13 MORK
Il panno gelido premuto sulla fronte rovente portò l’auspicato sollievo e
lentamente Werner Mork iniziò a riprendere conoscenza.
La prima cosa che vide fu il volto sorridente della giovane infermiera e
dietro le sue piccole spalle il profilo ancora incerto di un vecchio
camerata fasciato alla testa, capi’ allora di trovarsi in una camera
d’ospedale.
La ragazza, nel frattempo, stava riportando con precisione, come le era
stato insegnato, la temperatura indicata dal termometro sulla lavagnetta
posta ai piedi del letto del giovane sottotenente. Infine riposto il
gesso, sorridendo, si allontanò.
Fu allora che Werner notò le maniche esageratamente lunghe del camice
indossato dall’esile giovinetta che nel dormiveglia gli erano sembrate le
ali di un angelo. Provò ad alzarsi ma fu inutile, la debolezza provocata
dalla malaria era ostinata, non gli rimase altro che riporre la testa sul
cuscino e tornare a fissare il bianco soffitto della camera che, non meno
di qualche mese fa, era stata abitata da una famiglia di Villa Santo
Stefano. L’effetto delle pastiglie di Atebrin e la febbre alta iniziarono
a trasformare la volta della stanza nello schermo di un cinema come quello
in cui andava da bambino nella sua città natale, Vegesack.
Il film iniziava sempre allo stesso modo, alla stazione, in partenza per
la Scuola Ufficiali attorniato dai suoi cari, poi il vapore del treno si
disperdeva mostrando il suo plotone perfettamente allineato.
Illuminando di nuovo il soffitto ecco apparire dai fotogrammi sgranati
della pellicola i mulini d’Olanda inseguiti dai chiassosi bistrot di
Parigi e poi ancora vapore, ma questa volta del fumaiolo di una nave ed
ecco l’Africa e i primi combattimenti con la Novantesima Leichte Afrika
Division .
Un tremito scosse Werner quando il sogno lo ricondusse all’orrore della
guerra: Tobruk, El Alamein, la ritirata infuocata e il provvidenziale
aiuto dei due soldati italiani che gli salvarono la vita. A questo punto,
tra le macerie, il film si interrompeva e l’acro sapore del medicinale
versato dalla premurosa infermiera lo riportò all’interno della stanza, al
camerata ferito, alla luce del giorno.
Ma l’esile realtà in bilico tra veglia e sogno riprendeva di nuovo a
trasformarsi e i colori sopra la sua testa tornarono ad ondeggiare
cullandolo fino alla sala Hausmann in Klagenfurter Strasse dove
ticchettando il proiettore riprendeva a girare. Ora la sabbia bianchissima
lasciava il posto al blu cobalto del mare africano, ma lo sguardo degli
ultimi sopravvissuti ritrovò la pace solo quando il colore dell’acqua si
trasformò nel turchese dai mille riflessi della Sardegna.
Tra gli uliveti e l’aria mite dell’isola italiana tutto quello che
rimaneva della Leichte Division venne offerto ad una nuova Divisione, la
Novantesima Panzergrenadier, denominata “Sardinien” in onore al luogo che
le diede i natali. In quella occasione Werner ricevette la piccola spilla,
simbolo della Divisione, con il contorno dell’isola attraversata da una
spada che come tutti i suoi commilitoni con orgoglio appuntò su un lato
del berretto.
Nel dicembre del 1943 arrivò il suo nuovo comandante, il Generale Baade,
presto amatissimo da ognuno dei suoi granatieri oltre per il coraggio
anche per la sua non comune semplicità, egli stesso amava definirsi il
generale tedesco con il peggior stato di servizio. Dopo la fuga dalla
Sardegna e la lotta ai partigiani corsi, per la giovane Divisione iniziò
la definitiva mobilitazione per la penisola, in nave per la truppa ed in
Junker per gli ufficiali. All’aeroporto di Livorno con la sua Zeiss Werner
immortalò il momento dell’atterraggio, lui appariva con un braccio
fasciato, non una ferita di guerra ma un leggero slogamento dovuto alle
interminabili nuotate che amava concedersi sull’isola del Mediterraneo. Ma
lentamente il morbo della malaria che insieme a lui aveva colpito anche
molti suoi commilitoni iniziò a minargli il fisico rendendolo sempre più
vulnerabile. A Frosinone, dove l’unità si era ricongiunta nel gennaio
1944, l’ Obest Mork fu colpito da un grave collasso che fece temere per la
sua vita.
L’ufficiale, trasferito provvisoriamente, ad un ospedale del capoluogo vi
rimase per qualche settimana in attesa del completamento dell’Hauptverbandenplatz
a Villa Santo Stefano dove venne trasferito definitivamente l’8 febbraio
1944.
