4  OCCUPAZIONE

Il trambusto proveniente dalle scale del primo piano del Comando tedesco fece sobbalzare dalla sedia Weiss mentre era concentrato nella verifica dei consumi di carburante del mese di novembre, essenziali per continuare la campagna in Italia. Stizzito da tutto quel chiasso il tenente chiese cosa stesse accadendo, gli rispose il sergente anziano che, senza bussare, si era presentato al suo comandante seguito da un fiume di urla. Il veterano ansimante spiegò che erano stati costretti ad arrestare un civile, uno strano civile, che era andato in escandescenze nella piazza del paese dopo aver minacciato con un fucile, in realtà il suo bastone, un loro camerata. Più incuriosito che adirato Weiss ordinò allora che il prigioniero fosse portato immediatamente al suo cospetto.
Superate infine le sue resistenze due soldati non senza fatica riuscirono a fargli attraversare la stretta porta dell'ufficio e finalmente un bizzarro figuro avvolto in una lunga mantella color pece e dallo sguardo torvo e misterioso si materializzò all’ufficiale, era Peppino lo Spiritista.
Gli Spiritista come tutti lo chiamavano era un curioso personaggio di Villa Santo Stefano, che dopo aver trascorso alcuni anni in America, allo scoppio della guerra era ritornato in paese accompagnato oltre che da una fiammante motocicletta Harley Davidson, con cui seminava il panico tra i viottoli di campagna, anche da un bagaglio di molte, troppe confuse idee nella testa. Alloggiato in una cantina in via della Rocca favoleggiava perennemente di astri e di comete oltre a progettare innumerevoli strabilianti invenzioni. Non appena il chiromante si trovò davanti Weiss assolutamente incurante del suo grado e del suo potere iniziò ad inondarlo con irripetibili sproloqui recitati sia in dialetto che in inglese, il suo inglese. Nel frattempo di fronte al Comando fece notare il sottufficiale si era radunata una folla di civili che chiedeva la liberazione del negromante. Weiss per non complicare ulteriormente la disputa acconsentì che una delegazione salisse per chiarire l’ accaduto. Tra i prescelti c’era Alfonso Felici che senza indugio prese subito la parola spiegando ai tedeschi che il prigioniero sebbene bizzarro e sicuramente in torto era tutto sommato innocuo per cui senza prolungare ulteriormente la sua arringa, a nome dei suoi compaesani ne chiedeva l’immediata scarcerazione confidando nella clemenza dell’ufficiale.
Dopo quella richiesta così diretta il silenzio calò nella stanza e la tensione salì quasi alle stelle, come quelle che descriveva Peppino.
Quella che stava divenendo una disputa fu interrotta finalmente proprio da Weiss che scoppiò in una grossa risata, forse la prima in pubblico dal suo arrivo in paese. Impassibile invece il prigioniero che nonostante l’eccezionale misura presa a suo favore, preteso bastone e mantello, guadagnò solennemente l’uscita senza degnare di un solo sguardo il suo salvatore. Defluendo lentamente invece la delegazione improvvisata non smise un solo momento di ringraziare l’ufficiale che, incurante di loro, si preoccupò solo di Alfonso a cui ordinò invece di rimanere.
Rimasti soli i due uomini si guardarono fissi negli occhi fino a quando seccato l’ufficiale, prima di licenziarlo, sbottò: “Quando vuoi lo sai fare l’interprete!”.
La folla gioiosa si allontanò dal Comando, la vicenda finita bene meritava una bevuta. L’allegra brigata seguendo il bastone di Peppino puntato verso l’ alto, come se sfidasse il sole, si diresse verso la cantina di Maria Cencetta, erano tutti euforici solo Alfonso rimase silenzioso e scuro in volto, quel paese stava diventando troppo stretto per lui. Come se non bastasse a complicargli ancor di più la vita arrivò da Roma anche la famiglia Battistini.
Il signor Umberto, la moglie Armida e i loro cinque figli tra cui la giovane Anna avevano infatti lasciato da poco la capitale per rifugiarsi presso la generosa famiglia Cimaroli. Insieme a loro anche Angelo Leoni, autotrasportatore e socio di Umberto, che aveva sposato Emilia, una santostefanese.
Le due famiglie si aggiungevano alle numerose altre che dal settembre del 1943 avevano trovato rifugio nel piccolo borgo ai piedi del Siserno e che nel maggio del 1944 raggiunsero addirittura le trecento unità.
