Il bandito Bartolomeo Vallante, detto Catena, a Santo Stefano |Il breve di papa Clemente VIII | I banditi Giovan Antonio di Sebastiano e Antonio di Casalvieri | Il bandito Teodoro di S. Stefano | Giulio e Cola Marcocci di S. Stefano | La banda di Tiberio Aquillatti, detto fra Paolo. | Genti armate in S. Lorenzo e S. Stefano e l’omicidio di Giovan Battista Frasonetti di Pofi | L’esecuzione del bandito Federico d’Annibale di Castro | L’uccisione del bandito Domenico Pisterzo di Santo Stefano | Banditi condannati alla catena nella fortezza di Paliano | Nota delle condannate in S. Michele a Ripa dalla Curia Baronale delli Feudi dell’Ecc.ma Casa Colonna. |
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Il fenomeno del banditismo è antico quanto l’uomo e le cause, che ne hanno determinato il fenomeno nel corso dei secoli, sono state le più varie. Nel Cinquecento e nel Seicento coloro che non potevano pagare le numerose ed esose gabelle, per sfuggire all’arresto, si davano alla macchia, con la conseguenza di venire dichiarati banditi e i loro beni venivano confiscati. I poveri malcapitati per sopravvivere spesso commettevano svariati delitti tanto da venir condannati in contumacia dai vari tribunali feudali o ecclesiastici. Nei casi di crassazioni od omicidi l’accusato in contumacia diventava bandito capitale e meritava la morte. I fuorusciti erano coloro che, per aver commesso determinati crimini, venivano cacciati dalle proprie comunità e trovavano rifugio in altri luoghi e spesso in altri stati. Si diventava briganti quando, essendo stati dichiarati banditi o fuorusciti, si mettevano in comune, e alla guida di un capo formavano vere compagnie, talvolta di mille e più persone, che diventavano, per le loro malefatte, il terrore dei paesi e delle città. Nello Stato Pontificio il fenomeno del banditismo e del brigantaggio nel Cinquecento aveva acquistato una forma endemica tanto che il papa Pio V si vide costretto ad emanare varie bolle.
Nell’archivio Colonna esiste il seguente:
Sommario di quello si contiene nelle Bolle di N. S. Papa Pio Quinto publicate contra gl’homicidi, banditi, et altri scelerati, et loro Recettatori, confirmatorie, et innovatorie di molte altre de suoi Predecessori. In primis che tutti quelli condennati per homicidio, o banditi non posseno stare nella Città, o nel distretto, donde sono banditi, ancora che habbiano la pace dagli heredi, o parenti del morto: Ne qualunque Legato, o Governatore possa rimettere detti homicidi, ne concedergli licentie, o salvo condutto, ne anco de uno giorno sotto pena di excommunicatione, da la quale nisuno possa essere assoluto, se non dal Somo Pontefice: Et se si farà altrimenti, tutto sia nullo, et il contrafaciente incorra ancora la pena di mille ducati d’oro di Camera, d’applicarsi subito alla detta Camera e che il delinquente si debba pigliare, et incarcerare et farsene iustitia per l’offitiale secondo la sentenza data contra di lui senza più ratificarlo, ne altra requisitione di altro superiore sotto pena di ducento ducati simili d’aplicarsi alla prefata Camera. Item che tutte l’appellationi, cho fatte dele sentenze, et facessi contra detti homicidi ancora che uscissero dall’Auditore della Camera, o qualsivoglia altro Iudice e ordinario o delegato siano nulle et involute, ma che si possa però nei casi permessi dalla ragione, o statuto, appellare al Governatore della Città o Provincia. Item che tutti li banditi per omicidij, s’intendano banditi da tutti i luochi circonvicini a cinquanta miglia fra li quali se saranno trovati, si possino e debbano esseguire contra di loro le sentenze capitali, et le condannationi pecuniarie dalli ministri della iustitia. Item che tutti quelli, che saranno infamati di homicidio, o condanati, ancora che per la forma del Statuto non si possi far inquisitione, o punirli, se ben fusse ottenuta la reccissione da ualsivoglia superiore, ancora dal Pontefice Romano, non possano avere uffitij, avere honori in qualunche Città, o Terre, da le quali saranno banditi, ma siano perpetuamente infami, et privati d’ogni ufficio, et dignità, ne possano far testimonio, ne exercitar ufficio di notario, ne si debbano admettere a giudicare, ne esercitare altro ufficio, et siano in perpetuo suspesi da ogni atto legittimo.