Da quel giorno non avrebbe più lasciato il letto senza rinunciare però
alla speranza di ritornare a camminare sulle sue gambe…
Il gavettino in alluminio del camerata, rotolato sul pavimento, ridestò
Werner che, di soprassalto, ritrovo' l’ energia sufficiente per alzarsi
ritto sulle spalle. La nuova posizione nonostante lo sforzo gli permetteva
di guardare per la prima volta fuori dalla finestra. Quello che vide
furono i piedi di un monte fatto di rocce modellate dal vento e
dall’acqua, dei cactus centenari e poi quel mare di lenzuola bianche e blu
che al lieve alzarsi del vento di maestrale iniziarono ad ondeggiare e con
il loro morbido fruscio accompagnarono di nuovo Werner al mare di
Sardegna, all’acqua salata, al sole … alla sua luce abbagliante e,
nonostante il trambusto alle sue spalle, Mork si addormentò di nuovo.
Oltre il muro, tra il frastuono delle brande trascinate, gli ordini urlati
per le scale e il tintinnio delle baionette, la Tredicesima Compagnia
Fucilieri del 200° Reggimento dopo ore sui camion a mangiar polvere era
finalmente arrivata al suo nuovo alloggio. I suoi elementi erano quasi la
metà del contingente precedente, quello della Göring, dopo che dal primo
trimestre del 1944 l’organico tedesco si era fortemente ridotto in quasi
tutti i suoi reparti.
Il loro comandante, l’Olt Pachnatz si era già stabilito nel vecchio
ufficio di Weiss mentre la Casina sarebbe rimasta l’alloggio per il resto
degli ufficiali.
Sopra il portone della palazzina occupata,l’ultima dietro al reparto di
Chirurgia, alcuni membri della Compagnia dipinsero con della vernice verde
un quadrifoglio, più che il loro simbolo, il loro portafortuna.
Se la Compagnia fucilieri si stava ancora acquartierando, quella di Sanità
era già in piena attività sia nell‘HVP che sulla linea del fronte di
Cassino con il suo servizio di autoambulanze a sostegno delle truppe della
Divisione impegnate nei combattimenti.
L’Ogfreider Sepp Bestler della Seconda Compagnia di Sanità del
Centonovantesimo Battaglione e i suoi compagni erano già diversi giorni
che si trovavano a monte Cairo, le loro autoambulanze avrebbe riportato a
Villa Santo Stefano le vittime e i feriti di quegli aspri combattimenti.
Ma a pochi minuti dal rientro in paese Bestler si trovava ancora
arrampicato lungo le pareti scoscese dei camminamenti in compagnia
dell'incessante tiro nemico e solo dopo ore con l'ultimo ferito portato a
spalla, esausto, raggiunse il centro raccolta. Al suo arrivo i motori
delle autoambulanze erano già avviati quando inaspettata via radio giunse
la notizia che c’erano ancora cinque feriti da recuperare e purtroppo
tutti sul monte Castellone.
Così invece di un pasto caldo a Villa Santo Stefano i barellieri avrebbero
dovuto affrontare di nuovo la cresta della montagna che continuava a
tremare sotto i colpi dei cannoni alleati. Saltando di buca in buca,
aspettando la ritmicità delle esplosioni, la squadra infermieri,
stringendo i denti, riprese così il difficile sentiero. Dopo un'eternita',
Sepp, guidando i compagni, arrivò in vista della cima del Castellone
tenendo alta la bandiera della croce rossa che, sebbene gli ostacolasse
l’arrampicata, lo proteggeva dal tiro dei cecchini o almeno così sperava.
Superato l'ultimo costone gli infermieri proprio davanti ai loro piedi
trovarono i primi due feriti, più in basso fortunatamente gli altri due.
Con la voglia di andar via da quella cresta falcidiata dal tiro nemico
Sepp e compagni, annaspando sulla neve, cercarono disperatamente l'ultimo
camerata ma ne lui ne le sue tracce furono trovate. Rassegnati i
barellieri conclusero che il disperso poteva trovarsi solo oltre le linee
nemiche e, decisi ad non abbandonarlo, si infiltrarono oltre le postazioni
alleate. Una scala di corde gli permise di arrampicarsi fino all’apice di
una cresta dove invece del quinto trovarono ad aspettarli una pattuglia
americana con i fucili spianati.
Uno di loro, un ufficiale, puntò il mitra contro Sepp.
Il gesto ostile permise comunque un dialogo amichevole tra i due nemici e
l’americano, comprese le ragioni dell' infermiere, gli concesse di cercare
insieme ai suoi compagni il commilitone disperso. Pochi minuti dopo il
corpo del quinto ferito fu trovato, era mezzo nudo riverso sulla neve,
colpito al petto.