I profughi fuggivano dai pesanti bombardamenti di Roma, Frosinone e Ceccano sperando di trovare a Villa Santo Stefano maggiore tranquillità.
Oltre a questa massa di disperati giunsero anche persone molto più agiate come la nota famiglia frusinate dei Sassano che trovò asilo presso Sor Ascenzio al Macchione, oppure l’alto dirigente della Società Laziale Elettricità, il dottor Ettore Ciammaglichella, collega e personale amico del podestà, riparato in paese dopo che il 17 novembre a Frosinone i tedeschi avevano requisito tutti i suoi beni.
La presenza in paese di forestieri benestanti creò nuove opportunità di lavoro, una di queste la colse proprio Alfonso che iniziò a dedicare alcune ore della sua giornata ad aiutare il Sor Umberto e il Sor Angelo nel caricare e scaricare il piccolo autocarro che li aveva condotti a Villa Santo Stefano.
Oltre ad essere una piacevole distrazione nel teso clima di occupazione offriva al reduce la possibilità di stare vicino ad Anna di cui si era terribilmente innamorato. Nel frattempo i due romani erano riusciti ad ottenere dal Comando tedesco anche un prezioso lasciapassare che gli avrebbe permesso di continuare ancora la loro attività anche se ormai ai limiti della legalità vista la dilagante borsa nera presente nella capitale. A Frosinone invece il Capitano Domenico Millotti stava stipando le sue poche cose dentro lo zaino grigioverde, ultimo legame con il recente passato di ufficiale al distretto militare del capoluogo, dove fino allo stremo si era battuto nonostante la superiorità dei tedeschi insieme ad un pugno di altri valorosi parigrado. Il bando Graziani, i tedeschi in città e anche tanta troppa delusione lo avevano spinto alla fine ad unirsi al fiume di sfollati che lentamente abbandonava una città ormai devastata dalle bombe.
Il ticchettio alla porta della sua camera presso l’albergo “Bellavista” distolse il giovane ufficiale da questi foschi pensieri, era Leonilde la figlia del signor Cesari, il proprietario. Nonostante l’aridità di quei giorni tra i due ragazzi era nato grande un sentimento che li avrebbe accompagnati per tutta la vita.
Caricati i bagagli i due fidanzati si unirono al resto della famiglia sul camion che li avrebbe condotti a Villa Santo Stefano dove il padre di Leonilde si recava settimanalmente per procurarsi dalla suocera vivande genuine da servire agli avventori della sua locanda. Infatti fu proprio Zia Orietta che trovarono ad aspettarli in piazza dopo che i tedeschi di guardia verificarono la validità del loro lasciapassare.
Nel frattempo in municipio, in data 12 ottobre 1943, il podestà Bonomo dettava al segretario comunale una nota da inviare al Prefetto di Frosinone riguardante proprio l’assistenza ai numerosi sfollati ormai presenti in paese. La preoccupazione del podestà in quei giorni però rimaneva un’altra.
Nel registro delle imprese della provincia di Frosinone e Littoria del 1943 le uniche realtà produttive di Villa Santo Stefano erano l’azienda di autoservizi Palombo, gli operosi montani ed alcuni esercizi per la vendita di generi alimentari.
Ma la recente occupazione tedesca, l’introduzione delle carte annonarie e le limitazioni imposte dalle nazione alleate avevano minato anche questa esigua economia che lentamente stava lasciando il passo ad un violento contrabbando.
Il clima opprimente alimentato da questo illecito commercio portò in ottobre a due attentati dinamitardi che colpirono gli spacci alimentari dei Bonomo e dei Palombo. Le esplosioni avvennero la notte del tredici per cui solamente la mattina seguente il Maresciallo dei Reali Carabinieri, Angelo Bisagni, poté verificare la reale entità dei danni subiti dai due esercizi.
Nonostante i forti boati gli effetti delle cariche si limitarono fortunatamente allo scardinamento di una saracinesca che fece crollare parte di un muro e la demolizione di una porta in legno. Le intense indagini non portarono però a nessun valido risultato e la cosa si concluse con la riparazione dei due portoni.
La tensione, invece di cessare, aumentò addirittura quando il diciotto di ottobre si verificò un terzo attentato con il ferimento di due persone che medicate a Frosinone poterono tornare alle loro abitazioni solamente alcuni giorni dopo.
