"Austresi" Austro – Ungarici a Villa Santo Stefano di Marco Felici Iniziava a costituire un’assillante problema per gli organi del Comando Supremo del Regio Esercito quel interminabile fiume di prigionieri Austriaci, Ungheresi, Rumeni e Cechi che incessantemente si riversava dalle linee del fronte verso gli improvvisati campi di concentramento posti nelle immediate retrovie. Le stime dell’epoca parlavano di una popolazione carceraria di 168.898 unità a cui si dovevano aggiungere oltre 5000 disertori. Così verso la metà del 1916 questo imprevisto afflusso di nemici costava alle Autorità del Regno un utilizzo forzato di uomini e mezzi altrimenti impiegabili per tentare di risollevare le sorti di una guerra allora ancora incerta. Le dure condizioni carcerarie e il forte soprannumero inoltre facevano scoppiare spesso numerosi disordini tra i prigionieri delle diverse nazionalità, ormai senza più regolamenti. Con l’aumentare così della tensione all’interno dei reclusori militari fu necessaria la scelta del Comando Supremo di convogliare, infine, questo gravoso carico umano lungo gli 83 campi di prigionia che vennero impiantati su tutto il territorio nazionale a partire dal 1917.
Durante la prima fase del conflitto su precisa indicazione del Ministero dell’Interno i prigionieri non potevano essere assolutamente utilizzati per alcun tipo di lavoro manuale all’esterno dei campi di prigionia per paura che la loro immissione sul mercato del lavoro potesse provocare qualche tensione sociale con la manodopera locale. Tuttavia questa disposizione non fu mantenuta a lungo e ben presto sotto la spinta del Ministro della Guerra Zuppelli e quello dell’Agricoltura ed Industria Cavasola fu adottata la disposizione contenuta nell’articolo 6 del Regolamento Internazionale dell’Aja che ammetteva l’impiego di prigionieri di guerra in lavori esterni. Le regioni del Basso Lazio beneficiarono particolarmente di queste norme in quanto oltre che colpite dal grave sisma del 13 Gennaio 1915 che causò gravi danni alle abitazioni, erano carenti di mano d’opera locale per effetto dei continui richiami alle armi di intere classi di giovani. Per cui in base a queste leggi gli Austro-Ungarici avrebbero scontato il loro periodo di reclusione presso vari comuni del Regno, svolgendo soprattutto lavori di manutenzione stradale ordinaria e straordinaria. Alcune migliaia di reclusi appartenenti a tutte le principali nazionalità, inserite nei confini della duplice monarchia avversaria, giunsero nell’estate del 1917, quindi finanche a Frosinone, dove dopo essere stati riuniti inizialmente nel locale penitenziario, furono assegnati successivamente ai vari centri della provincia. Per quanto riguardava Villa Santo Stefano l’assoluta lontananza dai maggiori centri di comunicazione e la sua posizione isolata ne faceva l’ideale per accogliere questi prigionieri, per cui in concomitanza con la legione territoriale dei Carabinieri Reali di Frosinone si coordinò il trasferimento e la reclusione di circa venti prigionieri Austro - Ungarici nel nostro comune. L’allora Sindaco Filippo Bonomo, incoraggiato anche dai vantaggi fiscali concessi ai centri che ospitavano sul proprio territorio questo tipo di reclusi, predispose l’alloggio per i nuovi arrivati, improvvisando come prigione una vecchia stalla. Il locale in questione era annesso ai locali del Regio Comune che allora aveva sede in Via S. Pietro nel palazzo di proprietà della famiglia Panfili di cui erano state affittate alcune stanze. La cella così utilizzata era semplice, forse poco comoda ma sicuramente dignitosa al contrario di altri campi di contenzione più grandi come quello in Sardegna che suscitò continue proteste da parte delle autorità e della stessa opinione pubblica Austriaca per lo stato di mantenimento dei detenuti contrario ad ogni forma di civiltà. Il maresciallo dei Carabinieri Ciccarelli della stazione di Giuliano di Roma si occupò del servizio di vigilanza, costui si era già distinto in passato per la lotta al contrabbando di tabacco e ne aveva represso totalmente il traffico. Questa era una pratica in uso nelle nostre zone, attuata più o meno legalmente da alcuni contadini che in questo modo compensavano la magra economia familiare, legata spesso a miseri raccolti. Ci si recava nelle vicine province del napoletano utilizzando percorsi già noti ai lontani briganti e lì dopo aver acquistato un certo numero di foglie di tabacco lo si trasportava comprimendolo in piccole unità chiamate in dialetto "Gli Terticci" queste celate negli indumenti erano infine liberate e rivendute in paese eludendo così la sorveglianza delle forze dell’ordine. L’incarico dei Reali Carabinieri era quello di sorvegliare i detenuti nei loro movimenti e di rinchiuderli in cella nelle ore notturne. La tenuta dei militi era quella ordinaria dell’epoca, la cosiddetta uniforme "da campagna", composta di gambali bianchi, cinturone con borraccia, munizioni e manette, moschetto e telino bianco copri berretto. Invece la giornata tipica di questi ospiti oltralpe iniziava all’alba quando allineati erano condotti alle falde del monte Siserno dove, muniti di piccone, strappavano alla montagna le pietre con cui avrebbero ricoperto le stradine e i vicoli del paese fino ad allora in nuda terra. Queste pietre, successivamente lavorate e sagomate, venivano interrate sotto la guida di capomastri locali per formare un selciato più o meno regolare. Al tramonto infine terminati i lavori, la loro giornata si concludeva di nuovo in cella, dove ci si riscaldava intorno al fuoco, consumando il pasto fornito dal comune in enormi "callare" contenenti polenta di mais che veniva distribuita tra i reclusi.
