'apparizione, 11 aprile 1721, era il giorno di Parasceve, cioè 11 Venerdì Santo, e non la domenica di Pasqua. L'evento prodigioso portò ad uno scoppio di fede e di emozioni tra la popolazione, non senza però qualche contrasto e dubbio; e « da quel giorno memorando la terra di S. Stefano vide folle innumerevoli accorrere dinanzi alla prodigiosa immagine... per impetrar grazie e favori spirituali e temporali ». E le grazie non si fecero attendere, come risulta dalle testimonianze raccolte dal notaio Biagio Carlone e depositate nell'archivio pubblico della comunità; gente venne dalle terre vicine ma anche da lontano, come « Vittoria figlia di Marsilia della città di Modena e Maddalena Fedele sua zia, ambedue ebree convertite: la Vittoria, sorda e muta dalla nascita, ottiene la favella e l'udito » (13). La fede e la devozione aumentò durante tutto il secolo; e l'arrivo di gente in pellegrinaggio apportò anche benefici economici alla popolazione. Nel centenario dell'apparizione, l'immagine della Madonna dello Spirito Santo fu solennemente incoronata, e per decreto di Pio VII, il suo altare venne dichiarato perpetuamente privilegiato, come ci dice una lapide a sinistra dell'altare: « II 9 settembre 1821, la Beata Vergine Maria dello Spirito Santo fu incoronata con il diadema d'oro del reverendissimo Capitolo Vaticano in solenne rito. Papa Pio VII dichiarò l'altare privilegiato perpetuo » (14). Un' altra lapide dall'altro lato dell'altare, ricorda la seconda incoronazione: « Ave Maria. Questa lapide ricorda ai posteri la seconda centenaria coronazione della prodigiosa immagine di Maria Santissima dello Spirito Santo avvenuta il 9 settemebre 1921 per le mani di S. E. mons. Domenico Bianconi vescovo diocesano. Il popolo di Villa S. Stefano con vivo slancio fedele con solenni festeggiamenti celebrò a sue spese la desiata ricorrenza pregando sul paese l'eterna protezione della Gran Madre di Dio ». Negli ultimi secoli, la chiesa della Madonna dello Spirito Santo è stata tra le più marcate dalla devozione del popolo; anche perché situata com'è al bivio delle strade che portano ai colli e a S. Giovanni, S. Silvestre, Valcatora, essa offre l'opportunità a chi scende o risale dai campi di sostarvi per una breve preghiera e riposo. Durante il mese di maggio, c'è tuttora un andirivieni di fedeli singoli o in gruppo che vi si recano recitando il rosario, e fino a pochi anni addietro nel pomeriggio della domenica vi ci si andava in processione per la benedizione eucaristica, chierichetti in cotta, arciprete in stola e i fedeli cantando inni mariani. Allora la nicchia con l'immagine della Madonna veniva tenuta chiusa e veniva aperta solo durante le funzioni. Arrivato nel tempio, l'arciprete saliva con uno sgabello sopra l'altare per poter arrivare ad aprire gli sportelli della nicchia che portavano il monogramma di Maria; all'apertura degli sportelli, la folla che gremiva il tempio prorompeva in uno scrosciante « Viva Maria », mentre i chierichetti appollaiati sul nido di falco del coro alto nell'abside intonavano i canti. Nella chiesa si trova la tomba di famiglia di un ramo della gente Bonomo, e una lapide nel muro a destra di chi entra ricorda il « Sac. Giuseppe Bonomo m. 7 aprile 1834. Coniugi Matteo Bonomo m. 30 agosto 1847, Francesca Galli di Piperno m. 28 febbraio 1870. I figli Francesco m. 1 dicembre 1861, Albina vedova Corsi m. 21 giugno 1863. Paolina Bonomo pose ». L'ultimo restauro della chiesa venne fatto per lascito testamentario del cardinale Jorio, nell'arcipretura di don Luigi Falconi. Delle tre chiese alla periferia di S. Stefano, quelle di S. Sebastiano e S. Antonio Abate sono di antica data, mentre l'altra dedicata a S. Antonio di Padova sembra risalire al primo Settecento; l'unico riferimento documentario su di essa lo si trova nel catasto 1753. Sorgeva nello spazio fuori Porta dove, tra la sua struttura e quella di S. Antonio Abate sorse, a fine Settecento, il palazzo dei principi Colonna, al quale poi si trovò affiancata. Le mura e quel po' che rimaneva dell'interno erano ancora visibili negli anni Venti — ridotto a cacatoio dei giovani del paese che ci accedevano scavalcando il muro; dopo l'ultima guerra lo spazio venne adibito a cinematografo all'aperto e poi, con la costituzione dell'asilo infantile per il lascito del cardinale Jorio, a cortile e giardino per i bimbi. La chiesa di S. Antonio Abate è ricordata nel resoconto Calassi come « molto rovinata e bisognosa di restauro unita dal 5 marzo 1490 alla chiesa archipretalis » (15). Sorgeva all'inizio della strada che attraversato il fossato della Porta scende ancor oggi verso la Pezza, il Porcini e le strade della valle. Si trova qualche riferimento a beni di sua appatrenenza, « bona ecclesie S. Antonij », nel primo catasto del Cinquecento, ma al tempo del catasto 1753 non vantava rendita alcuna; rimaneva però consacrata anche se raramente ufficiata, e ancora ricordata dalla devozione popolare, come nel legato fatto dai fratelli Francesco e Filippo Lucarini nel 1794. Probabilmente, la chiesa veniva aperta solo per la festa del Santo. Durante una discussione nel capitolo di S. Maria del settembre 1866, si prospettò « di togliere la campanella nel piccolo campaniletto della Chiesa di S. Antonio Abate, in oggi sospesa », per farla mettere alla chiesa di S. Giovanni (16). La chiesa venne finalmente sconsacrata, venduta e adibita poi a mulino elettrico. La prima costruzione della chiesa di S. Sebastiano servì probabilmente da cappella alle genti d'arme della rocca ceccanense, prima ancora dell'incastellamento di S. Stefano. Ampliata più tardi, essa rimase di giuspatronato dei conti di Ceccano fino alla loro scomparsa, e quindi passò sotto la giurisdizione del governo comunale, traccia della quale si riscontra ancora nella prerogativa che ha il comune di organizzare la festa di S. Rocco, la cui cappella fece a lungo parte di questa chiesa (17). Data la sua ampia navata e presbiterio rialzato, essa si