L'OSPEDALE DELL'ANNUNCIAZIONE
di Vincenzo Tranelli

 

In un vicolo stretto e buio (fig. 1) adiacente a quel rione da sempre conosciuto come Aurizia si

   
 
fig.1  
   
 
fig.2  
   
 
fig.3  
   

apriva un tempo quella che oggi chiameremmo una struttura socio-sanitaria, ma a quello stesso tempo era semplicemente l’ospedale (fig. 2).

Immediatamente il pensiero corre ai moderni luoghi di cura che ai giorni nostri vanno sempre più rarefacendo. Il paragone non tiene. Ben diverso era il concetto e lo spirito che li aveva ispirati e che li animava. Lungi da me voler ripercorrere la storia ospedaliera, troppo affascinante e troppo complessa per essere compressa in poche righe.

Ci limitiamo a ricordare pochi punti salienti. L’assistenza organizzata al malato nasce e si sviluppa nell’era cristiana. Tutto parte dal concetto che il malato per definizione sofferente è l’immagine del Cristo sofferente per cui chi accoglie chiunque si trova in condizioni di bisogno esistenziale accoglie Cristo stesso.

A parte un primitivo embrione di assistenza prevalentemente domiciliare dei diaconi, religiosi coadiuvanti i vescovi, nei primi secoli (e S. Stefano e S. Lorenzo lo erano), con l’aumentare dei fedeli si fa strada il concetto di raggruppare gli “assistiti” per meglio e più facilmente curarli.

Abbiamo accennato a una struttura socio - sanitaria e tale era e continuerà a essere per secoli l’ospedale. Non solo cura della infermità ma anche aiuto ai bisogni della vita e a quelli dell’anima.

L’assistibile è il malato locale, ma anche il povero in canna, il mendicante, il pellegrino, l’abbandonato. Quindi una sorta di ammortizzatore sociale ante litteram.

Si parte dal primo Concilio di Nicea del 325: i padri conciliari col canone LXX (fig. 3) stabiliscono che in ogni città dell’orbe cristiano si istituisca un xenodochio (letteralmente un ricovero per forestieri) a sollievo di “pellegrini, malati e poveri” diretto da persona di specchiati costumi scelta dal vescovo, dotato di letti e quant’altro e sostenuto in caso di necessità da tutti i cristiani di buona volontà, riconoscendo da ultimo benefici spirituali a coloro che si sarebbero impegnati in quest’opera.

Nasce quindi sotto l’egida dell’autorità religiosa e ben presto anche il monachesimo benedettino si inserirà nell’assistenza agli infermi organizzando infermerie annesse ai monasteri e dando vita alla medicina monastica. Ma col tempo l’ospedale va progressivamente laicizzandosi con l’ingerenza dei comuni e delle signorie.

Lo stesso Concilio di Vienne del 1311 dispose che vi fossero preposti laici qualificati alle dipendenze del vescovo, fino ad arrivare al Concilio di Trento col quale si riaffermavano i diritti ecclesiastici e si rivedeva la materia.

Si giunse di fatto in molti casi come il nostro ad una gestione mista: mentre le autorità civili fornivano protezione e assistenza sanitaria, per il resto era sotto la tutela vescovile.

Si dovevano eleggere due soprintendenti con la presenza dell’arciprete, mentre l’infermiere era assunto “a contratto” dal vescovo.

Ma torniamo a noi. Fin dalle prime testimonianze trovate si parla dell’hospitale dell’Annunciazione. Un primo passo sarà analizzarne l’intitolazione che ricorre frequentemente in grandi centri come Napoli e Milano; ma anche a Ferentino, Veroli, Supino e Riofreddo sono presenti confraternite e ospedali con questo titolo, strutture in un modo o nell’altro eroganti assistenza.

Cos’è l’Annunciazione? E perché un tale nome. Ce lo spiega semplicemente e magistralmente monsignor Angelini di cui riportiamo fedelmente le parole: “…è il primo istante dell’Incarnazione … Maria, che accolse in sé la virtù fecondatrice dello Spirito, il germe divino della vera vita e unica salute, sin dal giorno dell’Annunciazione fu costituita … interprete presso Dio di tutte quelle infermità, ansie e sofferenze umane che assai difficilmente si dissociano da qualunque naturale parto …”. Parto. Soffermiamoci su quest’ultimo.

Ricordo che molti anni fa un religioso bufalino di Patrica mi raccontò che nell’infanzia al suo paese ricordavano l’ospedale di Villa a proposito dei trovatelli; probabilmente un’eco lontanissima passata chissà quante volte di bocca in bocca, che può però farci ipotizzare un suo primitivo uso specialistico, se mi si passa il termine.

Non sarà a questo punto del tutto superfluo ricordare come nei secoli passati era frequentissimo l’abbandono di neonati, pratica ahimè affatto abbandonata al presente. E come accadeva al S. Spirito di Roma i trovatelli venivano ricoverati nei primi tempi, per poi essere affidati a balie interne o esterne. Qualcosa di simile doveva accadere dalle nostre parti, dove al più presto i proietti, alloggiati in canestre poste sul capo venivano spediti a Roma, a piedi o in carretto, con immaginabili rischi e conseguenze per la salute e la stessa sopravvivenza.

A metà del XVI secolo è sicuramente attestato da tempo; conosciamo i nomi di molti che nelle varie epoche abitavano nello stesso vicolo … e non ci risultano esempi di xenofobia! E si che in un posto simile a pensarci bene poteva sbarcare gente di qualsiasi risma.

