Emigranti
Durante la fine dell’800 e gli inizi dell’900 anche Villa Santo Stefano conobbe il triste fenomeno dei flussi migratori che sconvolsero l’intera Europa. I motivi sociali ed economici che determinarono tali imponenti movimenti di massa verso i paesi d’oltreoceano sono di difficile interpretazione, per quanto riguarda i nostri lontani compaesani possiamo affermare con certezza che furono dettati dalla ricerca di un futuro migliore per i propri cari.
Tra i paesi che offrivano concrete opportunità di lavoro gli Stati Uniti erano sicuramente i più ambiti ma anche i più difficili da raggiungere sia per l’enorme distanza, ma sopratutto per le dure procedure che gli aspiranti emigranti dovevano affrontare per arrivarvi. Questi fenomeni che mutarono interi nuclei familiari di Villa Santo Stefano avevano la loro premessa con una selezione provvisoria, preludio al viaggio vero e proprio, che si svolgeva nel centro di smistamento di Napoli.
Raduno di Italiani in Argentina, foto del 1929.
In questa piccola epopea contadina troviamo due curiose figure degne di nota: il primo era Giovanni Colini, veterano di più di una traversata oceanica che come un moderno Caronte curava le procedure di imbarco ed infine guidava i vari gruppi di viaggiatori alla destinazione finale. L’altro era zii’ Pipp Mandella o Filippo Bonomo, uomo ricco più di animo che di finanze, che senza alcuna pretesa anticipava il costoso biglietto per le lontane americhe che altrimenti sarebbe costato a chi partiva la vendita dei propri beni, cosa del resto che molti fecero.
Dalle liste di passeggeri dell’epoca possiamo notare come la maggior parte degli equipaggi fosse formata da uomini adulti spesso sposati che si staccavano dalle famiglie, portando con sè il primogenito adolescente, lasciando dietro di loro affetti, tradizioni, dialetto. Le partenze dei piroscafi avvenivano dai maggiori porti italiani come Genova o Napoli, ma spesso ci si recava anche all’estero come Marsiglia o Le Havre in Francia o a Southempton in Gran Bretagna.
La traversata durava alcuni mesi e i nostri emigranti viaggiavano in classi economiche, costretti a portarsi parte del vitto con loro come mele o patate ancora acerbe conservate nella paglia che lentamente si sarebbero maturate a bordo, era loro consentito accedere al ponte principale solamente nelle ore notturne quando la mondanità diurna delle prime classi svaniva al comparir della luna. Le camerate erano enormi e si dormiva stipati su letti a castello di 4 o addirittura 5 piani, ma nonostante i disagi ci si riuniva tutti insieme per parlare di una terra mai vista ma solo immaginata bevendo un bicchier di vino e ascoltando i racconti di zii Giuvann in un caldo clima di solidarietà. All’improvviso la sagoma della Statua della Libertà, o come molti la chiamavano della "Madonna Americana", che appariva dalle fredde nebbie dell’alba annunciava il sospirato arrivo subito funestato dalle severe procedure di selezione che immediatamente si attuavano ad Ellis Island, cancello d’accesso agli Stati Uniti.
Qui i nostri paesani subivano durissimi controlli, tutti scrupolosamente documentati, i quali se superati si concretizzavano nell’auspicato numero progressivo che le autorità americane tracciavano con il gesso sul bavero della giacca, simbolo dell’ idoneità ad accedere ad un nuovo mondo dove ai ciociari era riservata una certa preferenza. Infatti le nostre genti erano particolarmente benvolute per la loro spiccata laboriosità ed onestà come del resto anticamente anche l’impero romano aveva apprezzato affidando alle popolazioni dell’allora basso Lazio la costruzione delle strade dell’impero dalla Scozia alla Siria.
Sentendosi ormai cittadini del nuovo mondo dopo essersi lasciati alle loro spalle i primi grattacieli di Manhattan i nostri pionieri santostefanesi raggiungevano da New York le destinazioni finali dove più facilmente era possibile trovare un’ occupazione. Molti di loro scelsero di recarsi in Pennsylvania esattamente nelle cittadine di Aliquippa o di Wilkesbarre dove le fiorenti attività metallurgiche necessitavano di una grande manodopera e dove ad accoglierli trovavano un altro paesano che aveva fatto della sua casa un primo centro di accoglienza. Sor Checchino o Francesco Bonomo che, prodigo di consigli, preparava i novizi alle nuove straordinarie realtà del paese. Le vicende che questi uomini dovettero affrontare in questa nuova frontiera furono molteplici, sappiamo di paesani impegnati nelle acciaierie o in fabbriche, o di alcuni di loro che perirono come Agapito Lucarini durante un furioso incendio scoppiato in miniera.
Altri ancora furono protagonisti in ambienti selvaggi ed ostili degni dei racconti di Jack London, come quei paesani impegnati a tagliare le lastre di ghiaccio sul fiume Hudson per poi rivenderlo ai bar in città o quelli che parteciparono alla costruzione del’immensa linea ferroviaria che collegava l’America da costa a costa e che per il loro impegno ricevettero come onoreficenza l’orologio da taschino della compagnia di cui erano dipendenti e che una volta tornati in patria mostravano con orgoglio creando anche un simpatico neologismo "gli raglieroglie" o meglio il rail watch o orologio dei treni.
Nel tempo le sorti di costoro furono diverse, alcuni tornarono in patria creando fortune con i compensi guadagnati oltreoceano, tra i rimpatriati ricordiamo Giuseppe Palombo detto "lo Spiritista" che riporto’ una rombante motocicletta rossa "Indian". Altri rimasero in U.S.A. integrandosi completamente a tal punto che alcuni di loro si distinsero durante l’ultimo conflitto mondiale indossando l’uniforme dell’esercito americano. Tuttavia il legame con la madrepatria rimase sempre costante come dimostra anche il prezioso cagnolino donato da questi emigranti a completamento della figura del santo patrono del paese. Oggi i discendenti di questi "coloni" sono totalmente immersi nella complessa società statunitense e spesso ignorano la lingua degli antenati ma grazie ai moderni mezzi di comunicazioni come la rete internet si stanno riavvicinano alle loro origini avidi di conoscere le loro lontane radici.
Marco Felici