S. STEFANO TERRA D’IMMIGRAZIONE |
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di
Vincenzo Tranelli
E’ stato scritto:
"Associare la città all’immigrazione è una banalità. La città non
esisterebbe, non si riprodurrebbe e non si svilupperebbe senza apporti di
popolazione dall’esterno." Vero. Ancor più vero questo assunto ci appare
per Villa Santo Stefano. In altra sede avevamo espresso la convinzione che
l’origine del paese, a differenza di quanto sembrerebbe accaduto per
almeno alcuni di quelli circonvicini, fosse da ricercare in un periodo
collocabile orientativamente verso la fine del primo millennio. L’assoluta
mancanza di qualsiasi anche minima fonte prima del 1125, la denominazione
che ci ricollega a Fossanova, e la presenza all’origine di casati
provenienti da varie località (Leo, Palombo, Toppetta, Rossi, Bianchi,
Alvitano, Da Priverno, Panici …) ci induceva a ritenerlo formatosi dal
convergere quasi contemporaneo di genti, favorito dal clima
particolarmente mite e accogliente. Ce lo conferma anche una certa qual
scarsa coesione, sempre attuale, fra gli abitanti. Avevamo anche dubitato
della sua collocazione originaria nella valle in zona S. Giovanni: ci
appariva infatti senza senso la difformità della denominazione, basata
anche sul travisamento dell’etimologia del toponimo Silvamatrice. La
sensazione è che a partire da ciò ci sia stato un continuo e importante
afflusso dall’esterno, forse alquanto superiore, in proporzione a quanto
verificatosi negli altri centri.
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Panorama inizi '900 |
Un paese senza fabbriche né
industrie, con un’edilizia scadente che ancora in epoca napoleonica non
aveva macello e botteghe; pochi beni urbani e rurali e l’assistenza
sanitaria della popolazione era precaria. Poteva contare su una pianura
fertile, un bosco di castagne e querce e una estesa olivicoltura.
Un’economia chiusa, di autoconsumo, prevalentemente agricola. Limitate le
risorse lavorative e quasi tutte legate alla terra. Osserviamo come la
realtà economica di una comunità siffatta sia legata ad alcuni altri
fattori. Il tipo di domanda che non è soltanto di ordine agroalimentare,
anche se preponderante, ma riguarda tutta una serie di attività che
necessitano in un ambiente rurale (ambiente rurale non coincide con
ambiente agricolo) e legate quindi all’abitazione e alla persona. Proprio
queste, come vedremo, scarseggiavano in paese. Peso importante ha anche il
rapporto natalità-mortalità e la densità di popolazione. "Nel Lazio non
c’era un vero e proprio eccesso di popolazione rispetto alle risorse e
alla superficie. Il territorio della Chiesa era il meno popolato della
penisola". S.Stefano con le sue 1130 rubbie di superficie, aveva tra
l’altro insediamenti rurali con popolazione meno del 2%. Dal XVI al XIX
secolo la densità abitativa oscillerà tra i 2,5 e i 6/Km2. Immaginiamo che
avendo il minor numero di abitanti minore era la possibilità di avere
persone idonee alle varie attività. Imparare un mestiere o una professione
poi costava, e non erano molti quelli che potevano permetterselo; per
giunta non sempre era possibile impararlo tra le mura. Esemplare il caso
di Stefano Tranelli che il 28 ottobre 1745 "…promette di mantenere à
l’arte di ferraro…GioBatta suo fratello in Carpineto per lo spazio di anni
tre ò più e di pagare esso Stefano al maestro che l’impara in detti tre
anni scudi dodici…ed il vestire mentre stà à l’arte si deve spendere
communamente…". Si nota la notevole spesa che richiese la formalizzazione
presso un notaio con il benestare della madre e della sorella dei
contraenti. Oggi la situazione non è molto cambiata: mandiamo i nostri
figli a fare stages all’estero con impegno di notevoli sostanze.
Ci siamo chiesti quali motivi
potevano spingere persone provenienti da luoghi a volte anche molto
lontani a trasferirsi stabilmente per lavorare a S. Stefano,
ricostruendosi in definitiva una nuova vita. Andiamo alla radice.
