Il 30 Agosto 2008 ho partecipato al matrimonio del figlio del mio caro amico d’infanzia Ernesto Petrilli, il quale è rimasto molto legato al nostro paese d’origine, Villa Santo Stefano in Provincia di Frosinone. Ernesto collabora al sito web www.villasantostefano.com nel quale, mi ha spiegato, sta riportando testimonianze socio-culturali della vita del paese. A tale scopo mi ha chiesto se volevo partecipare con la mia biografia. Sin da quando eravamo ragazzi ho apprezzato in Ernesto il modo gentile e garbato con il quale sa chiedere le cose. In proposito ricordo che tutte le sere che ci trovavamo a rientrare a casa insieme puntualmente giunti davanti all’imbocco delle scale di Sor Checco, che portano su fino alla vecchia sede delle scuole elementari, dove abitava, mi chiedeva se potevo accompagnarlo perché diceva di avere paura a fare quel tratto di strada da solo e, per meglio convincermi, mi raccontava di aver visto agitarsi da quelle parti non so quale fantasma. Così io mi sentivo obbligato ad accompagnarlo, ancor di più, mi sentivo in dovere di farlo perché in fondo ero più grande di lui…. di almeno due mesi!. Ricordo però che ogni volta che lui spariva dietro il portone di casa io mi ritrovavo tra i suoi fantasmi e iniziavo una disperata corsa verso casa, in via Roma 11. Approfittando dell’atmosfera festosa che ha caratterizzato la festa di nozze di Emiliano e Antonella celebrate nella bellissima abbazia di Fossanova --dove nell’Agosto del ’77 ho sposato Pina e successivamente battezzato le mie due figlie--, Ernesto è riuscito a convincermi di scrivere queste brevi memorie di cui, come mi succedeva riscendendo le scale di Sor Checco, sono sicuro che avrò a pentirmi. Quei fantasmi in verità sono sempre lì ad attendermi in quel dolce paese di Villa Santo Stefano. Inoltre, in questa occasione, a dar man forte alla richiesta di Ernesto sono intervenuti anche i miei fraterni amici Carlo Toppetta, il quale almeno a Villa non ha bisogno di essere presentato, e Roberto Lucarini che ha lasciato da tempo il paese per trasferirsi a Milano dove incontro spesso, grazie al mio lavoro di girovago. Ad entrambi infatti ho chiesto consiglio prima di accogliere l’idea e da entrambi ho ricevuto un forte invito ad accettare. Una volta deciso ho iniziato a ragionare su cosa avrei potuto dire di interessante in merito alla mia esperienza di vita. Inizio a parlare della mia vita lavorativa trascorsa per 35 anni in una grande Banca italiana che aveva sedi in tutto il mondo, occupandomi per oltre 25 anni di "Controlli Interni" nell’ambito della Direzione Generale di Via Veneto a Roma. In tale struttura ho ricoperto tutti i ruoli gerarchici, da Ispettore Aggiunto a Ispettore Superiore (Capo Missione), sino a quello di Coordinatore delle attività di controllo presso le Filiali estere della Banca.
In particolare, il lavoro mi ha portato a visitare numerose città italiane e le più grandi capitali del mondo più volte e molto spesso per lunghi periodi di tempo (Londra, Parigi, Madrid, Praga, Mosca, Nuova Delhi, Singapore, Hong Kong, Pechino, Shanghai, Tokyo. E nelle americhe, Los Angeles, San Francisco, Chicago, Atlanta, Miami, New York, San Paolo, Rio de Janeiro, Buenos Aires e tante altre ancora). La mia città favorita resta comunque New York dove, dal 1988, vado regolarmente 3 o 4 volte l’anno, alloggiando quasi sempre al Grand Hyatt Hotel - sulla 42° strada, tra la Grand Station ed il Chrysler building, uno dei più interessanti grattacieli al mondo - nella stanza 5111 che, oltre a riportare parte dei numeri della mia data di nascita (Novembre ’51), è ubicata sotto al misterioso Chrysler, ciò che per me crea un’atmosfera degna del miglior Hitchcock, il massimo per uno che in collegio da ragazzo chiamavano "Paramount". In genere arricchisco il racconto con mille storie e foto; con una di queste che ritrae la Muraglia Cinese ho vinto un primo premio in una mostra fotografica. Inoltre, cerco sempre di adattare le storie agli interessi dell’interlocutore, ad esempio ad un appassionato di armi come Ernesto, posso raccontare che una volta a Marsala, mentre visitavo le cantine Florio, ho avuto modo di impugnare la spada di Garibaldi da lui donata alla famiglia Florio per aver sostenuto la spedizione dei Mille. Per evitare di inoltrarmi più di tanto in racconti/ricordi che poco hanno a che fare con il paese, ho deciso di raccontare le cose che sono più pertinenti con il mio rapporto con Villa Santo Stefano. Così per cambiare sono andato a leggere le biografie che già arricchiscono il blog di Ernesto, trovandole tutte degne di essere lette e meditate. In particolare sono stato interessato da due