La più antica attestazione della sua esistenza in mio possesso risale alla metà del ‘500: l’ospedale sembra un’istituzione abbastanza solida, possiede beni immobili da cui ricava dei proventi. Viene gestito dalla confraternita di S. Sebastiano che ha sede nell’omonima chiesa, per mezzo di due priori Libero Palombo e don Antonio Tambucci, ma è di fatto già anche un’istituzione di pubblica utilità soggetto anche all’amministrazione comunale che vi delega i due sindaci, nel caso specifico Fabio Alvitano e lo stesso priore Libero Palombo.

Viene amministrato secondo un ben preciso disciplinare, se non un vero e proprio statuto, di cui però non abbiamo traccia scritta alcuna: l’ospedaliere all’inizio del proprio mandato riceve in dotazione i beni e alla fine dello stesso è tenuto a fornire l’inventario per il passaggio delle consegne che avviene nelle mani delle quattro figure prima ricordate, di cui una sempre ecclesiastica.

Veniamo così a sapere come era dotata e di quali attrezzature disponeva una struttura del genere. Non strumentario medico e chirurgico, che evidentemente era fornito all’occorrenza dal sanitario che di volta in volta vi veniva chiamato per i bisogni contingenti degli ospiti, non medicherie o gabinetti diagnostici, ma solo suppellettili di uso domestico: otto coperte usate, otto lenzuola usate a tre tele e una a due tele. Tre sono stracciate. Un’arca, una caldarozza, una caldarella, due padelle di rame, quattro pagliericci quasi tutti malandati, una vecchia botte e una lucerna. Tutto il resto, stoviglie, vasellame, componenti dei letti, tavola e sedie sono dell’infermiere; ad ogni passaggio di mano un benefattore aggiunge qualche donativo: “un altro pagliariccio novo” oppure “piatti pignate et scodelle”.

Come si vede una ben magra e malandata dotazione, non certo degna di un’assistenza a misura di uomo nel segno di una pietà cristiana autentica. Tanto è vero che di lì a pochi anni il vescovo nella sua visita applicando fedelmente i dettami del concilio di Trento di cui era sincero sostenitore, evidenzia tutte le pecche della struttura, materiali, amministrative e morali con un occhio, anche se mezzo chiuso, all’igiene e alla salubrità del luogo: mancano lenzuola, coperte, stoviglie, recipienti, perfino l’olio per la lampada. Per questo chiama a contribuire l’amministrazione pubblica e le confraternite. Impone di amministrare in maniera trasparente, diremmo noi, i beni in dotazione.

I beni vi provenivano in genere da donazioni e lasciti pii; a volte si trattava di semplici “piedi” di olive oppure orticelli e cantine che poi venivano opportunamente permutati ricostituendo proprietà più omogenee.

La struttura stessa sta andando in rovina e necessita di riparazioni urgenti e sostanziali: ordina perfino che venga restituita la calce necessaria che era stata stornata a beneficio della chiesa parrocchiale. Ritorna sui priori: insiste sulle loro qualità morali e civili. Da ultimo raccomanda che l’infermiere tratti con ogni riguardo e carità ospiti e malati; dulcis in fundo che donne e uomini dormano … separati.

Mezzo secolo dopo le cose non sono poi cambiate più di tanto: ci sono “tre pagliaricci … tre veste … doi banchi da letto dodeci tavole per li letti, un lenzolo vecchio rotto … un banco da sedere una tavola di castagna, un armario da tenere piatti, una quarta da misurare grano, una quartuccia da misurare grano, una scodella, una cameracanna di canne, una pala di legname, da consegnarsi dette misure e pala a chi si deve per servizio del monte della Pietà… una lucerna da oglio, ventitre canali … un travetto … una caldarella”.

Sappiamo dove era ubicato, sappiamo anche della gestione e i servizi che forniva. Resta da vedere i “reparti” da cui era composto. Resteremmo ancora una volta delusi se ci aspettassimo medicina, ortopedia, otorino e ginecologia, anche se come abbiamo accennato, un minimo di neonatologia doveva pur esserci stato.

L’inventario secentesco cui ci siamo affidati menziona soltanto una stanza “abasso” e un’altra “ad alto dove c’è il granaro con porta et chiave”. In più la “cantina dove stà il pozzo”. Molto probabilmente ci doveva essere qualche altro locale vuoto e chiuso, che il notaio non nomina e che veniva aperto all’occorrenza in caso di necessità montandovi i letti che erano composti di semplici tavole su banchetti.

Per la medicina delle catastrofi, e tali dovevano apparire agli spauriti e inermi nostri antenati le ondate di epidemie di peste del ‘300, fine ‘500 e del ‘600, nonché del colera dell’800, a parte l’indiscussa raccomandazione ai soliti santi, ci si appoggiava alla chiesa di S. Sebastiano fuori le mura.

Per il colera nel 1837 la commissione sanitaria locale individuò, come già è stato scritto, il palazzo del principe Colonna sito tra le chiese di S. Antonio Abate e S. Antonio da Padova.

Tornando al ‘600 questa è la situazione organizzativa: quattro posti letto con lenzuola e coperte, viene finanziato dalla Confraternita di S. Sebastiano con dodici scudi l’anno e all’infermiere si fanno godere i frutti dei terreni di proprietà. Comunque ha bisogno di cure continue esso stesso, finanche imbiancare le stanze e togliere erba ed edera dai muri, e per tutto il secolo le autorità, specialmente il vescovo, continueranno a vigilare insistendo soprattutto sulla sull’ amministrazione e sulla moralità e benevolenza nell’accogliere i bisognosi.

(continua...)
 

4.10.14

 
 

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