Da Marino, il 2 marzo del 1541 il principe Ascanio Colonna, costretto a reclutare nuove truppe, a causa del conflitto scoppiato nel 1539 tra il papa Paolo III e i Colonna, nella così detta " Guerra del sale", ordinò a Gerolamo e Camillo di emanare un bando concedente il condono per i fuorusciti che si sarebbero arruolati nelle sue truppe. Eccone il testo: "Hieronimo et Camillo, Fate mandar un bando per tutte queste terre mie che ognuno fuoruscito sia remesso et perdonato et absoluto tornando per tutto il presente mese de Marzo alla presentia mia, et li saranno restituite tutte le robbe confiscate, altramente si buttaranno le case pefr terra. Item et chi fusse fuora et non torna per il detto mese alli servitij nostri et della sua patrina, sia rebelle et Privato de tutti suoi beni et li sia buttata la casa. Marini 2 Martij 1541 Ascanio Colonna"
Purtroppo la guerra terminò con la sconfitta dei Colonna per opera di Pierluigi Farnese, nipote del papa, che riuscì ad occupare Rocca di Papa e Paliano. I Colonna furono banditi dallo Stato Pontificio e i loro trentacinque feudi, il 27 maggio del 1539, ricaddero sotto il dominio della Camera Apostolica.
Il bandito Bartolomeo Vallante, detto Catena, a Santo Stefano Di questo feroce bandito monticiano, ne ha parlato, in una bella monografia edita dall’amministrazione di Monte S. Giovanni Campamo, il prof. Fulgido Velocci, alla quale rimando. Qui mettiamo solamente alcuni documenti da me ritrovati dopo l’uscita della suddetta opera. Dal Registro di patenti degli anni 1588-1589, redatto dal Luogotenente degli Stati di Campagna, Giacomo Capozio, troviamo: "Santo Stefano C’è adviso dal offitiale di Santo Stefano ch’alli 4 di ottobre habbiano havuta una lettera di Catena del tenor seguente, con dir che alcuni giorni avanti Catena haveva ammazzato un giovane di quella terra, tagliato a pezzi et haveva ammazzato anco 200 altre capre dell’Arciprete di Santo Stefano et questo giovane sotto pretesto che fusse suo nepote, lo tenor della lettera di Catena, Catena famosissimo Capo de banditi et Re della campagna, fa intender a qualsivoglia la presente legerà ò farà leggere qualmente essendo l’Orso similmente Capo de banditi, tradito da quel principe de traditori, sacco di corna Marco toppetta di Santo Stefano suo compare ha voluto e vole per esserli stato buono, fidele, vero compagno et Amico, et piu che fratello di lui far vendetta sicome conviene ad uno fratello et par suo onde per aver trovato il Nepote di detto Marco toppetta re de cornuti, et de traditori ha voluto secondo se li occorreva darli morte a detto Nepote di quello traditore, et à certe sue capre che custodeva, et questo per le cause presente avertendo tutte persone di qualsivoglia stato, grado, ò conditione se sia non arrischino ne presumino dare aiuto ne favor à quello traditor ne à suoi parenti sino in quinto grado sotto pena d’esser tagliati a pezzi come è costituito far di lui et di tutti suoi parenti sino in quinto grado, significando ancora à Camerlenghi, Sindici et eletti nella terra di Santo Stefano vogliano à furia di populo il detto Marco toppetta suo fratello moglie et figlioli cavarli di detta terra acciò non sia causa de succederci inimicizia et scandolo, et interesse commune, sicome del continuo si vede esperientia, che per un simile traditor patiscano cento galanti homini, et di questo ne potrete far significato l’Il.mo Signor padrone, et pregarlo si dia conto della ruina di tutti l’altri vassalli, al che all’ultimo diamo il remedio, gli parerà, che la determinazioni del prefato S. Catena et seguaci è di stricar simili traditori et suoi consanguinei ut diximus usque ad quintum gradum, etc. dictum sapienti sat est factum Valete". Durante il soggiorno in Santo Stefano il Catena, come risulta dagli Atti del processo, venne ospitato dai santostefanesi Giovanni di Peccio, da un certo Straccia Velluto e dal notaio Berardino. Per fortuna dei santostefanesi il Catena verrà catturato Il 25 novembre del 1580 e giustiziato in Roma l’11 gennaio del 1581. Intanto, nei territori Colonna scorrazzano i famosi banditi Marco Sciarra, Battistella e Pacchiarotto, seminando terrore e morte. Il 30 aprile del 1592 l’Intendente di Giuliano, Giovanni Felice, così scrive all’Intendente dell’Uditore di Genazzano: "Questi nostri giovani essendo andati alla busca dopo che se sentì che li banditi erano fuggiti, riportarono qui doi di detti banditi che li trovarono per le campagna, uno è d’Alatro, che dice essersi accompagnato con detti banditi a Santo Stefano, che lo menarono per forza il che non poté stare perché andava alla libera, l’altro è d’Acciano del contado dell’Aquila che dice retroverse con li banditi di Marco di Sciarra tre mesi sono, mette scusa che fu preso per ricattarlo, ma