passaggi, proprio della biografia di Ernesto, che mi hanno riportato alla mente due momenti che credevo di aver dimenticato. Nel primo, Ernesto esprime il suo rammarico per quei "concittadini emigrati - tra cui anche paesani che vivono non molto lontano da Villa (io per l’appunto vivo a Sezze distante circa 30 chilometri) – i quali hanno dimenticato il nostro paese" e, più specificatamente, Ernesto ritiene che "recidere di netto le proprie "radici", fisicamente e moralmente, è sbagliato, in quanto l’amore e l’orgoglio di appartenenza alla propria terra natia, dovrebbe essere scolpito nella mente e nel cuore". Caro Ernesto questo è un bel pensiero filosofico ma a volte la realtà è ben diversa. Ricordo un comune amico, Prof. Fernando Palombo, scomparso nell’indifferenza dei più, pensa che ci sono voluti circa 35 anni perché qualcuno affiggesse la sua foto sulla sua tomba. Questo Ernesto è il primo ricordo di Villa Santo Stefano che mi è venuto alla mente e nel cuore. A quel tempo io e Fernando eravamo appassionati seguaci di un autore algerino, Albert Camus. A casa avevo anche una foto che ritraeva lo scrittore vicino alla sua Facel Vega HK 500, stupenda autovettura, con la quale trovò la morte nel gennaio del 1960. Tragico destino. A noi due Camus aveva regalato un compagno di viaggi, Meursault, il quale, come noi, amava raccontare il proprio vissuto. Egli sentiva i limiti della sua città, Algeri, troppo lontana dal mondo, così come per noi il nostro paese era troppo piccolo. Per tali ragioni ci sentivamo in qualche modo uniti a lui nell’impossibilità di partecipare attivamente ai movimenti del ’68. Anche tu racconti che volevi trovare una strada diversa, volevi partire per la legione straniera. Poi la mattina del 2 giugno 1974 Fernando, come Meursault, si fece autore del proprio destino e ci lasciò. Con lui sono andato via anch’io, senza più "amore né orgoglio" per il paese. Sono solo andato via. Di quel periodo però conservo un ricordo che voglio raccontare per dare modo ai "santostefanesi" di capire come altri loro concittadini nel corso degli anni hanno visto il paese. Tra il 1971-72, io e Fernando eravamo entrambi in una fase di transizione. Io mi ero diplomato, ero stato militare a Firenze e sostanzialmente ero in attesa di essere assunto in banca. Fernando invece insegnava a Roma. Lui aveva già uno stipendio che regolarmente andava a riscuotere presso la Bankitalia a Roma e per entrambi quella era un’occasione per festeggiare. Fernando era una persona estremamente generosa. Poi tornavamo a casa con un nuovo disco di musica soul, con l’etichetta rossa "Atlantic". Una volta a Villa, dopo la chiusura del bar di zio Michele (papà di Fernando), dopo aver messo a posto tavoli e sedie, iniziava la nostra festa. Ascoltavamo dal jukebox del bar la ricca collezione di dischi "Atlantic soul" – ricordo ancora l’allegria che ci dava in particolare un brano del mitico Otis Redding "I’ve got a dreams to remember" -, poi andavamo a sederci sui due gradini del portone della chiesa di San Sebastiano. Da quei gradini, che danno una suggestiva veduta notturna di Villa, iniziavamo a ragionare di vita vissuta, di cinema, di musica, di pittura e di argomenti similari. Una sera, più favorevole delle altre alla discussione, parlando del saggio di Camus sul "Mito di Sisifo", paragonammo la salita di San Sebastiano a quella che Sisifo era condannato a percorrere spingendo un masso che una volta raggiunto San Sebastiano sarebbe inesorabilmente ritornato in piazza Umberto, così che Sisifo avrebbe dovuto iniziare di nuovo il percorso. Da quella volta quei gradini e quella salita furono nostri complici nel trasportare in metafora la routine del paese e nel conseguente bisogno di cercare soluzioni alternative di evasione. Fu così che nacque il progetto Parigi. Decidemmo che saremmo partiti all’inizio di agosto 1972. Una volta arrivato il momento però Fernando non se la sentì di lasciare solo il fratello Roberto a gestire il bar nel periodo di maggior lavoro coincidente con la festa di San Rocco, patrono del paese, e non venne. Fernando era una persona estremamente seria e responsabile. Io invece partii per Parigi, dove restai quasi un mese. In seguito ho spesso ripensato a quei due scalini ed a quelle scelte che ci avrebbero segnato per sempre. Altre volte però ho anche pensato, come diceva in modo ironico Fernando, che se invece di interessarci di Sisifo ci fossimo appassionati al calcio e avessimo anche noi letto la Gazzetta dello Sport, quella di colore rosa, e discusso di calciatori, magari facendo indossare a Sisifo la maglia numero 10 (quella che indossava Fernando, alias Ernandez, ottimo