Mariangela Paggiossi, a cui dobbiamo la maggior parte di questi particolari, narra di come questo rancio fosse chiamato dai prigionieri "polentinkien", forse variandone il suo nome originario con qualche accentazione di origine teutonica. I rapporti tra gli "Austresi"come vennero subito denominati e la popolazione locale, furono inizialmente freddi, atteggiamento comprensibile da parte di una cittadinanza che aveva la maggior parte della propria gioventù al fronte, in uno dei conflitti più sanguinosi della storia dell’umanità come descritto in maniera magistrale dall’ottimo Pavat. Tuttavia dopo questa iniziale diffidenza i contatti si fecero più stretti, l’occasione che facilitò l’inserimento di costoro nella vita del paese fu data dal loro utilizzo, non proprio ufficiale, nel lavoro dei campi presso qualche fattore. La normativa in atto era severa e non prevedeva l’uso privato dei prigionieri, ma la mancanza di manodopera a Villa Santo Stefano fece si che alcune giornate furono passate dai detenuti in regime di semi libertà, alle dipendenze di proprietari locali, che in cambio dei loro servigi nelle vigne o negli orti, fornivano generi alimentari da integrare alla famosa "polentinkien" o anche qualche moneta. Queste ultime venivano utilizzate per comprare qualche litro di vino alla vicina osteria di Marietta Olivieri, la contrattazione avveniva tramite qualche "mammoccio" che a quei tempi animava via S. Pietro; infatti era assolutamente fatto divieto ai prigionieri fare accesso ai locali per la mescita di alcolici per evitare disordini, per cui una volta stipulato il prezzo e il quantitativo corrispondente di vino il proseguimento della serata si svolgeva in cella, di fronte al fuoco alimentato più dagli acuti di incomprensibili cori che dalla legna stessa.
Ben presto, però, così come vennero, gli "Austresi" andarono via, infatti giunse l’ordine da Frosinone per il loro trasferimento. Le vicine Pianure Pontine furono la loro nuova sede e le prime opere di bonifica, il loro nuovo incarico. La realtà che dovettero affrontare era di ben lunga più dura di quella vissuta a Villa Santo Stefano infatti la maggior parte di loro fu falcidiata dalle malattie e dalle difficoltà di quelle insane lande; un rapporto dell’epoca parla di moltissimi morti a causa della malaria o addirittura di vere e proprie epidemie come il tifo petecchiale e la diffusione, tra il 1918 e il 1919, in tutta l'Europa della febbre detta "spagnola". Inoltre i numerosi incidenti sui cantieri di lavoro come quello della linea ferroviaria Roma – Lido completata quasi esclusivamente da manodopera austriaca, ne limitò enormemente il numero. Alla fine del conflitto i superstiti fecero progressivamente ritorno alle loro case anche se molti reduci rimasero ben oltre il 1919 a causa dei lenti rimpatri. Di loro rimase solo il vago ricordo nei borghi e nei vicoli di tutta la penisola ed anche a Villa Santo Stefano così avvenne. In via San Pietro tuttavia inspiegabilmente forse qualche testimonianza della loro presenza è sopravvissuta in un semplice giornale del 1911 rinvenuto da quelle parti, i suoi articoli in austriaco narrano di vicende antiche forse risalenti a quegli uomini lontani, fu conservato gelosamente da Antonio Felici che discutendone spesso con l’amico e vicino di casa Arthur Iorio non ne compresero mai l’origine considerando che nessuno da quelle parti si era mai recato in Austria o tantomeno fosse mai venuto successivamente qualcuno di quei luoghi. In realtà un austriaco frequentò quei vicoli in tempi relativamente più recenti ai fatti narrati ... ma questa è un’altra storia.
marzo 2006 http://it.wikipedia.org/wiki/Austria-Ungheria
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