che se n’è andato poi con loro, io n’ho scritto al signor Commissario di S.E. et fin hora non ho risposta, mi è parso scriverne anco a V.S. et avvisar di questa a quanto sarà da fare, perché io li faccio guardar da questi che li hanno presi, atteso che pretendono la taglia conforme alli banni di N.S. et li raccomando a V.S.I. che li favorisca a conseguire questa taglia. In ioltre scrissi a V.S.E. che Angelo Leo di Santo Stefano era comparso qui da me, et querelasse contra di Romiforo, che li havesse pigliata una cavalla che li banditi li havevano data in scambio delle sue feste, Io non ho mancato fare sapere a tutte due le parti che producessero le loro ragioni conforme all’ordine di V.S.I. et in questo pendendo così la causa in questo tribunale essendo andato il Romiforo in Santo Stefano per soi negotij Giorgio de Vico capitano là lo ha carcerato per causa di detta cavalla, io gli scrissi che lo dovesse relassare tentandosi il giuditio qui conformi altri protesti in la lettera, che non doveva perseguitar in questo modo, et lui non solo non ha curato di volerlo rilassare, ma neppure mi ha voluto rescrivere, et dal messo me fu referito che disse di molte brutte parole, che non se convengono a chi governa, et questa mattina io ho fatto ritenere uno di Santo Stefano, et fatto sapere a Giorgio de Vico, che poi che lui ha convenuto a usare simili termini da noi si farà il simile, ho risoluto farlo sapere a V.S.I. acciò comandi quel che havrò da fare, et parendole voglia scrivere a detto Giorgio, che voglia relassare il Romifero". Ancora da Giuliano il 13 maggio viene inviata la seguente lettera all’erario Francesco Giuglio, in Genazzano: "Se manda anco la cavalla de Marcio de Sciarra presa da Romifero de qui in territorio di Santo Stefano, s’è presentata la sera al capitano di detto luogo et non s’è fatto nulla et dice che non relasserà mai lo preggione se non se li restituirà detta cavalla allegando haver provato il possesso d’essa poi la partita de i banditi, devo raccomandare a V.E. molto Ill.ma per mio debito come fra li predetti n° Bernardino et Stecurta che per non essere venuti non n’è causata la disobbedienza ma il travaglio grande che de qui ha dato Marco de Sciarra come al presente danno l’altri banditi certo non se pole oscire la porta di questo luogo, ho cercato se queste genti havessero avute altre cavalle de banditi et ne ho fatto buttare anco il bando non ritrovo altre cavalle di questa, il preggione di Santo Stefano in questa corte carcerato per ordine di ms. Lucio Felice mio substituto fu scarcerato per ordine mio poiché era ritenuto senza causa, et se il capitano del medesmo luogo riteneva indifeso indebitamente non m’pè parso incorrere in simile errore".
Il breve di papa Clemente VIII Al fine di porre rimedio al dilagare del fenomeno del banditismo, papa Clemente VIII, con breve datato Roma 3 novembre 1592, indirizzato ai cardinali Antonio Maria Salviato, a Mariano di Camerino e ad Alessandro Montalto, concede loro la facoltà di poter assolvere i ricettatori, i banditi, i sicari e gli altri criminali dello stato ecclesiastico, dietro composizione dei reati. Ma tale tentativo non fermò il dilagare della delinquenza nello Stato Pontificio e il papa si vide costretto a nominare Flaminio Delfini colonnello generale e capo per la repressione del banditismo. Da Roma, Giovan Francesco Aldobrandini, Governatore Generale, in data 1° marzo 1593, indirizza a Flaminio Delfini, il seguente scritto: "Gio: Francesco Altobrandini Governatore Generale dell’Arme di Santa Chiesa, Governatrore di Borgo, et Capitano Generale dell’una et l’altra guardia di N.S. Se ben con altre nostre patenti confidati nell’esperienza fede et valore di Voi signor Flaminio Delfini, vi habbiamo deputato Colonnello generale et capo alla persecuzione di banditi con amplissima autorità la quale lasciamo nel suo vigore, tuttavia perché con altre maggiori facultà possiate tanto meglio, nella presente occasione di ritornar poi alla detta persecuzione per il servitio della Santità di Nostro Signore contra questi ribaldi et assassini di strada et altre genti di mala vita, et perturbatori della quiete dello stato ecclesiastico. In virtù delle facultà a noi concesse di Sri Rmi come per suoi brevi sotto li 13 et 17 di aprile 1592 et confermati sotto li 22 di gennaro 1593; Aggiungemo alla detta autorità di poter liberamente comandare per questio servitio non solo a tutti li soldati così a piedi come a cavallo, et tanto stipendiati come delle militie ordinarie, et a Colonnelli, Capitani et altri officiali che vi assistano, et siano pronti et obedienti in quello ordinarete, ma a governatori in colegate parte piciari comunità mastri de porte duchi baroni et altri signori feudatari jet huomini