Tralasciamo la sfera ecclesiastica, quella sanitaria ed elitaria
meritevoli di successivi specifici approfondimenti; la nostra attenzione
sarà rivolta soprattutto al mondo rurale e al lavoro manuale. Una prima
distinzione va fatta tra provenienze da terre lontane e provenienze da
luoghi confinanti e comunque vicini, che evidentemente sottendono
motivazioni e problematiche in buona parte diverse. Al di là di
motivazioni occasionali come potevano essere il capitare in un paese ad
una festa o una fiera per fare acquisti per poi conoscere una donna e
accasarsi o essere chiamati da parenti o amici già abitanti nel paese,
potevano sussistere motivazioni politiche o giudiziarie: il confine con il
regno di Napoli poteva offrire numerose occasioni e possibilità di travaso
per malviventi, renitenti e fuoriusciti politici. Vedremo più avanti gli
effetti di una tale transumanza. Di un certo peso deve essere stato anche
l’orbitare intorno all’ambiente signorile che contava tutta una serie di
funzionari e addetti con numerose propaggini e clientele negli altri
centri per cui si poteva venire per chiamata nominativa. Non c’è comunque
alcun dubbio che per l’una e l’altra categoria di immigrati il
denominatore comune era principalmente d’ordine economico-sociale e
partiva da lontano. Per le genti dello Stato era più facile venire a
conoscenza delle richieste di mercato. Esisteva infatti un ampio movimento
interno di popolazione che nel 1853 risultava di 17.000 unità. Ben diversa
la situazione per gli "esteri". E’ stato scritto: "analizzando i dati
onomastici nei documenti, si scopre un continuo arrivo in S. Stefano di
maestro di mestiere, attirati forse da lavori in corso…" Ma quali lavori
in corso potevano attirare un mastro muratore del milanese? Già negli
ultimi decenni del ‘500 in Europa è in corso una importante trasformazione
economica; per gli strati meno abbienti delle popolazioni inizia un lento
e progressivo decadimento delle condizioni di vita conseguenza
dell’aumento della popolazione. La diminuita produttività delle terre e la
frammentazione della proprietà impediscono un parallelo aumento delle
risorse che divengono insufficienti a sfamare un maggior numero di bocche:
l’aumento della domanda fa così diminuire i salari e aumentare i prezzi. A
questa situazione si cercherà di far fronte estendendo le superfici
coltivabili a spese di quelle alberate, e con l’introduzione di colture
provenienti dal nuovo mondo. La crisi investe di conseguenza anche il
settore artigianale e manifatturiero producendo nel complesso quella che
sarà chiamata la stagnazione del ‘600. In Italia lo sviluppo economico è
frenato da un eccessivo carico fiscale e dal protezionismo delle
corporazioni che rendono il prodotto italiano, pur migliore, non
competitivo, con conseguente calo delle esportazioni. I prodotti esteri,
fabbricati con criteri più moderni e a prezzi più bassi, favoriscono
l‘importazione e ciò si traduce in recessione economica. Nella seconda
metà del ‘700 i prezzi lievitano ulteriormente spingendo alla vendita i
piccoli proprietari e producendo l’espansione del ceto dei salariati a
scapito della piccola proprietà e delle varie forme di contratti agrari.
La proletarizzazione ha luogo anche per gli artigiani, favorita
dall’estinzione delle corporazioni che, se da una parte frenavano la
libertà economica, dall’altra ne tutelavano gli interessi, per cui si
trovano esposti all’azione della concorrenza. Aumentano ovunque i poveri.
In questo contesto il concetto di povertà va interpretato in senso
relativo. E’ stata definita "povertà della crisi" o "povertà
congiunturale" e si riferisce a condizioni di insicurezza e di
sottopagamento, un equilibrio precario che impedisce al lavoratore di
mantenere un livello di vita adeguato nei periodi di crisi: se si
considera che nel ‘600 circa un terzo del reddito di un muratore lombardo
veniva assorbito dall’acquisto di pane scuro, si comprende come il
sopraggiungere di un periodo di crisi potesse comportare una riduzione
drastica del reddito e l’impossibilità al sostentamento in presenza di
aumenti considerevoli dei generi alimentari di prima necessità. E’ quanto
più facilmente poteva accadere a seguito di carestie, guerre ed epidemie.
