12 UN TRAGICO
FEBBRAIO
Franco era un vivace bambino di circa dieci anni sempre attento a tutto
quello che gli accadeva intorno soprattutto se riguardava gli strani
ospiti in uniforme che da ottobre popolavano il suo paese.
Studiandoli assiduamente aveva notato però che negli ultimi giorni
qualcosa in loro era cambiato ed anche profondamente. In effetti dalla
fine di gennaio era iniziato per gli occupanti tedeschi un delicato
momento di transizione.
La Hermann Göring non sarebbe più tornata e la Novantesima Divisione ci
avrebbe messo del tempo prima di insediarsi completamente con il suo
piccolo ospedale. Al momento a Villa Santo Stefano gli unici rimasti,
oltre ad alcuni amministrativi, erano alcuni uomini dell’est europeo che
militavano come riserva nella Wehrmacht. I primi a notarli furono alcuni
santostefanesi reduci dai Balcani che ascoltando le loro conversazioni
riconobbero la tipica inflessione slava. Questa sorta di mercenari aveva
un ruolo minore all’ interno della struttura militare tedesca dove
svolgeva compiti prevalentemente secondari.
Nella Dodicesima Batteria ad esempio, si occupavano semplicemente degli
animali da soma e del refettorio. Spesso demotivati nutrivano nei
confronti dei loro superiori un sentimento di odio misto ad invidia.
Lo stesso maresciallo Göring aveva affermato che per guidare all’assalto
un plotone di questi uomini più che un valido ufficiale tedesco sarebbe
bastata una semplice minestra calda.
Consapevoli che presto anche loro avrebbero abbandonato la valle
dell’Amaseno e la totale mancanza di graduati,ormai quasi tutti in prima
linea, li aveva portati a commettere azioni di particolare violenza come
quando i primissimi giorni di febbraio a Giuliano di Roma in contrada S.
Lucia due di questi soldati, completamente ubriachi tentarono di
violentare una giovane sfollata di Frosinone.
La ragazza inseguita venne raggiunta anche da numerosi colpi di fucile che
grazie alla vista annebbiata degli assalitori andarono fortunatamente a
vuoto salvandole così la vita. Anche a Villa Santo Stefano questi slavi,
continuamente dediti al vino e sempre oltre misura, approfittando
dell’insolita libertà iniziarono a spingersi anche in quei vicoli dove
nemmeno le ronde tedesche avevano mai osato inoltrarsi prima.
Franco invece al sicuro del suo segreto osservatorio, il buco della
serratura della sua casa in via San Sebastiano, continuava indisturbato a
spiarli anche dopo le diciotto quando rimanevano gli unici a girovagare in
un paese quasi completamente oscurato. Molti di loro si recavano al
Palazzo delle Suore dove il loro spaccio distribuiva ancora le ultime
sigarette o quello che era rimasto tra i prodotti di uso personale come la
carta da lettere,il sapone o gli accessori per la pipa, poi
immancabilmente varcavano la soglia delle cantine della piazza o vicino al
Palazzo del Marchese.
Di fronte al fuoco dei camini si intrattenevano sempre oltre il consentito
bevendo vino e giocando a carte fino a tarda sera quando ubriachi si
ritiravano in caserma. Una sera però Franco rischiò grosso, la sua
postazione segreta fu infatti quasi completamente investita da un pesante
semicingolato che privo di controllo era scivolato fin dentro la cantina
confinante casa sua.
La spinta della marcia di avviamento aveva addirittura demolito il muro
posteriore del locale ed in un attimo l’ingombrante automezzo era venuto a
trovarsi in equilibrio precario con il muso che pericolosamente sporgeva a
mezz’aria sopra la piazza. Il suo conducente lo aveva parcheggiato di
fronte la cantina dei Palombo per riprenderlo alcune ore dopo in evidente
stato di ebbrezza.
Invece di scendere in piazza e risalire in senso opposto, come faceva
abitualmente,quella sera aveva preteso di fare manovra nella più totale
oscurità sfruttando i pochi metri della ripida salita.
La mattina seguente trainato con un mezzo meccanico il cingolato poté
toccare di nuovo la terra di via S. Sebastiano dopo che le sue ruote
anteriori erano rimaste nel vuoto tutta la notte.
Ma la notizia che correva in quei giorni sulla bocca di tutti riguardava
la tentata violenza alla giovane frusinate a Giuliano di Roma senza mai
immaginare che il quattro febbraio per lo stesso scellerato motivo in
paese avrebbe perso la vita la madre di tre figli. La sera di quel
maledetto giorno una brezza fredda iniziò lentamente ad alzarsi da monte
Siserno insinuandosi gelida nelle ossa di chi ancora si tratteneva in
strada, erano gli ultimi soldati che barcollando tentavano il ritorno in
una caserma ormai abbandonata.