prestava alle funzioni di culto, alle rappresentazioni sacre, ma anche alle riunioni plenarie del Consiglio pubblico, come avvenne per le sedute relative alla preparazione del catasto del 1566. Prima del rifacimento strutturale dell'ultimo dopoguerra per ricavarne la canonica, ne era rimasta press'a poco invariata la struttura a capanna del Duecento. Ecco come ci viene descritta nel resoconto Calassi del 1585: « Situata fuori città, aveva una pianta longitudinale con due porte e due finestre. Sull'altare maggiore in un'icona, era collocata la statua lignea del santo titolare » (18), statua che come s'è notato altrove era in sìtu fino agli anni Trenta. Oltre all'altare maggiore, c'erano nella chiesa due altri importanti altari, quello della Madonna del Carmine in cornu evangeli, e quello di S. Rocco in cornu epistolae, entrambi eretti in cappellanìe. L'altare o cappella della Madonna del Carmine venne eretta dalla famiglia Passio nel Settecento e dotato di beni propri; ma dopo la tragedia che colpì questa famiglia, fu lasciata in abbandono; ma presto intorno ad esso si radunò la confraternita del Purgatorio che fece di questa chiesa la sua sede ed in essa i confratelli si radunavano per la recita degli uffici dei morti. Il quadro della Madonna del Carmine che si venerava in questo altare è, con molta probabilità, quello ora posto nella cappella del camposanto con la Madonna, bambino in braccio, che da lo scapolare a S. Giovanni della Croce, mentre dall'altra parte un angelo aiuta un'anima santa a uscire dal Durgatorio; ma potrebbe esser stato l'altro ora sull'altare maggiore della chiesa di S. Sebastiano. « Incontro all'altare della B. V. del Carmine (vi è) quello ... di S. Rocco... Negli antichi inventar! si vedono notati unitamente con quelli di S. Sebastiano i beni ancora di S. Rocco, ma però separatamente » (19). Non è possibile per la mancanza degli « antichi inventari », sapere quando sia stata eretta la cappellanìa di S. Rocco, ma dalla datazione in riferimento ad alcuni suoi beni stabili e terreni, essa era già in esistenza nel 1684; buona parte del suo patrimonio nei secoli seguenti consistè di bestiame vaccino, che nel 1863 era custodito da Paolo Ruggieri. I beni di S. Rocco venivano amministrati da una ristretta confraternita che portava il nome del santo, tra i suoi ufficiali in questo tempo troviamo don Luigi Bonomo, Luigi Buzzolini e Luigi Petrilli (20). S. Rocco continua ad essere ospite di S. Sebastiano; ed uno dei più suggestivi momenti della vita odierna del paese, che in un certo senso riallaccia il moderno all'antico, è la processione della vigilia della festa, quando S. Rocco viene trasportato in una processione raccolta ed insieme solenne alla chiesa parrocchiale per la festa del giorno dopo. Sembra strano che a S. Stefano il santo protettore del paese e della portata taumaturgica di S. Rocco sia rimasto sempre inquilino della chiesa di S. Sebastiano, contrariamente a Giuliano, Amaseno ed altri paesi dove ha chiesa propria. Nel recente rifacimento, della chiesa di S. Sebastiano venne completamente alterata la linea a capanna che aveva caratterizzato la facciata di questa chiesa e la finestra sopra il portone venne ridotta da rettangolare a quadrata, ed in un più recente lavoro di restauro della facciata cambiata completamente in occhio, il campaniletto, una volta in posizione laterale, è stato posto sulla linea di colmo al di sopra del portale. Le antiche chiese all'interno delle mura castellane furono due, quella di S. Stefano e l'altra di S. Pietro; ma forse ce ne fu un'altra. Il documento Calassi dice che: « A S. Sebastiano erano dedicate due chiese. Una costruita da poco per mezzo di elemosine, aveva due altari, di cui uno ornato da una bella immagine della Gloriosa Vergine dipinta su tavola di legno, e l'altro dedicato a S. Maria delle Grazie, con un'immagine nuova dipinta su tela. L'altra chiesa omonima era situata fuori città » (21). Sembra così capire dal testo che la prima chiesa era dentro il paese; manca però qualsiasi riferimento documentario o ricordo nella tradizione popolare circa l'esistenza di una terza chiesa dentro le mura, salvo uno. Un documento del 1815 accenna ad una chiesa dedicata a S. Benedetto situata « a mano manca per andare alla piazza delle Erbe », cioè alla piazza del Mercato, di chi veniva da via del Forno da capo (22). Secondo questa indicazione, la chiesa sarebbe sorta dov'è oggi il forno su via Lata, locale ampio abbastanza da poter contenere una chiesetta, ricavata sembrerebbe nel pianterreno del bel palazzo la cui costruzione risale al tempo dell'apertura della contrada di Corte. E' completamente verosimile che, con il tempo, la chiesa sia stata dedicata a S. Benedetto, per ragioni ignote. La prima chiesa costruita nel nuovo paese in alto dai fuggiaschi, venne dedicata a S. Stefano già patrono della comunità a valle; in essa vennero riposte le reliquie del protomartire e le altre salvate nella fuga. Questa prima chiesetta, che era parrocchiale per la presenza in essa del fonte battesimale, venne costruita dai profughi all'alto del loro insediamento nella Portella, dove si trova la parte absidale della odierna chiesa parrocchiale. Con il passare di secoli, il crescere della popolazione e la crescente integrazione tra la gente della valle e quella del castello, portò alla costruzione di una chiesa più grande verso il principio del Duecento utilizzando lo spazio della prima; l'asse della navata di questa nuova chiesa si stendeva, come quello della prima, da levante a ponente dov'era l'ingresso; un muro laterale di questa costruzione posa ancora sulla nuda roccia tufacea in corrispondenza di casa Marella, le sue pietre ben squadrate fanno pensare a muratori venuti da fuori, forse da Fossano-va, il che fa supporre che la struttura sia stata nello stile gotico-cistercense simile a quella di S. Maria a S. Loren-zo, di S. Maria del Fiume a Ceccano ed altre nella zona; il campanile, distaccato dalla