Di fronte a tali prospettive le strade che si aprivano non erano molte:
intraprendere quella del vagabondaggio e dell’oziosità con la prospettiva
di addentrarsi nel mondo dell’illegalità; molti venduto il poco posseduto
preferivano confluire nel bracciantato. Rimaneva l’emigrazione:
abbandonare il luogo dove si viveva e dove scarseggiava il lavoro poteva
permettere il reperimento di un mercato più favorevole della propria arte
o in ripiego anche una diversa collocazione, richiedendosi in ogni caso
uno sradicamento definitivo. Non che lo stato pontificio stesse molto
meglio rispetto agli altri stati, comunque si riusciva ancora a tenere in
colonia i possedimenti degli enti religiosi e signorili. Resistevano a
lungo l’enfiteusi e in genere i contratti agrari a lungo e lunghissimo
termine. Gli stessi artigiani arrotondavano con il lavoro della terra.
L’artigianato nel circondario di Frosinone si giovava dell’apporto estero,
favorito dalla ricordata bassa densità abitativa: a metà del XIX secolo
viene stimato in 1/12 della popolazione.
Tornando alla realtà
santostefanese, dalla scarna documentazione dei primi secoli (XV, XVI)
poco possiamo ricavare oltre a quanto già accennato e alla presenza di una
comunità probabilmente poco numerosa di israeliti, tradizionalmente
commerciante, dissolta già in epoca rinascimentale, un po’ per
riassorbimento, un po’ per estinzione naturale, e un po’ per emigrazione
forzata: Salemme, Rabini, Simeoni e altri scompaiono dalla scena. E’ il
periodo in cui a S. Stefano la gente comincia a vendere qualche piccolo
appezzamento di terreno per sopravvivere.
Nel ‘600 tra gli altri arrivano i
Fiocco: il capostipite è Urbano. Viene da Carpineto, è falegname e ha il
mestiere nel DNA; darà origine a una stirpe di lavoratori del legno che,
incredibile a dirsi, sopravvive ancora ai giorni nostri. Arriva pure
Donato Carlone calzolaio; suo figlio Biagio sarà notaio addetto
all’archivio comunale; nel 1721 rogherà gli atti testimoniali riguardanti
l’apparizione mariana.
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Panorama da
Sud |
Ma è nel secolo successivo che si
verificherà un vero e proprio afflusso di energie esterne, che continuerà
con buon ritmo nel XIX. Si registra un vero e proprio stuolo di lavoratori
della terra. I registri parrocchiali, nostra principale e a volte unica
fonte, ce li restituiscono spesso con il solo luogo di origine, a volte
mal individuabile, e senza menzione della qualifica, ciò li fa subito
inquadrare come agricoltori. Ne diamo un resoconto parziale: vengono da
Ceccano, Amaseno, Alatri, Collepardo, Pofi, Morolo, Prossedi, Sgurgola,
Castro, Veroli, Strangolagalli ; altri da Policastro, dal Sannio, da Fara
S. Martino, S. Donato e Pastena nel Regno di Napoli. Qualcuno anche dalle
Marche. Tralasciamo per il momento il caso dei vallecorsani che negli
ultimi decenni dell’800 hanno dato origine ad una vera e propria colonia.