Il collasso totale della fragile economia arrivò con la consegna obbligata del bestiame.
Le inique sanzioni furono ordinate dalla Wehrmacht che con la complicità della Prefettura di Frosinone le emanò a tutti i municipi della provincia, dopo essersi impossessati delle abitazioni i tedeschi si concentravano ora sulle requisizioni degli animali.
La recente prescrizione creò un’ immediata spaccatura all’interno del paese riguardo l’ atteggiamento da tenere verso gli scomodi occupanti.
Chi abitava nel centro storico continuò a considerarli positivamente vedendo in loro soprattutto la possibilità di qualche piccolo guadagno personale. Si era creata infatti con il tempo una ristretta economia basata sul compenso ricavato da piccoli lavori domestici come la stiratura o il rammendo delle uniformi che i tedeschi ricambiavano offrendo scatolame prelevato dalla loro mensa o dallo spaccio presso il palazzo delle suore. Era questa l’unica ricompensa accettata, infatti anche gli uomini della Göring si erano resi conto che il Marco di occupazione da loro introdotto il 29 novembre 1943 non aveva avuto nessun successo. Lo sapevano bene anche i fratelli Palombo che facevano i salti mortali per poter cambiare, per i paesani, la rara valuta con qualcosa di commestibile al di fuori dei confini del paese. Completamente opposta invece era l’opinione sui tedeschi da parte degli abitanti delle campagne che vedevano in loro solo una minaccia per l’ormai esiguo bestiame.
Le razzie di animali iniziarono con un’ operazione che Weiss studiò nei minimi particolari unitamente ai comandi tedeschi di Giuliano di Roma e Amaseno. Gli uomini in divisa blu avrebbero atteso che i pochi uomini ancora presenti nei paesi si fossero recati nei campi per requisire poi indisturbati ogni animale rimasto incustodito nelle loro stalle.
A Villa Santo Stefano la zona da colpire fu quella più conosciuta dai tedeschi che non osavano ancora inoltrarsi nei sentieri fangosi più a valle, per cui le Fontanelle ebbero il triste primato di prima contrada a dover subire l'egoismo dell’occupante. I tedeschi giunsero in forze all’improvviso sfondando minacciosi le porte delle case. Superata la fragile resistenza di anziane e bambini con l’arroganza delle armi caricarono sui camion maiali e pollame che con rapida manovra portarono ai luoghi di macellazione posti sotto la Loggia e nella parte alta di via Roma.
Qui gli abili macellai, con cruda competenza, svolsero il loro compito dopo che le povere bestie erano state finite con un colpo di pistola. Da quel giorno gli abitanti delle campagne capirono che l’avvicinarsi degli occupanti alle loro case avrebbe portato solo altra fame.
Secondo la perversa logica tedesca chi subiva una requisizione avrebbe potuto ottenere se richiesto un equo risarcimento inoltrando al municipio una domanda compilata su un apposito stampato bilingue che il podestà a sua volta avrebbe trasmesso alla Prefettura. Chiaramente il compenso a tali crimini non arrivò mai e le numerose richieste affogarono nella polvere degli scaffali degli uffici del Prefetto. Tuttavia molte di quelle ruberie furono evitate grazie anche agli originali espedienti escogitati dalla arguta gente di Villa Santo Stefano.
La nonna di Guglielmina, Za Flavia, ad esempio aveva elaborato un particolare stratagemma per salvaguardare le sue ultime amate galline.
Dopo avergli legato con un sottile spago e tanta pazienza il becco le legava sul tetto della loro casetta al Quarallo in modo che i tedeschi al loro passaggio non ne notarono mai la presenza. Non di meno fu Armando, l’altro nipote di Za Flavia, che avendo avuto l’incarico di proteggere i bufali dello zio, Felice Reatini, li nascose nell’ intricato dedalo di cespugli della Macchia.
A fine conflitto la sua furbizia fu premiata e gli animali ritrovati sani e salvi.
Un’altra ingegnosa soluzione fu anche quella adottata dalla famiglia Bravo che aveva costruito un ricovero sotterraneo per proteggere le loro ultime tre bufale. Il loro acume non si era limitato però all’ originale rifugio ma si superò quando, dopo aver osservato attentamente i movimenti del personale della postazione Flak posta di fronte a loro nei pressi della mola di Giuliano, era riuscita addirittura a far pascolare i bovini durante il cambio della guardia.