particolari, mediate et immediate sogetti, et così a bargelli et sbirri, et altri ministri di giustitia et di poter far castigare et procedere contro quelli che fossero disubbidienti, o fautori et ricettatori de banditi a quelle pene che vi pareranno più pertinenti fino alla vita inclusivamente dandovi in tal caso tutta quella autorità che habbiamo noi; volendo che per questo effetto possiate deputare. Et conchorsi con esso voi, et commissario et sbirri con tutta la autorità che se recerca, acciò che possa eseguire interamente gli ordini nostri. Vogliamo anco che detto commissario porti seco denari per spendere secondo il bisogno, et ordine da dar solo da voi per servitio dell’Impresa, de quali egli sia po tenuto darne conto, et che possiate in conformità delle sodette nostre facultà prometter taglie a chi facesse tale effetto contro detti banditi, et che siano pagati prontamente da Mons. Ill.mo Tesoriere Generale secondo la mente di Nostro Signore de più che possiate trattare et far trattare con banditi sempre che occorresse per cose appartenenti al servitio senza incorso di pena alcuna et perché dalle bona mente di luoghi come dissidio si faccia difficoltà nelle spese da farsi per servitio di detta persecuzione di banditi; Dechiariamo che N.S. non intende che osti la bolla ultimamente fatta de bono regimine, ma che s’habbiano a fare prontamente con intervento dei governatori delle provincie, o luoghi, li quali siano tenuti subito che saranno fatte dette spese darne conto in Roma alli signori superiori Intendendo che alli soldati che serviranno a detta incombenza somministrate le vettuaglie a prezzi modesti et gli sianop dati allovggio subito con letti et massaritie et alle truppe prestar cavalli gratis, et quando a detti soldati, o qualche regimento facesse bisogno di fermarsi il quel tal loco in tal caso le spese vadino in comune con l’altre città, terre, et luoghi della provincia compartitamente, et tanto comandiamo che s’eseguischio per l’autorità datami da N.S. per li sodetti brevi quali per maggior validità et fermezza delle sodette cose v ogliamo che s’habbiano qui per espressi, et per quello che potesse nascer di dubbio per l’effettuatione delle sudette cose vogliamo che se remetta sll’srbitrio nostro, et che de più posiate visitare terre et altri luoghi, come fosse sospetto di ricattatorie, o ridotto di robbe di banditi; et che sia servitio sia di qualsivoglia stato, o conditione habbi da esser pronto alla giustitia che farrete sopra di ciò, procedendo contra li disubbedienti, et trasgressori a pene rigorose come di sopra et in fede. Dato a Roma il primo di marzo 1593. Gio: Francesco Altobrandini Generale Locus + signi Cesar Lutij secretario". Con l’arrivo dei soldati le comunità sono costrette a sopportarne i costi e le malefatte.
I banditi Giovan Antonio di Sebastiano e Antonio di Casalvieri Dei suddetti banditi traiamo notizie dalla seguente lettera dell’Uditore Favonio Senno, inviata da Castro al principe Colonna, in data 18 dicembre 1614: "Illustrissimo et eccellentissimo signor Padrone mio sempre colendissimo. Lunedi passato 15 del presente furno banditi alla pena della vita, et confiscatione de beni Giovan Antonio di Sebastiano, et Antonio di Casalivieri per l’homicidio commesso in persona di Francesco di Bauco di Santo Stefano; Il martedi seguente Domenico Felice mandatario di quella terra mi presentò la testa dell’Antonio di Casalivieri, che l’haveva fatta quella notte, havendone hauta notizia che stava in una pagliare, lontano dalla terra d’un miglio, et mezzo in circa, in loco detto lo cerqueto et non pottendolo haver vivo se resolse di ammazzarlo, et fare la testa, ne ho fatta fare la debita recognitione, et per che con il detto Antonio ce stava Domenico Narduccio garzone dell’Alfiero di Santo Stefano, et un altro giovane pastore garzone de Giovan Pietro Tambuccio, fece il capiatur; Domenico non s’è ancora hauto in mano, et l’altro pastore se retrova carcerato, se tira avanti la causa, et da mano, a mano darò più piena informatione a V. Eccellenza, alla quale fo reverenza, et li supplico ogni felicità desiata".
Il bandito Teodoro di S. Stefano Teodoro di S. Stefano, resosi responsabile di vari reati, una volta preso, fu portato nella fortezza di Paliano, ma qui, rompendo una muraglia, riuscì a fuggire. Fu catturato presso Prossedi, come si evince da una lettera del governatore locale Claudio Minorio, in data 30 settembre 1617, indirizzata al principe Colonna.
Giulio e Cola Marcocci di S. Stefano Da una lettera scritta dal principe all’Uditore di Genazzano, il 14 luglio del 1619, apprendiamo dell’uccisione di Rosato Manno di Vico, nel territorio di S. Stefano, da parte dei santostefanesi Giulio e Cola Marcocci, abitanti in S. Lorenzo.