facciata, servì poi da base alle successive torri campanarie. Un attento esame dei lavori di muratura nella parte posteriore dell'odierna chiesa su via S. Pietro e laterale sul vicolo del Campanile rivela i vari rifacimenti della chiesa parrocchiale; e pare certo che verso la fine del Quattrocento si decidesse di ampliarla nuovamente e spostare l'asse della navata verso l'alto, sia per ricavare una navata più lunga, ma anche per orientarne l'accesso verso la parte superiore del paese e la Piazza, dove si era spostato il centro delle attività pubbliche; e per far questo fu necessario rialzare il piano della chiesa. Si aprirono due accessi, uno dalla parte di sopra, dove s'apre il portale odierno, e l'altro sul vicolo del Campanile. E' questa la chiesa che ci viene descritta negli appunti redatti dal segretario del vescovo Calassi: La chiesa archipresbiteralis era dedicata a S. Stefano. In questa era edificato un pulpito di marmo. Aveva due porte; le pareti erano denigratele (annerite, sporche) la pavimentazione era formata da lastre marmoree. Dietro l'altare maggiore erano conservate molte reliquie in un reliquiario di legno dipinto e dorato, principalmente quelle di S. Stefano. Sempre dietro l'altare maggiore c'era la cappella della Concezione della Beata Vergine; vi si venerava una statua della Madonna, ma nelle processioni delle festività mariane era portato un quadro raffigurante la Vergine Gloriosa. Vicino al pulpito era costruito l'altare di S. Stefano con una statua lignea del titolare, definita deforme. Ai lati della porta d'ingresso vi erano due altari: di S. Giacomo e dell'Annunciazione. Il secondo altare aveva una pittura antica dipinta sulla parete e una tomba sotterranea. Infine vi era l'altare del S. Rosario, sulle cui pareti erano dipinti i misteri del Rosario. Qui molti uomini e donne la prima domenica del mese ascoltavano la messa cantata e poi nel pomeriggio facevano una processione portando numerosi e bei vessilli (23). E' probabile che l'estensore del resoconto Calassi non abbia notato che i misteri sopra l'altare del Rosario non erano dipinti sulla parete, ma facevano parte di un quadro ad olio « rappresentante la Madonna SS.ma del Rosario in mezzo, con due imagini di S. Domenico e S. Catarina, e i misteri attorno... (che stava) nella chiesa parrocchiale di S. Maria prima che si facesse di nuovo » che alla fine del Settecento si trovava nella chiesa di S. Pietro (24). Quando si procede alla costruzione della nuova chiesa parrocchiale, molti dei quadri ed ornamenti che erano nella vecchia chiesa vennero mandati in deposito alla chiesa di S. Pietro, dove venne messo anche un altro quadro che raffigurava « il martirio di S. Stefano in tela a olio rozzamente dipinto » (25). La statua lignea di S. Stefano, definita « deforme » veniva ancora esposta in chiesa, rivestita di smaglianti paramenti diaconali, il giorno della sua festa il 26 dicembre fino agli anni Trenta. La statua, dal corpo molto grosso, doveva essere molto antica e di fattura locale. Nel 1855 il comune proponeva di far ripulire «la statua del nostro S. Protettore per la sua antichità è così succita (sudicia) che invece di eccitar divozione allor quando si espone... eccita ad un quasi disprezzo » (26). Ma non si fece nulla, fino al principio del Novecento, quando la statua venne portata nella bottega di mastro Francesco Petrilli in S. Pietro, il quale ne ridusse la corpulenza rifacendola più decorosa e la ripulì tutta (27). Nel magazzino della chiesa parrocchiale venivano depositate, come s'è già notato, tutte le res sacrae provenienti dalle chiese sconsacrate, perlopiù antichissime statue in legno, tra le quali erano quelle di S. Antonio Abate e di S. Bernardino da Siena, che anche malridotte com'erano, venivano esposte in chiesa il giorno delle loro feste fino ad una cinquantina d'anni addietro. Ma la più interessante di queste statue dal punto di vista artistico è quella in legno policromo detta Madonna dell'Acqua, proveniente probabilmente dalla scomparsa chiesa di S. Maria del Pozzo. Questa statua, di fattura molto fine, ricorda certe Madonne dell'arte mosana: la Vergine siede con le ginocchia leggermente divaricate coperte dal panneggiamento del manto stellato che dal capo le ricade sulle spalle e sulle braccia. In piedi, sul ginocchio sinistro, un vispo Gesù Bambino, nudo, solleva il braccio destro verso il petto della mamma benedicendo, e sorride. Sotto l'ampio manto di un turchino intenso, con risvolto d'oro e tutto trapunto di grandi stelle d'oro, che le copre quasi tutto il corpo, una tunica, anch'essa color oro attillata sul petto e con marcata scollatura, si restringe alta sotto i seni per ricadere poi pieghettata sulla vita. Dal manto che le copre il capo sfuggono i capelli neri che le incorniciano con due lunghi boccoli il viso ovale dalle sopracciglia arcuate, gli occhi socchiusi e la bocca quasi atteggiata al sorriso. E' il ritratto di una giovane madre d'alto rango, pudibonda, ma non senza un'aria civettuola. La composizione, la finezza del lavoro e la forte carica umana che sprigiona rivelano una mano d'artista sicuro e che era a conoscenza di simili Madonne in legno dell'arte gotica. Viene in mente un paragone con la Madonna di Costantinopoli di Alatri; e mentre questa è ancora chiusa nella forma ieratica stilizzata, la Madonna dell'Acqua si schiude già verso il Rinascimento. Questa Madonna potrebbe essere quella sopra l'altare della vecchia chiesa parrocchiale descritta nel resoconto Calassi, portatavi dalla chiesa del Pozzo già abbandonata. Nella nuova parrocchiale non ebbe altare proprio, ma veniva spostata qua e là per le navate e, messa sopra una macchinetta, veniva portata in processione in tempi di siccità; non di rado veniva rimessa nel magazzino dietro la sagrestia. In questo deposito di suppellettili sacre c'era, una volta, tutta una documentazione della storia sociale della comunità: vessilli di confraternite e associazioni, gonfaloni, croci e