Convegno  "LA PANARDA , TRA STORIA E DEVOZIONE"

Villa Santo Stefano (FR) – Sala Consiliare - 13 agosto 2008

Cibi e riti, tra Santi e mostri, dei e morti.

Buonasera a tutti,

ringrazio il Sindaco Enrica Iorio, il consigliere con delega alla cultura Alessandra Leo,e gli altri organizzatori per avermi invitato a questo interessante convegno. E un onore ed una emozione, in quanto si sta parlando di una tematica profondamente radicata nel cuore e nell'animo di tutti i santostefanesi. Qualcosa che ha a che fare con le stesse radici di una comunità, con il senso di appartenenza del singolo. E si sa, senza radici non si va da nessuna parte.

Pertanto è con una sorta di timore reverenziale, che mi accingo ad illustrare l'argomento del mio breve intervento. Timore reverenziale, decisamente aumentato dopo aver ascoltato i notevoli interventi degli illustri relatori che mi hanno preceduto.

Quanto ho appena appreso con interesse non ha fatto altro che confermare alcuni ragionamenti, ipotesi ed idee, suscitatemi, nel corso degli anni, mano a mano che mi imbattevo, magari casualmente o per meri motivi di svago, in rappresentazioni di antichi riti alimentari. Localizzati, qua e là, in giro per il nostro splendido Paese.

Ed è proprio di questo che desidero parlare, ovvero la sopravvivenza, vedremo in quale maniera e misura di usanze, cerimonie, liturgie, che in qualche modo sono riconducibili all'archetipo, che sottende anche "La Panarda", sebbene, sia chiaro, questo termine non sia assolutamente riscontrabile in tali cerimonie.

Se il nome proprio è diverso, oppure non esiste proprio, le motivazioni ed origini di determinati comportamenti, pur modificatesi a seconda dei Tempi e dei luoghi, sono certamente di carattere universale. Proprie dell'intero genere umano. Se non riusciamo a percepire i fili invisibili che le legano, è semplicemente perché abbiamo perduto la chiave di lettura.

Non sono un antropologo e non mi inoltrerò in questa affascinante scienza. Più semplicemente sono uno che ha girato molto, con curiosità, e cercando sempre di capire, comprendere, quello che vedevo. Soprattutto se si trattava, e si tratta, di espressioni dirette, prove tangibili, di tradizioni popolari ed etniche che sorgono direttamente dagli abissi del tempo. Documentandomi verificando, parlando con gli stessi protagonisti. Con coloro che ancora le vivono, perpetuandole.

Il mio intento, in questa sede, è quello di porre l'attenzione su tre riti alimentari, qualcuno sarà sicuramente noto alla platea, diversi per collocazione geografica, per origine temporale e per forma di sopravvivenza attuale.

Spero con questo, di offrire, magari, spunti per nuove ricerche e comparazioni. A volte per conoscere meglio noi stessi, per sapere chi siamo, da dove veniamo, dobbiamo rifletterci negli altri. Confrontarci con l'altro che vediamo in un immaginario specchio. Stiamone certi che troveremo più similitudini che differenze.

Un giorno A. de Saint Euxpery disse che "la distanza non significa lontananza. Paradossalmente possono esserci più segreti e misteri nel nostro giardino di casa che sotto la Muraglia Cinese".

NEL GIORNO DI SAN GIULIO SULL'ISOLA DI SAN GIULIO

C’era una volta un lago ai piedi delle Alpi. Ed al suo centro un isoletta che godeva di trista fama. In quanto era invasa da spaventosi mostri e velenosi rettili. Un giorno vi giunse un sant’uomo che venuto a conoscenza della situazione decise di liberarla da tanto orrore. Disteso il proprio mantello da pellegrino sulle acque del lago, vi salì sopra e miracolosamente, questo lo condusse sino alle spiagge infestate. Qui gettando dei pani ai serpenti ed agli altri poco simpatici abitatori, li convinse a lasciare per sempre quel lembo di terra emersa.

Non è l’incipit di una fiaba, ma la leggenda, poi ripresa da vari racconti agiografici, dell’arrivo sulle rive del Cusio di San Giulio e della liberazione dell’Isola, che da lui prenderà il nome, posta in mezzo la Lago d’Orta.

Il racconto della cacciata degli immondi rettili con l’escamotage dei pani non è altro che un allegorie dell’Evangelizzazione del Cusio mediante l’Eucarestia. L’antico lago glaciale prealpino, fu davvero raggiunto nel IV secolo da due fratelli greci, Giuliano e Giulio. Provenivano dalla nativa isola di Egina, nell’omonimo golfo tra Attica ed Argolide. Erano sbarcati in Puglia, avevano risalito l’Italia Meridionale, attraversato il Basso Lazio ed erano stati ricevuti dal papa a Roma. Durante il lungo viaggio avevano fondato 99 chiese. La centesima venne eretta sull’isoaletta del Lago d’Orta. Dopo, beninteso, averne sfrattato mostriciattoli ed altre creature non certamente amabili. Nella Sacrestia della romanica Cattedrale dell’isola, si conserva ancora la vertebra di una di queste. La spaventosa Orchera. Trattasi, in realtà, del fossile di qualche animale preistorico.