calciatore), forse saremmo andati tutti a Parigi. Chissà cosa ne pensa Ernesto, lui si è appassionato di pugnali, quanti avranno capito che dietro all’oggetto lui, magari, vede il processo evolutivo dell’uomo (2001 Odissea nello spazio) o il mezzo per liberarsi dai tiranni (Amleto invoca la "nuda lama di un pugnale"). Questi pugnali mi riportano ora alla mente l’altro passaggio della biografia di Ernesto il quale, come noi, cercava un modo per superare il quotidiano. Ernesto racconta di aver trovato una sua "personale" e molto originale strada "Non potendo allungare la vita, cerco di allargarla facendoci entrare tutto il possibile". Il biografo di Ernesto definisce tale proposta come "un pensiero filosofico, spicciolo ed al contempo profondo, che si traduce così: il tempo a disposizione deve essere sfruttato fino in fondo, dilettandosi a realizzare il maggior numero di cose utili". Condivido il pensiero di Ernesto: dal canto mio ho viaggiato per il mondo realizzando mille progetti e vivendo altrettante esperienze. Per questo vorrei incontrare Ernesto per verificare se ci sono differenze tra il viaggiare dentro Itaca, con il viaggiare fuori dalla stessa. In effetti, Ulisse fece entrambe le cose. Anche in questo caso ho ricordato le prime prove per "allargare la vita". In particolare ricordo i miei primi due "maestri di vita". Il primo è il grande Stefano Lucarini. Iniziai a frequentarlo verso la fine degli anni ’60. Proprio con Ernesto alla fine dell’estate aspettavamo il suo annuale ritorno da Rimini, dove si recava per la stagione estiva. Stefano negli altri periodi dell’anno lavorava come "Capo Banco" in un noto bar di Roma. Ad ogni fine stagione Stefano tornava per qualche periodo di riposo a Villa e per noi era l’occasione per sentire da lui le ultime novità in fatto di cinema. A lui dobbiamo molto è stato lui che ci ha introdotto e fatto apprezzare il grande cinema internazionale. E’ stato lui che ci fece conoscere quella irripetibile stagione del cinema italiano conosciuta come "neo realismo". Nelle lunghe passeggiate in piazza, vere e proprie sessioni di studio che a volte duravano ore dalle 6 del pomeriggio alle 9 ed anche 9,30 della sera, Stefano ci raccontava di come andavano interpretati i film. Ricordo ad esempio la sua cattedratica recensione di "Umberto D" di De Sica. Poi Stefano ci raccontava anche delle sue avventure galanti e così dopo qualche giorno le storie dei film si confondevano con quelle di Stefano e nel frattempo era arrivato l’inverno ed il tempo per Stefano di ripartire. Con Ernesto avevo anche un altro appuntamento, quello con il "marinaio" per eccellenza, quello con Gildo Gabriele. Gildo al contrario di Stefano non si sapeva quando e dove trovarlo. Era lui che al ritorno dai lunghi viaggi per i mari del mondo si presentava al bar di zio Michele ed a noi che eravamo curiosi di sapere iniziava a parlate dei porti dell’estremo oriente che aveva visitato Singapore, Hong Kong e tanti altri. Per ogni porto che aveva visitato ci raccontava una storia e per noi era come se quei viaggi li avessimo fatti veramente. Bisogna pensare che a quei tempi la televisione non era molto diffusa ed anche i programmi erano molto limitati per cui per noi i racconti di Gildo erano come i documentari per i giovani di oggi. Ricordando quei tempi non posso che ringraziare Gildo e Stefano per aver "allargato" la mia vita. All’inizio del 2008 ho lasciato la banca per collaborare, sempre per attività attinenti i "controlli interni", con una società americana con sede a Washington che offre consulenza a grandi banche internazionali. Confesso di sentirmi soddisfatto della mia esperienza di vita. In merito alla quale ho sempre ritenuto che vero punto di forza sia stato, ormai da oltre 31 anni, e spero lo possa essere fino all’ultimo mia moglie Pina con la quale ho condiviso e superato tutte le difficoltà che si sono presentate nel corso degli anni e, nel contempo, seguito attentamente la formazione religiosa e morale delle nostre figlie Eleonora ed Annalisa. La prima impegnata nella ricerca di nuove forme di applicazione della Psicologia nel sociale, la seconda collabora con la FAO in progetti riguardanti la diffusione dell’educazione nel mondo e il 16 settembre 2008 parte per un anno alla volta della Thailandia. Con la mia famiglia sono stato in vacanza in molte parti del mondo come ad esempio le Hawaii, la British Columbia, la California, il Messico, fino all’Australia ed altre ancora. Accingendomi alla conclusione voglio però riportare il mio pensiero a Villa Santo Stefano e a coloro che mi hanno saputo preparare ad affrontare la vita con amore e fermezza.