crocifìssi, statue di legno, candelieri, lanternoni, macchine processionali ed accessori per le varie funzioni liturgiche tra i quali la hercia ad tenebras, il candelabro triangolare a 15 candele usato dai canonici per il canto del mattutino delle tenebre durante la Settimana Santa. La maggior parte di queste cose sacre facevano parte del corredo ordinato per la nuova ed imponente chiesa parrocchiale e per l'uso corrente delle funzioni religiose, mentre tutto quanto non era in uso o utilizzabile venne mandato in deposito alla chiesa di S. Pietro, allora poco usata, come si vedrà. L'ulteriore crescere della popolazione e l'esuberanza degli spiriti che caratterizzò il Settecento indussero la comunità a rifare la chiesa arcipretale più ampia ed in uno stile fastoso ed imponente che rispecchiava le aspettative sociali e culturali della nuova classe dirigente. Come si sia arrivato a finanziare questa fabbrica, grandiosa se si considera lo stato sociale ed economico della maggior parte della popolazione, e per la quale fu necessario l'apporto di mastri muratori e stuccatori forestieri, è diffìcile dire. Mancando le necessarie risorse economiche per far fronte alle spese, sembra giusto fare l'ipotesi che si sia dovuto ricorrere a prestiti presso uno dei monti finanziari, o banche, di Roma, e che poi nella impossibilità di ripagare, l'obbligo si sia trasformato nel debito pubblico del milione sul quale si è scritto nel capitolo VI. La chiesa, nello stile barocco romano, è molto simile, particolarmente nell'interno, a quelle parrocchiale di Giuliano e di S. Giovanni a Ceccano, e altre nella zona; il che potrebbe indicare uno sforzo della classe ecclesiastica di rifare le antiche chiese nell'immagine dei tempi nuovi. Delle strutture preesistenti vennero utilizzate soltanto le murature incorporate nell'abside ed il campanile che venne elevato in un secondo tempo all'altezza attuale. Al tempo della sua costruzione, la facciata del tempio si alzava in uno spazio molto più ampio della piazzetta odierna, in una prospettiva che faceva risaltare le sue linee severe con i quattro pilastri in muratura che salgono verso il cielo dalla massiccia base di grossi blocchi di granito lavorato, l'austero portale con frontone triangolare, e nella parte alta un'edicola, vuota, sovrastata da due angioletti di stucco che reggono il monogramma mariano; regolarità di linee classicheggianti che viene deturpata da un enorme e brutto frontone ellittico che la completa. Nella voluta laterale della facciata che guarda a levante, venne posto un orologio con il meccanismo rinchiuso in un bugicattolo ricavato nella copertura con entrata dal palco dell'organo. Questo orologio, il cui quadrante muto guarda ancora al sol nascente, fu probabilmente lo stesso della curia che da tempo funzionava male e che venne rimesso a nuovo (28). L'interno del tempio è rimasto sostanzialmente inalterato fino ad oggi; vi si accede per il gran portale e due porte laterali, ed è a pianta basilicale, le navate laterali separate da massicci pilastri in muratura che salgono in grandi arcate a reggere la trabeazione della cimasa. Nelle navate laterali, le cui volte si sviluppano in una serie di cupolette emisferiche, sorgono due altari per parte con nicchie e rilievi architettonici in stuccatura, e uno spazio vuoto tra gli altari per i confessionali. Dalla navata m cornu evangeli si entra nella grande sagrestia capitolare, mentre dall'altra comunemente detta « degli ebrei » una porta, ora murata, dava nel piano terra del campanile. La navata centrale, che prende luce da otto grandi finestre, ha la volta a botte decorata con rilievi e scritte mariane e porta all'ampio abside dove sulla predella di marmo sorge l'altare col ciborio tutto in marmi policromi; nell'emiciclo absidale sono gli stalli del coro per i beneficiati del Capitolo di S. Maria, ed in alto nella volta una finestrella ovata. Il fatto religioso più importante nella costruzione della nuova chiesa fu il cambiamento di dedica dal patrono S. Stefano a quella della Vergine Maria Assunta in cielo. La venerazione verso il protomartire, fortemente sentita nel passato, andava scemando anche perché la sua festa, cadendo il giorno dopo Natale, non si prestava ad una celebrazione nell'atmosfera di kermesse che il popolo amava nel Settecento; neanche il tentativo di celebrare il 3 agosto la ricorrenza dell'Invenzione dei resti del santo a Gerusalemme incontrò molto favore. Con la popolarizzazione di S. Rocco, la cui festa cadeva a mezzagosto, in coincidenza con quella dell'Assunta, la devozione verso S. Stefano scese tanto in basso da indurre ignoti a levare il piombo dal nome del santo nella lapide del 1657 sotto l'arco della Rocca, quasi volessero cancellarlo e sostituirne un altro. Ma non si poteva ignorare la posizione storica del santo patrono e protettore e dovendone commemorare la memoria nella nuova chiesa, vennero commissionate a Roma tre grandi tele ad olio da mettere nell'abside, due delle quali rimangono ancora, mentre la terza che rappresentava la figura del santo ed era nella parte centrale dell'abside, venne rimossa verso il 1930 per far posto alla nicchia del gesso della Vergine Assunta. Delle tele laterali, quella al di sopra della porta del campanile è artisticamente la più interessante, sia nella definizione delle singole figure, che nella drammaticità della scena, come pure per l'uso di foschi effetti di colore che fanno pensare alla provenienza da una bottega con forte influenza caravaggesca. E' un quadro folto di figure ritratte nel momento decisivo del santo, in dalmatica rossa simbolo del suo martirio, che già colpito alza lo sguardo pietoso verso l'alto dove in un corrusco squarcio di cielo un angelo lo attende; nello sfondo a sinistra di chi guarda un ebreo, forse Saul-Paolo, conversa con una guardia romana, mentre a destra due rappresentanti del sinedrio seguono compiaciuti la lapidazione. Sopra il santo che è per cadere si accaniscono tre lapidatori