In ricordo dell’esorcismo del Santo, ancora oggi, in quello scrigno di arte, storia, leggende e Fede, che è diventata l’isola di San Giulio, nel giorno di San Giulio, il 31 gennaio, vengono distribuiti e consumati i "pani di San Giulio". Delle focaccine dolci di farina bianca, preparate dalle Monache che vivono nel Convento insulare.

E’ antica tradizione consumarli sui prati o sui "sabbioni", l’approdo all’isola. Un rito devozionale collettivo, che adombra le "agape" dei primi cristiani. Come erano appunto, San Giulio ed il fratello Giuliano.

ECHI MEDITERRANEI NELLE FAVE TRIESTINE

Certamente, oggi, con questo caldo è un po' difficile immedesimarsi nell'atmosfera giusta. Ma cerchiamo, comunque, di immaginarci una città avvolta nel manto di un autunno inoltrato. Alberi spogli, persone imbacuccate in giacconi e cappotti, giornate che si accorciano sempre più, spesso una pioggia insistente e fastidiosa, e, soprattutto, refoli di un vento freddo ed impetuoso; la Bora. Siamo a Trieste attorno al giorno dei morti, il 2 novembre. I Triestini entrano ed escono da panetterie e pasticcerie (alcune figurano tra i locali storici d'Italia) con dei sacchetti di carta in mano. Dai quali, camminando, estraggono alcuni piccoli dolcetti di colore marrone, rosa e bianco. Che poi assaporano con soddisfazione.

Una dolce tradizione locale le cui radici si perdono nell'humus culturale e rituale di epoche e luoghi così lontani dalla città adriatica, di cui è rimasta traccia soltanto nei libri di storia.

Il dolcetto rotondo che nessun triestino mancherebbe mai di assaggiare in quel periodo dell'anno, sono le cosiddette "Fave dei morti" o "Fave Triestine".

"Queste pastine" spiega l'Artusi nel suo fondamentale "La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene" "sogliono farsi per la commemorazione dei morti e tengono luogo nella fava baggiana, mossia d'orto. Tale usanza deve avere la sua matrice nell'antichità più remota, poiché la fava si offriva alle Parche, ad Ade e Persefone…"

Ingredienti:

  • 250 gr. di mandorle pelate,

  • 125 gr. Di farina

  • 3 chiare d'uovo grandi,

  • 250 gr. di zucchero,

  • vaniglia,

  • 1 bicchierino di rosolio bianco,

  • qualche goccia di olio di orse o acqua di rose,

  • 1 bicchierino di alchermes,

  • 50 gr. di polvere di cacao.

Come lascia intendere acutamente l'Artusi, la fave erano un cibo offerto e consumato in occasione di riti legati alle divinità dell'Oltretomba. Si riteneva che potessero mettere in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti. Tale credenza, presente in quasi tutte le civiltà che si sono affacciate la Mediterraneo, ma riscontrabili anche altrove, ad esempio in India e nell'America Andina, trova, forse, adentellati nel fatto che il legume possiede delle radici lunghissime, che scendono in profondità nel terreno. Quindi sino ai mondi sotterranei, dimora di divinità ctonie. Che si adoravano in grotte, caverne e anfratti. Nelle quali si tenevano sacre libagioni comuni.

Inoltre, alcuni studiosi hanno ipotizzato che ci sia stato anche il concorso dell'aspetto del fiore della fava. Bianco con macchie nere. Colore piuttosto raro nel mondo vegetale. La forma di queste macchie ricorda la "T" greca. Il "Tau". Iniziale della parola "Tanatos". Morte.

Accostamento, quello tra i cibi e cerimonie religiose, funebri o no, presente in tutto il mondo ed antico come l'Uomo stesso. Riti che si trasferirono poi alle divinità Olimpiche.

Con l'affermazione del Cristianesimo, i convivi a memoria dell'Ultima Cena e dell'istituzione dell'Eucarestia, primi tenuti nelle Catacombe, si prese a svolgerli dentro le stesse chiese o i cimiteri.

Più comunione con i defunti di così !!

Attorno all'Anno Mille, la Chiesa iniziò a proibire simili eventi (così come vietò qualsiasi altra manifestazione laica, come processi, assemblee comunali ecc.) nei luoghi sacri,. Ma non sempre vennero rispettate le proibizioni. Si ha notizia, nel 1270 in Piemonte, di una disposizione del Vescovo di Torino Goffredo di Montanaro, volta a far cessare la "vergognosa pratica" di tenere nelle chiese balli, giochi o conviti disonesti. Eufemismo per indicare vere e proprie orge alimentari e non solo.