In particolare mi riferisco a mio padre, Giuseppe Planera, che in modo indelebile mi ha insegnato il valore dell’attaccamento al lavoro ed al rispetto del prossimo. Non so quanti ricorderanno che mio padre essendo a quell’epoca impiegato del Comune apriva l’Ufficio anche la domenica per permettere di disbrigare le pratiche comunali a coloro che rientravano in paese solo i giorni festivi. Ricordo che una domenica mattina un signore si presentò a casa e con fare poco garbato ebbe a sollecitare mio padre perché si sbrigasse ad aprire il Comune. Allora mi sentii di intervenire difesa di mio padre il quale, invece, nel frattempo si era preparato e prendendo sottobraccio il signore si diresse con lui verso il Comune. Quando tornò mi disse: "Lucio io apro il Comune la domenica, senza alcun compenso, perché voglio aiutare i miei compaesani a portare avanti come meglio possono il loro lavoro. Se tra loro poi c’é qualcuno meno educato che non capisce è nostro dovere comprenderlo e non per questo venire meno all’impegno che ci siamo liberamente presi nei confronti di noi stessi e dei nostri concittadini che, nella grande maggioranza dei casi, sono gente per bene ed assidui lavoratori". Io non ho più dimenticato quella lezione di vita. Così come non ho dimenticato i suoi insegnamenti di riconoscenza nei confronti di coloro che si sono sacrificati per la nostra famiglia. Ricordo che mi parlava spesso, sempre con un tono che esprimeva la sua profonda commozione, dei mie nonni Lucio Cimaroli, padre di mia madre, morto in Francia mentre combatteva con l’esercito americano nella prima guerra mondiale – sepolto a Bligny un paesino a circa 100 chilometri da Parigi -, e di suo padre Lucio, morto 18 giorni prima della mia nascita e sepolto ad Aliquippa in Pennsylvania. Da parte mia sono stato a pregare sulle loro tombe convinto che il mio destino di "viaggiatore-emigrante" si fosse compiuto già quando i miei mi vollero dare il loro nome. Appena l’anno scorso ho avuto l’onore di tenere a battesimo un altro Lucio, Lucio Vittorio Planera, figlio di Stefano e nipote del mio grande e gentile cugino Lucio Vittorio, figlio di zio Stefano, anche lui come del resto mia sorella Luciana, credo siano stati segnati dal nome ad essere "viaggiatori" e restare lontani da Villa. Da ultimo voglio ricordare mia madre, Anita Cimaroli, venuta a mancare nel dicembre del 2004, dalla quale ritengo di aver ricevuto l’insegnamento più prezioso almeno quanto la vita che a suo tempo mi ha donato. Nel Marzo del 1984, colpito da tumore venne a mancare mio padre e nel Marzo del 1985, la stessa sorte toccò a mia sorella Vittoria. Qualche tempo dopo, mentre eravamo dentro la chiesa della Madonna dello Spirito Santo, ebbi a chiedere a mia madre come si sentisse dopo aver sofferto tali gravi lutti. Lei alzando gli occhi verso il quadro che ritrae la bellissima Madonna mi disse: "Lucio, siamo nella mani del Signore, Lui ci dà e Lui ci toglie, a noi non resta che trovare forza nella fede anche per rincontrare un giorno i nostri cari". Da quel momento la mia vita è cambiata e ogni volta che posso vado a far visita alla Madonna dello Spirito Santo che è diventata ai miei occhi il luogo del ristoro. Ogni volta che apro quel portone e scavalco la soglia della chiesa sento di entrare in una dimensione sovrannaturale di assoluta beatitudine nella quale ogni masso scompare. Ernesto, al termine di questa mia biografia diventata sotto l’impeto dei ricordi una sorta di "amarcord", voglio confessarti che forse porto dentro di me qualcosa di "santostefanese", non fosse altro che l’amore che provo per la Madonna dello Spirito Santo. Li si esce dal frastuono, si può percepire il rumore sommerso della sorgente, il senso della santità, della vita e della dignità di ognuno di noi.
Lucio Planera - settembre 2008 |
up. 8 nov. 2008
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