Sepp lo alzò lentamente sostenendolo sulle spalle, sotto di lui la neve si
era sciolta in una pozza color amaranto, l'infermiere notò che durante la
notte i suoi avversari lo avevano curato avvolgendogli la ferita con delle
bende.
Nello zainetto di uno dei feriti più a valle Sepp aveva trovato un’
arancia,la offrì al commilitone.
Il soldato debolissimo bevve avidamente il succo dell’agrume spremuto
direttamente dalla mano di Sepp.
Dopo averlo adagiato sulla barella i sanitari ringraziarono il tenente
americano senza sapere quale sarebbe stato da quel momento in poi il loro
destino.
L’ufficiale, abbassando la canna del Thompson, li salutò con un cenno
della testa essi capirono allora che gli era permesso allontanarsi con il
loro ultimo ferito. La squadra, seguendo gli ultimi raggi di sole affrontò
di nuovo la ripida mulattiera e, attraverso un inferno di granate, giunse
finalmente alle autoambulanze.
Il giorno seguente Sepp rivide seduto sul letto dell‘ Jnnere abteilung “il
Quinto”, così lo aveva definitivamente soprannominato, si stava
ristabilendo, sarebbe sopravvissuto.
Il Sottotenente Werner Mork è stato ricoverato presso la Sezione Malarica
dell’Hauptverbanderplatz di Villa Santo Stefano per due mesi.
Sensibile testimone di quei giorni, tuttora vivente, serba ancora nel suo
cuore la inaspettata calda ospitalità dei santostefanesi, ecco la sua
storia : “ Sono partito volontario per l’esercito tedesco come molti
giovani della mia generazione il 18 aprile 1940 . Dopo il Corso Ufficiali
fui assegnato ad un Plotone Trasmissioni del 155° Reggimento Fanteria che
sotto il mio comando venne impegnato in Belgio, Olanda e in Francia prima
di essere trasferito sul fronte nordafricano con la Novantesima Leichte
Afrika Division.
Tra le sabbie del deserto conobbi gli orrori della guerra che come molti
miei coetanei non avremmo mai immaginato così spaventosi.
Ho combattuto sui campi di battaglia di El Alamein, Kasserine ed in
ritirata a Tobruk, dove l’aiuto disinteressato di due soldati italiani mi
salvò la vita dopo che ferito per un bombardamento ero rimasto per ore
sotto le macerie di un fortino. Nell’aprile del 1943 terminata la campagna
d’Africa fui trasferito a bordo di un Junker 52 ad Olbia, in Sardegna,
dove fui dislocato con il mio plotone o ciò che ne rimaneva a Villa Nuova
Franca.
Nella ricomposizione della mia nuova Divisione, dalla Quarta Compagnia
Panzergrenadier del 155° Reggimento fui trasferito alla Dodicesima
Compagnia del III° Battaglione del 200° Reggimento comandata dal Capitano
Hahn.
In Sardegna come altri commilitoni iniziai ad avvertire i primi sintomi
della malaria che mi seguirà anche Il 13 settembre quando attraverso La
Maddalena raggiunsi la Corsica dove ad Ajaccio partecipai ai combattimenti
contro i francesi e i partigiani locali. In Junker 52 da Bastia giunsi
all’aeroporto di Livorno dopo che sopra l'isola d' Elba fummo attaccati da
una squadriglia di P38 americani che abbatterono due nostri aerei. In
ottobre dalla Toscana fummo trasferiti ad Ortona dove la mia Compagnia
partecipò ai combattimenti del Sangro e del Moro contro l’Ottava Armata
Inglese fino al novembre del 1943 sotto il comando del Oberleutnant
Tschechow.
Il Natale 1943 , in licenza matrimoniale, lo trascorsi a Brema con la mia
amata Ilse, ma già ai primi di gennaio ero di nuovo in Italia alla testa
del mio plotone che da Bologna in treno raggiunse Roma.
Dalla stazione Termini arrivammo infine a Frosinone dove la Divisione fu
di nuovo ricomposta per poter affrontare al meglio il fronte di Cassino.
Il 22 gennaio, giorno dello sbarco alleato ad Anzio fui colpito dal primo
grave attacco di malaria. Giorni dopo seppi in ospedale che gli ultimi
componenti del mio vecchio Reggimento, il 155 , erano stati spazzati via
dagli americani sul litorale laziale. Il nostro ospedale nel vostro paese
non era ancora terminato per cui rimasi ricoverato provvisoriamente a
Frosinone, arrivai a Villa Santo Stefano con un'autoambulanza solamente
l’otto febbraio 1944.