La banda di Tiberio Aquillatti, detto fra Paolo. Il bandito capitale, Tiberio Aquillatti, o Squilletti, detto fra Paolo, proveniva dal Regno e assieme a malviventi di Giuliano e di altri luoghi, operava nel 1633 in Giuliano, S. Stefano e S. Lorenzo, spesso aiutata dai locali abitanti, era composta di dieci persone e trovava rifugio alla Lucerna ed al Monte delle Fate, quindi si portarono verso la spiaggia di Nettuno, per far ritorno poi nel territorio di Giuliano, dove si accamparono alla Torre della Pigna, ricevendo il vitto da una sorella di un certo Tozzo. Per la cattura di questi furono inviati trenta soldati armati di archibugi e pugnali. Il 3 settembre del 1633, da monte Rotondo, fra Paolo, invia, per mezzo di Pomponio Mondo di Sonnino, una lettera al vice principe, nella quale dichiara di voler ammazzare i pastori di Sonnino con le loro bestie, ed altre genti del luogo. Il 5 ottobre, del medesimo anno, fra Paolo, assieme ad altri cinque suoi uomini, tutti ben armati, si presentarono, nei pressi della Valle del Ceraso, tra Sonnino, S. Lorenzo e Monticelli, fermando Liberante d’Aristotele, capraro di Sonnino che custodiva le capre assieme al figlio ed al garzone e gli intimarono di portare una lettera a Giovan Battista Colacchino in Sperlonga, ma avendo il capraro rifiutato di portare a mano la lettera gli fu detto di dire al Colacchino di mandare scudi 200, sotto pena di morte per lui, le sue bestie e le sue genti. Ma Liberante nella mezzanote del sei si porta alla Corte di Sonnino, dove riferisce tutto, quindi si portò nella Serra del Ficchio, territorio di S. Lorenzo, dove nel frattempo aveva trovato rifugio fra Paolo. Vedendolo senza soldi il bandito si alterò molto con il capraro, minacciandolo se avesse parlato. Portatosi alla Lucerna fra Paolo ferma il corriere postale e gli fa portare un quarto di vitella, ammazzata nel territorio di Roccasecca, per darla ai compagni accampati vicino a Pisterzo, quindi prosegue con la banda per Pontecorvo con l’intenzione di rifugiarsi nelle Puglie, sebbene il vice principe sospetti che sia una finzione. Nel novembre del medesimo hanno la banda di fra Paolo imperversa in Giuliano e terre vicine tanto che si mandano sul posto numerosi soldati, come si evince dalla corrispondenza della Sgurgola inviata al principe Colonna dal locale governatore Giovanni Domenico Graziani che ne fa una dettagliata relazione, che pubblichiamo integralmente: " Illustrissimo, et eccellentissimo Signore Padrone colendissimo Non mancai di fare quanto V.E. mi comandò, andai a trovare l’Auditore che l’arrivai al Castellaccio, et venimmo inanzi insieme col capitano Visi, l’Auditore andò verso Pofi, et noi con lui, dove habbiamo lettere del Commissario, fu deputato la giornata che si dovea uscire, la nostra Banda, et la loro, si che fu pigliata tutta la montagna di Giugliano. Io m’abboccai col Commissario alla Palombara di Giugliano, dove si lamentò meco, che in faccia sua la notte prima ivi li erano stati disarmati due sbirri d’Archibugi, et traverse, quali sbirri dicono in esse traverse havevano dodici scudi, et dicono che furno tre Persone, et conforme i segni che davano si va arguendo fussero l’istessi banditi; la mattina poi a bon’hora il Commissario et sue genti s’incontrarono con alcuni Pastori quali riferirno haver viste tre Persone verso Montiaguto, onde fu fatto subito la retirata da questa Banda, circondandola delli nostri da cinquecento, o seicento persone, et da quella del Commissario gran quantità di Corsi et Compagnie, et Cavalleria di Maremma, et non fu veduta persona alcuna sospetta, che fuor che due di Prattica soldati del capitano Salvatore, i quali dicono vedessero tre Persone, ma tanto di lontano, che non si poterno conoscere, et il Commissario pare habbia in questo sospetto, perché dice, che dovevano almeno fare la grida, et havendoli io dimandati di questo mi risposero, che essi subito andorno la volta dove viddero dette persone ma non trovarono altro che alcuni Pastori, quali interrogati dissero che non havevano visto persone alcuno. Il Commissario ha fatto prigione due pastori di Giugliano in territorio di V. E., et anco catturò li hosti della Palombara, et havendoli io detto, che per esser catturati in giurisdizione di V.E. li desse in poter nostro, subito volentieri ne furno dati, et gli mandai a Pofi, sempre sono stato assistente col Commissario, Capitano dei Corsi, cavaliere suo figliolo, il colonnello Nardi, et figliolo, et molti altri capitani su la montagna di notte, et di giorno et ho fatto dal mio canto quel che ho possuto. Detto Commissario s’era misso in pensiero per quel che m’accorsi discorrendo entrare in Giugliano, forse avendo qualche spia, et inditio d’essi Banditi, a quale replicai, che questa diligenza l’havrei fatta io, et lui si contentò volentieri, havendomi auttorità si potesse entrare fino in Chiesa, et standovi gli altri a magnare alla Palombara, io feci andare le mie genti a circondare Giugliano, andando ancor io con loro, dubitando, che quelli del Commissario non mi mancassero di parola, et fussero voluti intrare in Giugliano, et poco doppo già vennero genti del Commissario, et corsi, soldati, i quali tirorno di lungo verso Piperno passando per il Borgo di Giugliano. Doppo io per non dare alcun sospetto al Commissario, che non volessimo fare il debito, feci la cerca in alcune case di Giugliano, et non trovai cosa alcuna, ma se bene in Chiesa Parenti de Banditi, et dato conto al Commissario di questa diligenza si quetò. Non mancai la sera farmi chiamare la