di fattezze brutali e corporature massicce: uno alla sua destra, di spalle, un altro dietro, ed il terzo alla sinistra salta fuori come la figura chiave dell'azione; costui, afferrato il santo per la veste per non farlo cadere, alza una pietra nella mano destra nell'atto d'infliggere il colpo mortale. L'altro quadro, sopra la porta che dal coro da nella sagrestia, è nello stile agiografico del tempo e rappresenta S. Stefano trasportato da angeli sopra una nuvola verso il Cristo ed il Padreterno che lo attendono. Addossato al muro interno della facciata per tutta la larghezza della navata centrale sorge il palco del grande organo barocco degno completamento del nuovo tempio; prima della manomissione da parte di vandali paesani, esso era, e rimane decorativamente ancora tale, un magnifico strumento a tre alzate di canne, con doppia tastiera e pedaliera e un grande mantice azionato a stanga; durante l'Ottocento il Capitolo della parrocchiale stipendiava un organaro, Francesco Jorio, che provvedeva alla manutenzione e forse era anche l'organista. Tra le altre suppellettili sacre messe in opera nel nuovo tempio furono due pesanti confessionali nel tipico stile controriforma romano, gli stalli del coro, un grande pulpito addossato ad uno dei pilastri dall'alto del quale il predicatore dominava la folla dei fedeli, il grande armadio per i paramenti della sagrestia e le cassapanche allineate contro il muro dove venivano conservati i registri parrocchiali, le carte capitolari e i libri sacri. Non si può concludere la descrizione della nuova chiesa senza un riferimento al campanile, reso di recente molto più accessibile e sicuro con impalcatura interna in ferro e ta-velloni, anche se la soneria elettrica ha eliminato il campanaro e messo fine al concitato salire dei chierichetti per le scale ed i ripiani traballanti fin sulla cella campanaria per scampaniare a martello i dì di festa. Il campanile era una volta il battito udibile del cuore della comunità, e le sue campane suonavano a stormo per l'imminenza di pericoli e l'avvistamento di briganti nel territorio, a distesa per allontanare la grandine e per annunziare la morte di un membro della comunità, a tocco per l'alba, mezzodì e Avemaria, ed in vari ritmi a seconda delle funzioni e attività religiose, e a festa le domeniche e nei giorni festivi. Il corpo del campanile, che come già notato faceva parte della chiesa duecentesca, venne incorporato nella struttura nel rifacimento quattrocentesco e rialzato di un piano. Nella sua struttura, osservata dall'interno, si notano quattro tempi di costruzione: il pianterreno con una finestrella e la porta poi murata che dava accesso al campanile duecentesco distaccato dalla chiesa, e l'attuale primo piano con nicchia sono di fattura in pietra, mentre la muratura dei rimanenti tre livelli è in tufo; il secondo ripiano porta al livello del tetto della chiesa; nel terzo si notano tre archi murati in dirczione della valle, di S. Pietro e della facciata odierna della chiesa, i quali indicano esser stata questa la cella campanaria della chiesa del Quattrocento; l'ultimo ripiano venne aggiunto durante la costruzione del nuovo tempio o forse più tardi; di costruzione malsicura, sollevò spesso perplessità nelle sedute del Capitolo e del Consiglio comunale. Tre sono le campane nell'attuale cella campanaria; la più piccola con effìgie dell'Assunta è del 1960, e rimpiazzò quella primitiva che attualmente giace nel pianterreno del campanile con rilievi a festoni in testa con la scritta: « A voce tua tonitrua formidabunt A.D. 1763 » — è possibile che questa sia quella rimossa dalla chiesa di S. Giovanni (29). La campana mezzana è la più antica delle tre ora in uso, rifusa dall'antico bronzo di quella precedente come si ricava dalla scritta in testa: « Percussa fortuito casu fractaque vetere aere refundere jussit Franciscus Leo maire (sic, cioè sindaco repubblicano) comunis S. Stephani Anno MDCCCXIII »; nella seconda fascia riporta un'altra scritta., che ripete forse quella della campana crcpata: « Ecce crucem Domini. Fugite partes adversae quoniam Deus imperat et regnat in saecula sae-culorum Amen »; nel bronzo sono i soliti festoni ed, in rilievo, da una parte il Crocifisso, da due l'effigie di S. Stefano, e nella quarta la scritta: « Carminus Cacciavil-lani et eiusque filius Aloysius, Frusinates fecerunt MD-CCCXIII ». Il campanone è del 1838, con i festoni sotto la corona, e nel bronzo quattro medaglioni, raffiguranti il Crocefisso, lato S. Pietro, l'Assunta, lato la Porta, S. Stefano, lato Siserno e lato Valle, e con la scritta: « Beatae Mariae Virgini ac Divo Stephano dicata A.D. MDCCCXXXVIII. Aloysius Cacciavillani et Vincentius Filius Frusinates funderunt ». E' molto probabile che anche il campanone risalga al tempo della costruzione della nuova chiesa, se non prima; difatti nei bilanci consuntivi della comunità per il 1823 troviamo la voce: « Rifusione della campana grossa » già nel campanile, compiuta poi nel 1838 (30). In una seduta del Consiglio comunale in data 31 maggio 1842, si discusse e venne approvata la spesa per la rifusione e relativo trasporto, che si faceva con biroc-cia tirata da buoi, della campana grossa, ma nessuna indicazione di questa rifusione risulta nel bronzo del campanone attuale. « Lo stato cattivo del campanile, e miglior sistemazione delle campane » erano ancora all'ordine del giorno del Consiglio nel 1860 (31). La nuova chiesa venne solennemente dedicata e consacrata il 24 maggio 1770 dal vescovo di Ferentino mons. Pietro Paolo Tosio, come si legge al margine della mensa dell'altare maggiore: « Consecratum est antistite Ferentinate Petro Paulo Tosio XXIV mai MDCCLXX ». La gran festa nel paese incominciò il martedì 22 maggio con l'arrivo del vescovo, per culminare il giovedì « alii 24 detto giorno dell'Ascensione (il vescovo) consagrò la chiesa matrice con gran solennità, alii 26 detto (vescovo) fece cappella con preziosi parati, con musica e gran