Nell' HVP del II /190 oltre al nostro personale medico c’erano alcune
infermiere italiane che mi curarono da una grave forma di malaria, la
terzaria, che mi accompagnerà fino al 1971. Lo stesso periodo ricevemmo
finalmente le nostre uniformi invernali anche se devo ammettere,
nonostante il freddo intenso, molti di noi reduci dell'Africa rinunciarono
malvolentieri all'uniforme tropicale.
Rimasi all’ospedale per due mesi, l’opera dei sanitari e delle infermiere
del paese fu encomiabile anche se i continui attacchi malarici
continuavano a indebolirmi. Nonostante i disastri dell’otto settembre e
l’occupazione da parte nostra del paese i rapporti con la popolazione
rimasero buoni.
Le infermiere che avrebbero potuto augurarci la morte, come del resto
poteva essere giustificato, erano invece al contrario fin troppo premurose
e pazienti con noi feriti. Con tutti gli abitanti del paese che ho
conosciuto ho stretto relazioni molto umane, le encomiabili giovani
infermiere non erano tutte di Villa Santo Stefano, alcune penso fossero di
altri paesi.
Oltre ai reparti sanitari ricordo bene la Sezione Macellai, dove insieme
ad altri convalescenti ci procuravamo il fegato e altri resti dei suini
macellati che utilizzavamo per integrare la nostra razione quotidiana,
cucinandoli sui camini presenti in alcune stanze del reparto. In paese il
clima era sereno, per quei tempi vivevamo una realtà umanamente possibile,
i santostefanesi si mostravano continuamente gentili nonostante la nostra
presenza di occupanti e la vicinanza di ben due fronti.
Mi piaceva il modo melodico in cui i paesani parlavano, il loro ritmo
dolce. Il mio pensiero in quei giorni dopo averne trascorsi troppi sul
fronte si fondava sulla speranza di un futuro senza odio vissuto libero da
dottrine e ideologie. Costante è il ricordo dell’umanità della gente di
Villa Santo Stefano, che in quei bui giorni della guerra, non conosceva
l’odio per il nemico.
Nei momenti in cui la malattia mi permise di lasciare il letto azzardai
alcune passeggiate in paese e nelle sue immediate vicinanze, grazie alla
mia Zeiss ne immortalai la gente e i luoghi. Durante le mie escursioni ero
attento al passaggio degli aerei nemici ma essendo Villa Santo Stefano
sede di un ospedale i caccia rimasero sempre tranquilli grazie anche alle
enormi croci rosse dipinte sulle tegole dei tetti. Le nostre posizioni
Flak in paese non erano presenti, sarebbe stata una provocazione verso gli
americani che sfrecciavano sopra Villa Santo Stefano, motivo per cui
furono diplomaticamente disposte nelle vicinanze.
Al termine della mia convalescenza agli inizi dell’aprile 1944 fui
destinato al fronte di Cassino ma il fisico ancora debilitato mi portò in
seconda linea al comando di un’ Unità Motorizzata per il trasporto di
materiale e munizioni per il fronte.
Ogni giorno anch'io avrei dovuto lottare con il mio nemico, la carenza di
carburante. Con l’avvicinarsi degli alleati e la benzina ormai agli
sgoccioli iniziammo la ritirata. Alla fine di maggio gli ultimi autocarri
Fiat Spa 35 "Dovunque" , ancora efficienti, mi portarono a Firenze dove
gli attacchi di malaria si presentarono di nuovo e anche violenti,per cui
si rese necessario il mio ricovero a Bologna.
Del resto noi della Novantesima parafrasando il nome della nostra unità
eravamo conosciuti come quelli della "Malarien Division".
Durante l’ultima fase del nostro arretramento tornai ancora in ospedale, a
Merano, dove ritrovai la Compagnia Sanitaria di Villa Santo Stefano o ciò
che ne rimaneva. All’inizio del 1945 riuscii, non so nemmeno come, a
tornare in patria, assegnato alla Guarnigione di Kustin vicino Francoforte
sul Reno.
Da quell'ultimo caposaldo il 19 gennaio 1945 raggiunsi il fronte orientale
con l'ordine di ritardare quanto fosse possibile l’avanzata russa.
Il giorno otto maggio 1945 per me la guerra sarà finita quando insieme ad
un pugno di veterani fui fatto prigioniero dagli americani in
Cecoslovacchia.
Rimasi recluso per tre mesi nel lager di Horazdovice ma grazie ad alcuni
generosi ufficiali della Novantesima Divisione di fanteria americana,
curiosa coincidenza …., prima dell’arrivo dei russi fui trasferito in
treno a Berlino. Il 14 luglio 1945, dopo cinque anni di fronte trascorsi
in Belgio, Olanda, Francia, nord Africa, Corsica e Italia ero tornato
definitivamente a casa. ”
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