Uno di loro però rifiutando l'abbraccio caldo dei compagni si staccò dal
mucchio con la folle intenzione di proseguire da solo la nottata, in barba
a tutti i regolamenti. A nulla valsero le preghiere dei suoi commilitoni
sommerse solo da un vomito di maledizioni. All’ improvviso la notte fu
lacerata dalle canzoni della sua terra e l’ubriaco, raggiunta via Roma,
iniziò a tirare calci e pugni contro ogni porta. Spaventati a morte
nessuno degli occupanti rispose, tantomeno aprì, tanto era lo sconcerto
per quella situazione che mai si era verificata prima.
Infuriato l’uomo allora concentrò la sua rabbia solo sulla casa dove
abitava insieme ai figli Antonia Olivieri. L’ostinato accanimento dello
slavo contro quella porta spinse la povera donna a supplicarlo di
andarsene.
Il soldato invece, per nulla impietosito, ma anzi incoraggiato da quelle
preghiere,nonostante il pianto dei tre bambini,riprese a scuotere l’uscio
con la folle volontà di abbatterlo. Al limite della disperazione stretta
dietro quell’ultima difesa, Antonia appellandosi a tutti i santi del
paradiso decise infine di aprire il portone all’ubriaco sperando di
placare così le sue ire. Ma l'uomo non aspettò nemmeno un attimo, udito
muoversi il chiavistello con una spallata spalancò la porta lanciandosi
come un demonio sulla poveretta.
Le resistenze della donna accecarono maggiormente l’uomo che, estratta la
baionetta dal fianco, con odio animale, colpì.
Trafitta più volte, la coraggiosa madre, esanime, stramazzò a terra.
Sporco di sangue ed inebriato dalla sua stessa follia all’omicida non
rimase altro che farsi inghiottire dal buio della notte.
Udite le urla disperate dei piccoli innocenti i vicini, sfidando il
pericolo, accorsero in aiuto della povera Antonia di cui purtroppo non
poterono constatare altro che la morte. Nonostante il coprifuoco la
tragica notizia esplose in paese come una bomba. Don Amasio accorso sul
luogo, si rivolse subito agli infelici orfani stringendoli a sé. Poi, dopo
averli fatti allontanare, in muta commozione offrì l’estrema unzione alla
loro giovane madre.
La presenza di civili sulle strade richiamò l'attenzione della ronda
tedesca che, giunta sul posto, informò i superiori del grave incidente.
Furono presi subito immediati provvedimenti per timore che l’omicidio
incrinasse i rapporti fino allora sufficientemente buoni con la
popolazione.
Nonostante l’oscurità la ridotta guarnigione iniziò subito le ricerche che
portarono, alle prime luci del giorno, all’arresto del fuggitivo. La
mattina stessa l’omicida trasferito nella prigione sotto la Loggia,
nonostante la rigida temperatura venne privato della sua uniforme e
lasciato nudo come un verme.
L’eccessivo accanimento degli ultimi uomini della Göring contro il recluso
mostrava la bassa opinione che i tedeschi avevano per questo tipo di
soldato che non sarebbe mai divenuto loro pari.
La popolazione, avuto eccezionalmente il permesso di avvicinarsi alle
grate, verificò con i propri occhi come il prigioniero fosse umiliato e
sbeffeggiato dai suoi stessi carcerieri che per alimentarlo gli
spingevano, con disprezzo, pochi rancidi avanzi attraverso il foro della
porta destinato al gatto.
Quella visione risarciva almeno in parte i santostefanesi per quello che
era accaduto la notte prima. Alcuni giorni dopo il recluso lasciò Villa
Santo Stefano e di lui se ne perse il ricordo. Nel frattempo il Comando
provvisorio tedesco aveva permesso il trasferimento del feretro della
povera vittima dalla chiesa al cimitero facendo procedere così il corteo
funebre attraverso il paese, in quei tempi anche il passaggio di un
funerale necessitava di un permesso particolare.
Il pomeriggio del 5 febbraio Don Amasio, dopo aver benedetto per l’ultima
volta il corpo dell’innocente madre, mestamente iniziò il rientro in paese
mentre il corteo che aveva accompagnato la salma lentamente andava
sciamando.
Giunto nei pressi della casa di Antonia si soffermò di fronte a quella
porta barbaramente violata e il suo pensiero andò a Stefano Palladini e al
suo rientro dal fronte quando avrebbe abbracciato i suoi bambini ma non
l'amata moglie. Così riflettendo raggiunse la Canonica.
Si lasciò cadere sulla sedia e, controvoglia come sempre, aprì il registro
dei defunti sforzandosi di compilare l’ennesima scheda di decesso.
Quella fu la prima ed unica volta in tutta la sua missione che volle
aggiungere una nota su un lato della pagina lasciandoci così un breve ma
preciso resoconto di quella morte così efferata. Terminato il triste, ma
doveroso compito, con indolenza si massaggiò le tempie, quello che era
appena accaduto, pensò, era forse il preludio a fatti ancora più gravi che
il fronte avvicinandosi avrebbe portato in paese.
Le sue meste riflessioni furono interrotte dalla voce stridula di
Mariangela che lo avvisava “ Monsignò ’ la cena è servita !!”
Allora il parroco ripose con cura il volume, asciugò il pennino e dopo
aver spento la candela chiuse la porta.
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