Poco il commercio, legato soprattutto alla vendita di olio e altri
prodotti agricoli nei centri maggiori e di alcuni manufatti nelle numerose
fiere. Da fuori arrivano Vincenzo Mancini di Ceccano, dai mille mestieri
che a quello di garzone di mulino, alterna la gestione di una bettola, e
con l’unità d’Italia tre di nome Vincenzo: Martelli un negoziante romano,
Lombardi macellaio di S. Giovanni Incarico e Bernardini pastenese che
aveva aperto una caffetteria. Piccola divagazione: da ragazzo mia nonna
raccontava di zio Gustavo, macellaio di Giuliano di Roma, cugino di sua
suocera, il quale, in un locale di Via Gentili veniva settimanalmente a
vendere una capra negli anni venti del secolo passato, e che decantava la
buona qualità nutritiva delle parti meno pregiate della bestia, come la
coda, considerata la migliore. Altrettanto scarsa la pastorizia: il poco
bestiame per la maggior parte veniva allevato dagli stessi agricoltori nei
propri fondi. Veniva da S. Lorenzo (oggi Amaseno) Paolo Ruggeri che a metà
‘800 teneva in soccida le vaccine di S. Rocco. Per quanto riguarda gli
artigiani e in generale i servizi, il dato riportato nel censimento del
1853, 28 unità, ci sembra sopravvalutato e probabilmente è al lordo di
altre attività. Nei centri rurali minori come il nostro l’attività
manifatturiera è di tipo domestico e artigianale: quella domestica, come
ovunque, è appannaggio delle donne, tessitura e filatura soprattutto, che
vi si dedicano nel tempo restante al di fuori dei lavori di campagna, e
rappresenta un po’ il sommerso, ad uso di famiglia. C’è solo il piccolo
artigiano e un po’ tutti i rami sono rappresentati. Diamo un parziale e
selezionato elenco di quelli forestieri: tra i fabbri Antonio Bonacquisti
di Castro, Antonio Maria Ferrari di Prossedi, Bartolomeo Masi di Ceccano;
tra i muratori Giuseppe Ferrari, Domenico Pifari e Giuseppe Buzzolini
Lombardi,
(quest’ultimo
sarà seguito nel mestiere dai discendenti Carlo e Luigi), Arcangelo
D’Amico dal napoletano; fra i falegnami oltre ai Fiocco, Giacomo, Pasquale
e Basilio Tarquini provenienti da L’Aquila. Un posto a parte a questo
punto merita Vincenzo Baccari (1742?-1828), forse ultimo rappresentante di
una dinastia di scultori del legno di Priverno. Riteniamo quasi certamente
opera sua il coro della chiesa parrocchiale di S. Maria Assunta in Cielo.
E ancora: il carrettiere Giuseppe Bruni di Ceccano; gli scalpellini Giulio
Del Nero di Veroli e Domenico Leonardi di Roma; Luigi Giancarli sarto di
Scapezzano nelle Marche; Andrea e Francesco Lauri calderai di S. Lorenzo;
Giosafat Ercolani segatore delle Marche e Giuseppe Lanzi cavallaro di
Fontana Liri. Alcune categorie sembrano addirittura quasi monopolio di
maestranze forestiere: un corteo quasi ininterrotto di calzolai e
soprattutto di mugnai: sono molti e di tutti conosciamo i nomi e le
provenienze; ultimi i Sarandrea di Collepardo per i quali rimandiamo a un
nostro precedente lavoro. Dulcis in fundo le donne. Rispetto agli uomini
sono una sparuta minoranza, ma le poche sono persone qualificate: a parte
una Marchetti di cui non conosciamo il nome, si annoverano nell’800
Clementina Giorgi, Luisa Salvati e Felice Volponi tutte e tre maestre pie,
le prime due provenienti da Ferentino, la terza da Supino; sempre da
Ferentino proviene Silvina Giorgi, "ostetrica probata" che interrompe la
lunga tradizione di mammane nostrane. Menzioniamo in ultimo una tessitrice
e due "sartrici" nel periodo post-unitario.
Ingiusto ed eccessivo ci sembra il
giudizio che Achille Giorgi dà degli artigiani nel frusinate: "poca o
niuna conoscenza della propria arte […] disabitudine al lavoro e esagerata
pretensione di saper fare". Del tutto opposta la valutazione del Demarco
che li giudica "laboriosi". Del resto era ben nota la perizia e l’alta
specializzazione dei lombardi in campo edilizio, e ciò rafforza la nostra
convinzione che l’apporto dato dalle maestranze forestiere all’economia di
S. Stefano sia stato sostanziale anche dal punto di vista della qualità
della produzione. I periodi di congiuntura facevano si diminuire la
domanda di lavoro, ma notiamo anche una certa flessibilità nel cercare di
compensare le varie esigenze: il fabbro diventa anche chiavaro, il
muratore a volte vetraio. I nuovi arrivati non solo si adattano
all’ambiente integrandosi con esso ma stabiliscono dei legami con il
tessuto sociale e vi interagiscono attivamente creando vincoli familiari e