madre del Saracini, et Andrea fratello, che non è Bandito, et li avvertij caldamente che pensassero bene a’ casi loro, vedendo il fracasso che si facea, et il pericolo che ne potea seguire a Giugliano, volendo sempre con fe al solito ostarco, et informatomi da loro seppi che non v’era rimasto altri che Jonso, due altri di Giugliano, un di Prossedi, uno di Castro, il servitore di fra Paolo, et tre di Regno che lasciò con loro fra Paolo erano partiti il giorno prima. Io feci pigliare alcuni di Giugliano, che erano poco amorevoli de Banditi, et perciò sospetti che non rapportassero al Commissario et Monsignore di Frosinone contro i Giuglianesi, se bene da detto Commissario dice havere in mano assai, che potria nocere a vassalli, ma va circospetto per amore di V.E., el simile fanno tutti gl’altri della sua. Domenica sera m’abboccai di novo col Commissario, et sue genti primati, et vi fu anco l’Auditore, et fu discorso, che si dovea fare, l’ultima parola con che si licenziò da noi, disse che non si saria partito da Piperno, se prima non vedeva l’effetto di qualche cosa o dalla nostra, o dalla loro Banda, et intanto intende mandare il sommario all’eminentissimo Barberino infine tenea ordine. Hieri lunedi licentiai i soldati per il malissimo tempo, che non potevano resistere in Campagna, et senza frutto alcuno, et ancor io me ne venni a Castro, et domane tornerò io, ma senza soldati, havendo lasciato ordine al Governatore che avvisasse subito ogni minimo rumore, et ivi starò attentendo il di più che commanderà V.E.. Mi parebbe che si potria fra Parenti di Banditi consigliare qualche inganno fra loro, et forse riuscirebbe se pare a V.E. m’avvise, che io non vi conosco altro rimedio. Già che per quel che si dice ve ne sono tre, che non son vassalli. Sappia anco che per questo tutta la soldatesca di Maremma è in arme, et sta su l’avvisi. Scusi V. E. il mio lungo scrivere, et mi perdoni, mentre per fine le faccio humilissima riverenza, et le prego da Dio quel colmo di felicità et grandezza che desidera. Scurcula 22 9bre 1633. Di V. E. Ill.ma Scrivo di questa maniera, perché confido nella persona che la presenterà a V. E. D. Valerio Grillo, che viene la volta di V.E. Humilissimo, et obligatissimo servitore et fedelissimo vassallo Gio. Domenico Gratiano". Segue un’altra lettera sul medesimo argomento: "Ill.mo et carissimo Signore Devo dire a V.E. che hoggi subbito arrivato in Giugliano ho trovato che vi era prima Jonso Sarracino, Prospero Ciocca, et Giovanni Scarapellino di questa terra di Giugliano havevano fatto solo due teste una del servitore di fra Paolo et l’altra di Castro, et un altro li è fuggito dalle mano, nell’istesso tempo è arrivato l’Auditore di Pofi quale non havea eseguito di far catturare li parenti, così per l’ordine datomi da V.E., ho fatto che l’Auditore non proceda più avanti senza niun ordine di V.E. giaché si è seguito l’effetto in parte con gran aiuto di di parenti, et alli sopradetti si è fatto il non provetur per dieci giorni in tutto lo repartimento de Pofi dall’Auditore sarria bene di prorogare detto non provetur sin a tanto, che le cose siano aggiustate per la loro remissione come anco oprare che possano pratticare per il stato Ecclesiastico per potere avere in mano altri complici che hanno armato con fra Paolo, le teste sono state portate a Piperno al sustituto conforme l’ordine del Castiglione per farle riconoscere dal recatto, et poi s’inviaranno la volta di Roma; Per tanto raccomando a V.E. la remissione di questi tre, con queste due teste quando non ne possano seguire dell’altre; che altrimente io potria andarci per terzo, et perderei la vita che è quanto mi occorre dire a V.E. et stando spettando li suoi commandamenti li fo humilissima reverenza. Giugliano primo Xbre 1633 Di V.E. Ill.ma Humilissimo servitore Gio. Domenico Gratiano". Il 6 ottobre del 1634 troviamo fra Paolo, con quattro altri compagni e Tommaso Saracini di Giuliano, a Capo S. Nicola, tra S. Lorenzo, Sonnino e Monticelli, nel frattempo il bandito si è fatto allungare i capelli e ha accorciato i baffi. Il 12 ottobre, del medesimo anno, il vice Conte di Ceccano, Felice Gattola scrive al principe: " Il colonnello Nardi diede fermo aviso de Banniti, e di qui sta il mondo sotto sopra. Io con li miei compagni m’armai subito et ho cercato tutte queste contrate, e fatto trascorrere con diligenti spie sino alle montagne di Terracina, e S. Felice, dove si diceva s’annidassero detti furbi, e non ho voluto mai fermar li pianti, siché habia ytrovato la certezza del fatto. Ho trovato che Tomaso Saracino è di qui con sei altri suoi compagni, che vengono da Ligorno, fra Paulo non vi è altrimenti; et acciò V.E. resti più informata della verità del fatto, ho trattato con Tonto Serracino, quel altro fratello ch’ ebbe il breve di S. Santità, che vengha da V.E. a dirle la verità del fatto, crederò mandarlo fra doi o tre giorni, e da quello spiava meglio il tutto; Io sto lesto per sparger il sangue, e quant’ho a V.E. queste cose so che molto che premino, e però ce ne do aviso, intanto sto con l’armi in mano per eseguire quanto si degnerà comandarmi". Da un avviso del 23 agosto del 1636, inviato al principe Colonna, apprendiamo che fra Paolo si trova a Livorno e si offre di servire gli Spagnoli con cinquecento persone col patto che venga abilitato negli Stati del Re Cattolico. La toponomastica di S. Lorenzo (oggi Amaseno) ricorda la presenza del brigante sulle sue montagne nel Vado fra Paolo, luogo di confine tra lo Stato della Chiesa ed il Regno di Napoli.