L'astuzia non mancò nemmeno a Grazia Palombo che trovandosi nei pressi della Palombara con una sua commare evitò che i soldati di guardia al passo le togliessero i pochi generi alimentari custoditi in una gerla distraendoli con la cosa più naturale che due donne potessero fare, recitare il Rosario.
L’ artificio più diffuso per preservare i propri beni divenne comunque l’utilizzo improprio ma efficace di un otre per l’olio.
Dentro il contenitore di argilla che veniva interrato quasi sempre nei pressi degli orti vennero infatti custoditi tra il fresco delle sue pareti legumi, lardo, zucchero o formaggio e durante la deleteria presenza francese anche denaro e qualche prezioso. Tuttavia questi accorgimenti non evitarono le frequenti ruberie iniziate nell’ottobre del 1943 e continuate fino agli ultimi giorni del maggio del 1944.
Tra i vili protagonisti di queste azioni vi furono le Einheit o Unità della Göring comandate dagli ufficiali Lubke, Lipold o dal Capitano medico Rader, quando le razzie erano destinate al suo ospedale ad Amaseno, oltre naturalmente al nostro Tenente Weiss. Per loro mano in quei foschi giorni di novembre dure perdite subirono Giacinto Molinari ad Amaseno e Domenico e Giuseppe Palombo a Villa Santo Stefano. In dicembre le requisizioni continuarono, tra i maggior colpiti Alessandro Pagliaroli ad Amaseno e il segretario comunale Girolamo Messina privato dei suoi beni personali consistenti in legname e alimentari per un valore di lire 6900. Torindo Biasini invece nonostante la requisizione di ben due case patì anche la confisca valutata oltre le 40.000 lire di legname, tegole, mattoni, cemento, carbone, fieno e biada, materiale questo sottratto dal suo deposito edile alle Mole. Anche il gennaio 1944 fu particolarmente difficile il 21 infatti la Sezione Sussistenza del Reparto Macellai di Amaseno sconfinando requisì numerosi bovini in paese. Il 30 dello stesso mese i tedeschi di Villa Santo Stefano restituiranno la cortesia, a farne le spese fu Tommaso Zagaroli che ad Amaseno dovette rinunciare ad una mucca di sei quintali del valore di lire 12.000 prelevata da alcuni elementi della Dodicesima Batteria. Per il resto del mese la situazione non cambiò, Ruggeri Michele si vide infatti sottrarre un grosso suino il 22 gennaio 1944 destinato al Comando tedesco di Villa Santo Stefano a cui suo malgrado Mantua Tommaso aveva ceduto lo stesso giorno un ovino del valore di lire 500. Tuttavia nonostante le continue privazioni non mancarono episodi che fecero tornare anche se per rari momenti il sorriso come quando in piazza una mattina alcuni uomini della Göring chiesero ad alcune donne delle uova fresche in cambio di zucchero e pane di segale. Inizialmente non si comprese cosa realmente volessero quei soldati fino a quando uno di loro non iniziò ad imitare il verso della gallina, immediatamente il suo impegno divenne pari alle risa delle donne. L'apoteosi insieme alle lacrime fu raggiunta però quando l’uomo muovendo le braccia come le ali di un pollo prese a girolonzolargli intorno.
Un altro curioso equivoco avvenne quando alcune massaie si rinchiusero nella bottega di Zio Romeo alle Case Spallate, per una macellazione clandestina. Durante l’operazione, assolutamente illegale, giunsero imprevisti alcuni soldati tedeschi che urlando iniziarono a bussare con forza contro la porta, quasi a volerla buttarla giù, mentre all’interno il terrore si era impossessato dei presenti. La tensione cesso' quando Zio Romeo con lo zinale sporco di sangue e con il coltello ancora nelle mani facendosi coraggio li fece entrare, solo allora i presenti capirono che anche i tedeschi volevano della carne, pagandola perfino!!
Ma il paradosso si raggiunse quando Za Candida nonostante la mancanza del permesso di circolazione durante il coprifuoco continuò imperterrita la sua attività di fornaia, lanciando nel cuore della notte, incurante dei rimproveri della ronda tedesca, i suoi famosi avvertimenti: “ Mitt’ a recent!... ammassa! ...” .