concorso del popolo e forestieri, con spari de mortaletti ». Mons. Tosi rimase a S. Stefano fino alla domenica 27, quando nel pomeriggio partì con grande accompagno alla volta di S. Lorenzo (32). Si potrà facilmente immaginare l'atmosfera di gioiosa esultanza di quei giorni nel paese decorato con archi di mortella con i maggiorenti delle genti Passio, Tambucci, Jorio, Bravo, Palombo, Lucarini ed altre famiglie notabili, che avevano voluto il nuovo tempio, orgogliosi del risultato, con il popolo trasportato dal fervore religioso nei riti solenni che si celebrarono. La chiesa dedicata a S. Pietro sorse probabilmente coeva a quella di S. Stefano per opera della piccola comunità religiosa che anticamente si era formata intorno alla chiesa di S. Giovanni in valle, e che seguì le sorti di tutti i nuclei di popolazione fuggiasche al tempo delle incursioni saracene. Si ricorderà che in questa chiesa aveva sede la confraternità di S. Giovanni, che solo a fine Settecento abbinò a quello dell'Evangelista il nome del Principe degli Apostoli. I primi riferimenti storici risalgono ai catasti del Cinquecento, e già nel 1566 esisteva un inventario della suddetta confraternita. Attraverso i secoli fino al principio dell'Ottocento quando venne demolita, la chiesa di S. Pietro fu il principale luogo di sepoltura della comunità. Eccone una descrizione del novembre 1585 al tempo della visita di mons. Calassi: « Nella chiesa di S. Pietro era eretta la confraternita di S. Giovanni, che, vestendo sacchi bianchi, accompagnava i funerali. La chiesa aveva una pianta longitudinale ed un unico altare; il tetto era sconnesso ed aveva bisogno di riparazioni urgenti » (33). La chiesa venne restaurata varie volte, ma senza alterarne la forma originale; ci è pervenuta una descrizione per mano di Gian Lorenzo Popolla nell'Inventario della Confraternita di S. Pietro Apostolo, datato 1801, che vale trascrivere sia per l'accurata rassegna che egli ci da della chiesa e del suo ruolo nella vita della comunità, ma anche, e forse più, per il quadro retrospettivo che ci offre del paese alla fine del Settecento. La detta chiesa di S. Pietro apostolo è situata dentro questa terra di S. Stefano sotto la parrocchia di S. Maria unica chiesa parrocchiale, ed in contrada detta S. Pietro stesso: ha per confine avanti la facciata verso levante una piccola piazzetta; a mezzo giorno, e ponente la strada pubblica, una piccola casa della congregazione del Purgatorio, una strada fuori le mura castellane, ed a tramontana Francesco Palombo, eredi Luciani di Crescenze, ritornando a levante con i confini della casa Silvestre Tranelli, Pietro Tranelli, ed altri. Detta chiesa, essendo piccola in se stessa, ha per conseguenza poca facciata con stabilitura, sopra l'architrave della porta è un ovato con pittura a fresco rappresentante Fimagine di S. Piero a mezzo busto: sopra detta facciata in cornu epistole vi è un campaniletto con piccola campana di metallo, sopra detto campaniletto una crocetta di ferro. La luce della porta è di stipiti di peperino, o sia tufo, dove vi è un'antiporta di legno a tre matere (madieri), si chiude la chiesa con una porta quadrata foderata alla rustica, con due sportelli attaccati ad un telare di legna chiave e serratura di ferro fatta a battente. Nell'ingresso ad cornu epistole vi è un'acquasantario di pietra incastrato nel muro, sopra cui una piccola finestrina con tavoletta chiusa a chiave, con fessura da porvi denari ed oblazioni dei fedeli devoti di Maria SS.ma Addolorata, eretta in detta chiesa come si dirà in appresso. Accanto detto acquasantario corrisponde la corda per suonare la campana. Le mura di essa chiesa sono stabilite, il pavimento mattonato, non vi è soffitto, ma il tetto di coppi posato sopra una tavolato alla rustica, con travi visibili a mezza forbice per la pendenza a ponente, con due finestre intelaiate con vetrata, una ad un sol sportello, l'altra a due. Tra l'una e l'altra fenestra verso ponente vi è un confessionale di legno antico, ed accanto un piedistallo di legno fìtto in terra, dove si posa una croce me-diocremente grande con suo Crocefisso di legno colorito, contornata con ferri a mezza luna, con suo poliotto sopra di damasco rosso, foderato di barbantina, ornato con frange di oro falzo già usato, ed il Crocefisso fasciato al solito sito, con taffettano di co-lor rosso decentemente accomodato. Dalla parte esposta verso il corno epistole vi è una cappelletta a volte con un altare di materia inservibile, e dove si celebrava anticamente, sopra detto altare nudo vi è una tela dipinta ad olio rappresentante la Risurrezione di nostro Signore senza telaro. Sotto il pavimento coperto a lastre di peperino vi è il cimitero de sacerdoti. Tornando alla chiesa, sopra detta cappelletta vi sono due quadri uno rappresentante il martirio di S. Stefano in tela a olio rozzamente dipinto, con un altro consimile quadro rappresentante la Madonna SS.ma del Rosario in mezzo, con due imagini di S. Domenico, e S. Catarina, e misteri attorno, i quali quadri stavano nella chiesa parrocchiale prima che si facesse di nuovo. Prima di entrare in sagrestia, vi è attaccato ad una trave di detto tetto un campanello di metallo per quando escono le messe con una lampana di ottone. Attaccato al muro di prospettiva vi è l'altare unico dedicato a santi Pietro, Paolo e Giovanni Evangelista ed apostoli. Sopra il detto altare un baldacchino di legno colorito, e con il mezzo l'imagine rappresentante l'Eterno Padre con lo Spirito Santo in petto in forma di colomba. Un quadro di tela ad olio con cornice dorata e velatura, rappresentante un crocefisso nel mezzo, a destra S. Pietro, a sinistra S. Giovanni Apostolo ed Evangelista, S. Paolo Apostolo dipinto a fresco nel muro in cornu evangeli e S. Nicola in cornu epistole. Un scalino dove posano 6 candelieri di legno inargentati e dorati a velatura torniti, con due altri candelieri più piccoli di consimile fattura per le candele da celebrar messa. Sopra