Genti armate in S. Lorenzo e S. Stefano e l’omicidio di Giovan Battista Frasonetti di Pofi Il 19 maggio del 1633 Filippo Colonna così scrive all’Uditore di Pofi: "Habbiamo veduto quanto avvisate delle genti armate in territorio di S. Lorenzo e di S. Stefano con la cattura delli tre huomini fatta dell’istessi, vogliamo però ch’usate ogni diligenza in certificarci dell’esser loro, e quando habbiano ardire entrar di novo nel nostro Stato, andarete continuando di dar gl’ordini necessarij a ciascuna terra del nostro ripartimento per estirparli, et haverli nele mani, acciò si possa tener espurgato da simil ladri, con servirsi a quest’effetto tanto di soldati quanto d’altri nostri giurisditionarij, facendoli intanto star pronti per ogni occorrenza. Avvertite però d’esseguirlo con la diligenza che conviene con darci appresso conto del seguito. Proseguirete con diligenza l’informatione dell’archibugiata sparata da Fulgentio Valle in persona di Gio: Battista Frasonetti di Pofi, e dopo che haverete impignato ilo Processo con altre prove, che restano da essaminarsi, potrete procedere alla sua spedizione conforme a giustitia…". Tra questi vi era il bandito Zaccaria Minieri di Santo Stefano.
L’esecuzione del bandito Federico d’Annibale di Castro La mattina di mercoledì 22 luglio 1639, venne impiccato, dal boia Giovan Battista di Frosinone, il bandito Federico d’Annibale di Castro ed il suo corpo squartato. Un quarto, compresa la testa, fu lasciato sotto la forca, un quarto fu messo verso la strada che va a Piperno, tra i confini di S. Stefano e S. Lorenzo (via di Vallefratta), un altro nel territorio di S. Stefano mentre l’ultimo quarto fu trasportato nel territorio di Ripi, nel luogo usato per le condanne a morte. Francesco Annibale di Castro e Tommaso Angelillo di Pastena, ma abitante in Castro, furono costretti ad assistere all’impiccagione e squartamento di Federico, quindi trasportati a Roma, nel carcere di Tor di Nona, condannati alla galera perpetua ed alla confisca dei beni. In questo periodo a Santo Stefano Francesco Galloni era il manutengolo di una banda locale con a capo un certo Francesco Carlone " bandito armato"..