con le istituzioni sociali del luogo. La maggior parte rimane stabilmente
e mette su famiglia, come Giuseppe Buzzolini, muratore di Covelio che si
sposa nel 1790 e Mattia Castellaro torinese che giunge come gendarme
dell’esercito napoleonico, e per non essere costretto a continuare la
carriera delle armi, si accasa nel 1812 uniformandosi da buon cattolico ai
dettami dello stato ecclesiastico; il figlio, fabbro, morirà eremita
ottantanovenne nella chiesa della Madonna dello Spirito Santo. Giuseppe
Fagioli di Albano Laziale e Giovanni Battista Galeotti, quest’ultimo
ciabattino, ricevono incarichi politici e amministrativi alla
proclamazione della prima repubblica romana. Sono maestranze molto attive
e portano con se un modo nuovo e più dinamico di lavorare come dimostra il
continuo rapporto per molti di loro con le istituzioni pubbliche e
religiose: entrano a far parte di confraternite, prendono in affitto i
beni dei Luoghi Pii come ad esempio Paolo Ruggeri che tiene in soccida le
vaccine di S. Rocco; falegnami, muratori, fabbri ricevono numerosi
incarichi di lavoro, piccoli e grandi, da parte dell’amministrazione
comunale e della chiesa come mastro Pifari a cui il comune affida
l’incarico di ridipingere la chiesa parrocchiale per il prezzo convenuto
di 23 scudi o mastro Arcangelo D‘Amico che tira su nel 1875 il piano
superiore del romitorio annesso alla ricordata chiesa della Madonna dello
Spirito Santo. E’ pur vero che il lavoratore forestiero in paese veniva e
viene ben accolto dalla popolazione, a volte meglio degli autoctoni, per
una sorta di innata apertura alle novità e al diverso, presente tuttora,
che delle attività degli originari tollera meglio quelle delle quali è
difficile fare a meno. Non sempre comunque, come avevamo accennato, i
nostri immigrati erano di specchiate virtù e di onesti costumi: Giuseppe
Lombardi, il macellaio nel 1877 si becca quattro mesi di carcere per aver
ricettato un montone rubato a Prossedi; Giuseppe Abati di Cori, detto l’acquavitaro,
già ospite della galera di Civita Castellana, nel 1876 muore nel carcere
di Paliano; in carcere finiscono pure varie volte il cavallaro Giovanni
Lanzi detto Pronio, ozioso, vagabondo e manutengolo dei briganti e il
ceccanese Vincenzo Mancini che aveva beffeggiato pubblicamente Sua
Santità. Nemmeno Onorio Lanni, contadino di S. Donato Val di Comino era
una mammoletta: manutengolo dei briganti più volte venne torchiato dai
francesi e incarcerato. Quanto a Mariuccia la Pisterzana, di professione
lavandaia, "lo sa solo essa e Cristo" cosa significò fare la spia! Un
breve fuori tema: S. Stefano non ha fatto mancare all’esterno l’apporto di
persone con il proprio bagaglio di competenza e ingegno. La ricerca è
ancora in embrione, almeno la mia. Mi limito a segnalare, al di la di
esempi ben noti, l’attività orafo-argentiera di un ramo della gente
Bonomo: Carmine esercita in S. Lorenzo a cavallo tra il XVIII e il XIX
secolo; quella di Antonio suo figlio risulta l’unica bottega di orafo in
paese nella prima metà dell’800. In Priverno nello stesso secolo c’è
Angelo che viene ricordato per il coinvolgimento in un fatto criminoso,
forse una rapina.
Il razionale di quanto esposto è
il parallelo con la situazione attuale: l’economia dei nostri paesi si
avvale necessariamente di apporti stranieri, specialmente per occupazioni
considerate scomode o poco remunerative che l’italiano ormai cerca di
evitare, attività spesso convenienti come l’impiego di asiatici nella
filiera bufalina (felice e vantaggioso connubio fra fede ed economia) ed
una crescente richiesta di badanti, in buona parte provenienti dall’est
Europa, impiegate nell’assistenza domiciliare di base a disabili ed
anziani, favorito dalla indisponibilità dei membri familiari e dalle
carenze dell’assistenza socio-sanitaria pubblica sul territorio. Il
lavoratore immigrato si segnala per una grande disponibilità e
adattabilità; spesso è fornito di sensibilità, competenza e studi
superiori. L’afflusso è in crescita: nel 2001 a Villa c’erano solo due
rumeni e un albanese residenti. Oggi gli immigrati sono oltre sessanta con
sostenuta rappresentanza femminile; provengono anche dal sud-est asiatico
e dal sud America ma prevalgono i magrebini e gli europei dell’est.
Sembrano bastevolmente inseriti. Ma attenzione ultimamente c’è un rebound
delle italiane. Meditate gente, meditate!
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