detto scalino si posa nel mezzo una machinetta della Madonna SS.ma Addolorata, la di cui erezione e descrizione si farà infine del presente inventario... La menza di detto altare di materia alla rustica, con pietra sagra nel mezzo, avanti un paliotto di tela colorito ad oglio usato e lacerato; la predella alta da terra 4 dita transverse di legno, un campanelletto di metallo per le messe; tre tovaglie di altare, una di cortina, due caserecce con merletti; cartaglorie nuove della stessa manifattura dei descritti candelieri; uno sgabello di legno; un ginocchiatore di legno usato. Sagrestia. Porta di legno ad un solo sportello a tre matere, usata, e con sua chiave e serratura usata di ferro appoggiata al telare di legno, la qual porta resta in cornu epistole accanto l'altare e cappelletta. Dentro vi è una menzola di legno colorita alla rustica, sopra cui vi è una credenza con due sportelli per comodo di conservare i suppellettili sagri. Vi si è trovato in detta credenza: un calice di agente, lavorato alla rustica, con una patena dello stesso metallo, che per essere leggiero (il calice) viene acresciuto nell'anima del piede con metallo dello stagno o piombo, 4 purificatori, una palla di detto calice di nobiltà rigata di tutti colori, con borzi di tutti colori di filo, e suo corporale; un paio di ampolline e fazzolettino; una pianeta di tutti colori con suoi finimenti cioè stola, e manipolo trinata gialla, usata, di seta e filo damascato e fodera di barbantina rossa; un camice... due messali grandi... una cotta... una beretta da sacerdote nera. Sopra detta credenza colorata alla rustica vi è un Crocefisso e suo piedistallo di metallo, o sia ottone; vi è dalla parte verso ponente e tramontana nel muro un lavamano di pietra con chiave spezzata di ottone e suo bacile di peperino o tufo, accanto un bastone con anelli di ferro dove vi si rivolge un sciugamano di tela. Intorno detta sagrestia vi sono dei muriccioli o sedili di materia; il pavimento in'astrico e pezzi di tegole in cor-tello. Vi sono due sepolcri uno per seppellire gli morti uccisi, che è il sepolcro a primo ingresso, e l'altro dove si seppelliscono gli pellegrini. Un genuflessorio di legno colorito alla rustica; una preparatoria di legno con cornice con detto genuflessorio. Una cassa mezzana con due chiavi dove esistono tutti i libri spettanti a tutti i Luoghi Pii di questa Terra di S. Stefano; luogo destinato per archivio dalla Beatitudine di monsignore 111.mo e Rev.mo vescovo Pie-tr Paolo Tosi di Ferentino li 14 maggio 1786: come per veneratissimo rescritto a pie dell'Inventario Generale di detti libri che esiste originalmente in detto archivio o cassa chiusa come sopra, le di cui chiavi, una si ritiene dal Rev.mo Sig. Vicario Foraneo prò tempore, e l'altra dal priore prò tempore del SS.mo Sagramento; per cui se ne farà una descrizione a parte di tutti i libri (sfortunatamente perduta). Altra cassa grande di legno, con chiave e serratura, dove si custodiscono ora le veste dei fratelli... Quattro lanternoni di legno vecchi assai, di color rosso e con consimili aste dorati a velatura in più parti; due fenestre con telari e vetrate a due sportelli. Nel muro vi è un quadro grande di tela colorito ad oglio, che stava nella chiesa antica parocchiale, rappresentante Maria SS.ma con il bambino a destra sulle braccia, S. Lucia a destra, e S. Caterina vergine e martire a sinistra, usato, alla rustica. In essa sagrestia vi è una porticina dove si entra in una camera per uso di dispenza, umida assai... Attaccato a detta chiesa, e propriamente dietro il muro dell'altare di S. Pietro, che risponde fuori le mura verso tramontana, vi è una fabrica antica che serve di cemeterio, buona porzione del quale resta coperto... per entrarvi vi è alla parte fuori le mura un fenestrone con sportello di legno senza telare e senza bandello fatto a levatora (34). L'inchiostro si era appena raffermato sulla descrizione de Popolla, che si progettava già la demolizione dell'antica chiesa. S'è notato come in questa chiesa si conservasse il quadro della Madonna Addolorata; s'è descritta nel capitolo IX l'origine di questa immagine e la costituzione della confraternita a lei dedicata ad opera di don Luigi Maria Fiocco. Uomo di grande abilità, predicatore apostolico di quaresimali, e non senza ambizioni, questo prelato concepì il disegno di emulare la costruzione della nuova chiesa madre con quella di un altrettanto grandioso tempio da dedicare all'Addolorata e S. Pietro. Nel giugno 1803 troviamo che Pietro Tranelli « cede la di lui casa, che esisteva accanto e attaccata alle mura della chiesa di S. Pietro, per formarvi ivi, con altro sito, la nuova chiesa dell'Addolorata e di S. Pietro apostolo », cessione che venne approvata dal vescovo il quale doveva essere di pieno accordo con il Fiocco. Altre abitazioni vennero permutate durante quest'anno e nel seguente per ottenere lo spazio necessario alla nuova struttura; il progetto passava poi in fase esecutiva, e una casa venne « demolita per aver il sito opportuno per costruirvi la nuova chiesa dell'Addolorata e di S. Pietro, ove era confinante, e ciò nel principio di ottobre 1803 », altre case vennero così permutate in novembre dello stesso anno (35). La precedenza data in questi riferimenti documenta-ri alla dedica della chiesa all'Addolorata rivela l'intenzione di don Luiig Fiocco di fare con S. Pietro quanto si era fatto con S. Stefano nella chiesa parrocchiale, e rivaleggiare il culto dell'Assunta con quello dell'Addolorata. E' possibile che don Luigi pensasse, con l'appoggio del vescovo mons. Nicola Buschi e delle sue conoscenze a Roma, di poter organizzare una seconda parrocchia nel paese, ora che le contrade basse si erano ripopolate. La vecchia chiesa di S. Pietro venne demolita e distrutta per sempre, molte delle sue suppellettili andarono così perdute ed il salvabile venne trasferito temporaneamente nella chiesa parrocchiale, e tra queste il bel quadro dell'Addolorata con la