Eppure, ancora nel XVI secolo, a Novara, in occasione della Pentecoste si allestivano lauti banchetti in ambitu ecclesiarum.

Sia per la Pentecoste che per il giorno dei defunti, sempre in Piemonte, è attestata (almeno sin dal XV secolo) l'uso di distribuire legumi (minestre e pani) ai poveri per poi consumarli tutti assieme fraternamente. In molte località delle Alpi, si usa ancora oggi per feste nuziali, spezzare il "pane dell'amicizia". In molti casi accompagnato da contorni di verdure e legumi freschi.

Ci sarebbero tantissimi altri esempi da citare, in relazione alla preparazione e distribuzione di alimenti a base di cereali e legumi in occasione di ricorrenze sacre o devozionali. Ma si rischierebbe di esulare dallo scopo principale di questa trattazione. Che è quello di lanciare alcuni spunti per ulteriori, eventuali, ricerche. Inoltre si annoierebbe il pubblico.

Tornando ai legumi e, soprattutto, alle fave triestine. Oggi, sebbene un vecchio adagio della città con l'Alabarda, recita "Chi magna solo, mori solo", è difficile che il consumo dei dolcetti avvenga in ambito conviviale. Al massimo come dessert dopo un pranzo. Ma regalarne un sacchetto ad una persona cara o portarle come "presente" quando si è invitati a casa di qualcuno, è sempre particolarmente gradito ed apprezzato.

LA ZUPPA DI ZUPPA CON PANE

Esiste nella lingua tedesca un termine ormai desuete. Che non si trova in tutti i dizionari. Utilizzato soprattutto nell'aree germanofone un tempo facenti parte dell'Impero Asburgico. Die Panade. Sostantivo femminile.

Significherebbe in italiano una particolare "zuppa con pane". Suppe mit brot. Recitano i vocabolari della lingue di Goethe.

Oggi è più facile trovare questo termine facente parte di un parola composita. Die Panadelsuppe. Letteralmente Zuppa di zuppa con pane.

Questo lemma è sorto forse dal fatto che siccome nessuno ricordava più che cosa significasse, è stato necessario aggiungere il vocabolo "zuppa".

L'aspetto curioso è che, pare, ma sarebbero necessari ulteriori ed approfondite ricerche, che tale pietanza, a base di cereali e legumi, presente ad esempio sulle tavole del Tirolo o del Voralberg, un tempo venisse mangiata da un unico recipiente (un specie di "spasa" per intenderci), nell'ambito di riunioni familiari legate a particolari ricorrenze anche religiose. Ma soprattutto nascite, matrimoni e decessi.

Ma se i tedeschi nei loro dizionari, spiegano Die Panade come "Zuppa con pane", (attenzione, "con" e non "di pane"), il termine si può tradurre anche con la parola italiana "Panada". O meglio presente in alcune regioni italiane.

In Sardegna la "Panada" è una sorta di torta salata con un ricco ripieno.

Ma è Piemonte, nel Bresciano e nel Trentino occidentale, che la parola indica qualcosa di molto simile alla Die Panade tedesca ed alla nostra "Panarda".

In Piemonte è una minestra di pane sminuzzato e cotto nel brodo. Sulle montagne bresciane e su quelle confinanti dell'area del Brenta e della Paganella, se la ordinassimo in un ristorante o trattoria tipica, ci troveremmo davanti un piatto fumante di minestrone o brodo di pane con qualche legume.

Non risulta che il piatto sia legato a particolari riti o ricorrenze. Ma potrebbero semplicemente essere state dimenticate nel corso dei secoli.

Con la "Panada", mi avvio a concludere il mio intervento. Rimane il tempo per un ultima considerazione. Questi esempi di cibi associati a ricorrenze religiose o devozionali, pur bene o male sopravvissuti, hanno perso la peculiare caratteristica di momento comunitario, conviviale. Proprio ciò di cui si avrebbe bisogno in un mondo sempre più individualista.

Ebbene, questo assunto dovrebbe far riflettere sull'importanza che la "Panarda" di Villa Santo Stefano, sopravviva così com'è. Continuando a perpetuare un antichissima tradizione. Che altrove, come si è visto, è scomparsa.

E' questo il compito che attende i santostefanesi, soprattutto i più giovani. Compito arduo. Fare in modo che le generazioni future possano ancora gridare "Viva San Rocco", vegliare un notte intera attorno alle "callare", vedere i "panardari" sfrecciare tra le viuzze del paese ed attenderli a casa per poi assaggiare con devozione i ceci benedetti.

Grazie.

Giancarlo Pavat

 

Convegno  "LA PANARDA , TRA STORIA E DEVOZIONE"

 

www.villasantostefano.com

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