L’uccisione del bandito Domenico Pisterzo di Santo Stefano Domenico Pisterzo di Santo Stefano fece parte della banda di fra Paolo, nel novembre del 1633 fu ammazzato, sulle montagne di Pisterzo, dai soldati di Ceccano comandati dal capitano Salvatore de Giudici e gli fu tagliata la testa e portata a Ceccano dove fu custodita da un certo Moro, pagato dal medesimo Giudici, come si evince da una lettera dello stesso al principe, spedita da Ceccano il 26 novembre del 1633: " Per un'altra mia diedi conto a V.E. del successo e testa fatta di quel Bannito di Pisterzo compagno di fra Paulo, e Sarracini, et altri Banniti, e sono quattro giorni, che il Corriero non si vede tornare, e la testa si puol perdere, e del continuo il colonel Nardi et il Castiglione Commissario mi fanno istanza, che io l’invii detta testa nelli confini tra Giugliano e Persedi per riceverla, e metterla, e farla cognoscere, dicendo a V.E. che se ben la testa è stata fatta nella montagna di Pisterzo con tutto ciò l’ho fatta recognoscere in S. Lorenzo, e fatta la presentata in Audienza a Pofi dove l’Auditore ha voluto farla recognoscere di nuovo, e concludentemente si prova ch’habia armato con fra Paulo, e tenuto il recatto di Norma, oltre l’Archibugiata che tirò a Cola Grandi Cancelliero di S. Stefano, com’anco costa in Audienza che quest’huomo del quale è la testa fece relassare la rappresaglia fatta ad istanza fatta dell’Erario di Pofi contro suo Padre dicendo: rilassatela se non che vi ammazzo; e detta testa sin hora si conserva in potere della Corte qui in Ceccano perché così ha ordinato l’Auditore et io non l’ho voluta consegnare in che ha consentito anco l’Auditore; se prima non l’ordina V.E.; e perché Signor Eccellentissimo nel principio che venne il detto Castiglione e Capitano dei Corsi s’abboccorno con l’Auditore di Pofi, et anco con me. e dicerno che se si faceva caccia di questi furbi, voleva dar la nomina per la remissione d’ un Bannito, e cinquanta scudi, che da la Camera, e perch’hora più che mai offeriscono in promessa, e li soldati che hanno fatta la fattione mi stanno addosso per haver detta inpromessa e veramente li soldati son poveri con molte giornate pure su le montagne con molti patimenti se prega V.E. resti servita ordini se dia detta testa tanto più ch’è fatta fuori de stato di V.E. dove non havevano giurisditione et a qualche tempo io con questa squadra non potemmo avere disgusto, si bene semo andati con l’ordine del detto Castiglione al quale disse l’Auditore se desse agiuto che così era ordine di V.E. e che quelli che si trovavano s’ammazzassero e non si pigliassero vivi per degni rispetti; e quel mi diede segni e contrasegni di questo Bannito, acciò non si facesse errore come non s’è già fatto, per vigor del quale ho trascorso fuor la giurisditione di V.E. e dett’ordine lo conservo appresso di me, però ho risoluto di nuovo mandare il presente a posta, acciò V.E. mi faccia ordinare poter dare detta testa acciò li soldati con la rimuneratione se immiscano un'altra volta far più l’effetto, chè quanto devo dire a V.E. con che li fo humilissima riverenza". Da una nota scritta nel registro dell’erariato di Pofi, in data 28 novembre 1633 veniamo a sapere che la testa del Pisterzo, per ordine del principe Colonna, dovrà essere portata a Roma dal bargello di Pofi che verrà ricompensato con scudi due.Il giorno successivo Salvatore de Giudici invia al principe la seguente lettera: " Fo intendere a V. E. come questa notte a dodici hore è venuto qui in Ceccano il Baricello di Pofi con una lettera diretta al v. Conte, e perché lui non ci era l’ho aperta, dove ordinava, che si consegnasse la testa di Domenico Pisterzo a detto Baricello, e perché io ho dubitato, che l’Auditore non si movesse da se, mentre a me non mi ha scritto cos’alcuna, et io l’ho fatta custodire a mie spese, già che l’Auditore voleva dopo fatta la recognetione farla atterrare, et lo feci venire, e me ne protestai dicendogli, che la testa si doveva conservare in potere della Corte sin che V.E. havessi ordinato quel che si doveva fare, e voleva ch’io dessi sicurtà di doi cento scudi di consegnarla, e così feci fare un ordine al V. Conte, acciò la facesse guardare, e così feci altrimenti si ritrovarebbe e se l’havarebbero magnata li cani, s’è consegnata al detto Baricello con quel Moro, che la custodiva a mie spese, ricorso a V.E. che l’honore è mio, perché è stata mia ante e con mio pericolo e fatighe s’è hauto come v’ho avisato altre volte, e per fine li fo humilissima riverenza". Nel marzo del 1692 i malviventi Carl’Antonio Trano di S. Lorenzo, Giuseppe Leo di S. Stefano e il caporale Santo Tiberij di Patrica vengono trasportati dal carcere di Pofi alla fortezza di Paliano.
Banditi condannati alla catena nella fortezza di Paliano Francesco Luciano di S. Stefano, condannato ad anni sette, arrivò a Paliano il 12 marzo del 1709 ma vi morì il 7 aprile. Stefano Olivieri di S. Stefano, arrivò il 24 settembre del 1729, condannato ad anni dieci per possesso di coltello proibito e complicità nell’omicidio di Carlo Pagiossi. Nel novembre del 1733 la Sacra Consulta, tramite il Governatore di Frosinone ne richiese l’estradizione. Il capitano della fortezza, Livio Antonio Rossetti, consiglia al principe Colonna di farlo fuggire nel Regno.
Concludiamo questo breve excursus sul banditismo santostefanese con la seguente: 29 gennaio 1804 Maria Giovanna Colini da S. Stefano condannata il suddetto giugno per anni 15 per omicidio e furto, deve per alimenti di mesi 5 e giorni 23 dalli 19 Decembre del passato anno 1808 a tutto li 10 giugno 1809 giorno della suddetta mutazione scudi 8,65.
Il banditismo a Santo Stefano nei secoli XVI - XVIII attraverso le carte dell’Archivio Colonna |
up.08.02.13
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