nuova ornata macchinetta. La costruzione della nuova chiesa prese un alacre avvio: l'architetto aveva approntato un piano che sfruttava arditamente la ristrettezza dello spazio disponibile con una grandiosa e compatta struttura a croce greca con una esedra absidale dove si sarebbe elevato l'altare maggiore con il quadro dell'Addolorata, e un altare in ciascuno dei due bracci; la facciata con un gran portale e due torri campanarie guardava verso meridione; non è chiaro il tipo di copertura e che, data la possenza delle strutture, poteva essere anche a cupola; un terrapieno elevato al lato della strada con muro di sostegno portava dalla piazzetta antistante, ora scomparsa, al portale ed alla chiesa. L'ingresso al cimitero degli uccisi, unico rimasto attivo, restava dalla parte del Sottoportico bolognese. Ma gli eventi incalzavano: le risorse della Confraternita di S. Pietro messe a disposizione della nuova costruzione presto si esaurirono; lo Stato pontificio veniva incorporato nella Repubblica francese con la laicizzazione del governo, l'abolizione di privilegi ecclesiastici e lo scioglimento di confraternite e congregazioni e la tassazione di tutti i beni, infine; venuto a morte l'arciprete don Stefano Bravo, il vescovo nominò don Luigi Fiocco a suc-cedergli. Dovendo perciò badare agli affari della parrocchia, con il quadro dell'Addolorata nella chiesa madre e i fondi esauriti, il nuovo arciprete fu costretto ad abbandonare il suo progetto privando il paese di quella che poteva essere una opera d'arte oli alta qualità. Ora la mole incompiuta di questo tempio si affaccia su Vallaréa con l'immensa chioma d'edera così folta sopra le possenti mura che ci fu chi, tra il 1943 e il 1944, vi ci si nascose per sfuggire ai rastrellamenti tedeschi; e rimane massiccia e muta testimonianza della visione e della fede di don Luigi Maria Fiocco. Attraverso i secoli, la pietà personale e devozioni speciali, anche collettive, portavano ad assegnazioni patrimoniali, lasciti testamentari e decime di rendite pro-prietarie a favore di particolari altari della Vergine o di santi che sorgevano nelle varie chiese del territorio; queste dotazioni venivano chiamate cappelle o cappellanìe e costituivano enti ecclesiastici minori soggetti alla autorità tutoria diocesana. Si sono già ricordate le cappelle della Madonna del Carmine e quella di S. Rocco, ma ve ne furono altre. I documenti del primo Cinquecento parlano delle cappelle di Corpus Christi e della Beata Vergine; nei secoli seguenti ne troviamo altre, quelle di S. Giacomo apostolo, di S. Giacinto domenicano, ed un'altra, la Cappellania Testa, della quale ci manca il nome del santo titolare, creata dalla famiglia Testa che al principio del Settecento primeggiò nel paese.
(1) Valeri, op. cit. (2) AiCVSS/Cat. 1500. (3) Valeri, op. cit., 692. (4) INV. SPiAp., 10. (5) Valeri, ap. cit., 691. (6) Per la corretta lettura dell'iscrizione epigrafica ringrazio la professoressa Biancamaria Valeri di Ferentino. CAPPELLAM ISTAM FIERI FECIT PETRVS BOOCANAPPI CVUM lACOBELLA VSSORI SVA PRO DEO ET AD HONOREM BEATI IOANNI BATTISTE AC ANIMARVM EORVM ET MORTVORUM FORUM. QUI REQVIESCANT IN PACE AMEN. SVB ANNO DOMINI MCCCCXXXVIIII S/ECVND/A INDICTIONE NEC/O/LAVS AND/R/E ET NIC/O/LAVS DO/N/A/T/I FE/CE/RV/NT O/PERA/. CHRISTE BENIDICATUR AMEN. (7) Valeri, op. cit., 691-92. Un appunto monografico sulla chiesa di S. Giovanni è stato curato per il Gruppo archeologico volsco da Carlo Criistofanilli, La chiesa di S. Giovanni in silva matrice, Ceccano 1975. E' da notare che il testo erra quando dice che la cappella gotica venne costruita in seguito al lascito del 1363 fatto dal conte Giacomo di Ceccano. Contrariamente a quanto si legge nel testo, l'architrave del portale grande non venne colpito da una granata durante la guerra, ma è crollato in seguito, come è visibile da foto fatte nel 1950 dall'autore. (8) A'PVSS/Sed. Oapit., dove si trova il preventivo dei lavori. (9) APVSS/Invent. Mad. Spirito Santo. (10) SACRO DEO SPIRITITI SANCTO IN HONOREM B. MARIAE MAGNE MATRIS AB EOOEM SP1RITU S. NONOUPAT ET PIE CO-LIT POPULUS STEPHANENSIS. (11) APVSS/Invent. Mad. S. Santo. (12) Falconi, op. cit., 8. La citazione è riportata dal Ragguaglio storico intorno airimmagine della Madonna scritto da Giacinto Popolla nel 1821. (13) Ibid. (14) B. M. V. DE SPIRITO SANCTO AUREA REVERENDISSIMI CAPITOLI VATICANI CORONA SOLEMNI RITO DIE 9 SEPTEMBRIS 1821 DECORATA FUIT. PIUS PP VII DEGLARAVIT ALTARE PRIVILEGIATUM PERPETUUM. (15) Valeri, op. cit. (16) APVSìS/Sed. Capit. Per il lascito Lucarini, v. capii. IX. (17) ASF. B/1158 F/2974. (18) Valeri, &p. cit. (19) APVSS/Inv. S. Sebastiano. (20) Ibid. (21) Valeri, op. cit., 691. (22) AiSF. B/1132. (23) Valeri, op. cit., 960-61. (24) INV. SPAp., 5. (25) Ibid. (26) ASF. B/1158 F/2974. (27) Dai ricordi di Teresa Petrilli, figlila di Francesco, madre dell'autore. (28) ACVSS/Sed. Cons. 15 gennaio 1720. (29) APVSS/Sed. Gap. 17. La scritta stilla campanella dice: «Saranno sgominati dalla tua voce tonante. AD 1763 ». (30) ASF. B/1141 F/2946. Ecco le scritte sulla campana mezzana: «Caduta accidentalmente e crcpata, venne fatta «rifondere nel suo stesso bronzo e per ordine di Francesco Leo maire (sindaco) del comune di S. Stefano nell'anno 1813 », e « Ecco la croce del Signore, fuggite voi di parte avversa perché il Signore comanda e regna per tutti i secoli. Amen. Cannine Cacciavillani ed il figlio Aloisio di Frosinone fecero 1813 ». Il campanone, fuso sempre dai Cacciavillani, aveva una più semplice scritta: «Dedicata Alla Beata Maria Vergine e a S. Stefano ». (31) ASF. B/1H41 F/2946 e B/1158 F/2974. (32) ACVSS/Sed. Cons. (33) INV. SPAp. 2. (34) Valeri, op. cit., 961. (35) APMSfi/Confrat. Sacramento e Rosario. HW. SPAp., in una nota a margine di pag. 11 ed in un'altra aggiuntiva a pag. 55 sì fa riferimento ad un'altra permuta, ma la data dovrebbe essere novembre 1803 e non 1804.
|
PrimaPagina | ArchivioFoto | DizionarioDialettale | VillaNews