Giuseppe Lauretti
Rime - prima parte
A un giornalista. Non è la verità quella che in core infamie tali a scrivere ti detta; ma l'oro vile d'una gente abietta che vergogna non ha, non ha rossore.
O segni, segni pur nel vil letame, a trafficar giustizia e verità; o segni se morir non vuoi di fame, i tuoi degni consorti ad incensar. Cos' è la vita ? Cos' è la vita, spesso mi domando, trascinando affannoso il mio fardello; ora seren, or mesto, dolorando, a gran passi m'avvio verso l 'avello ! ... Né trovo al mio dolore alcun’aìta: oh che dono gentil è mai la vita !
A Teodoro Certo che tu sei bello, o mio Teodoro: tutto si vede, dal capo alle piante; ma che ti val, se tra bellezze tante, priva è la testa del più bel tesoro? Sappi che la bellezza è come un fiore che, sbocciato al mattino, a sera muore.
***
Una rosa è la donna, aulente e vaga, ma che spesso letale è a chi la coglie; poiché - oltre le spine - tra le foglie, sangue nasconde che i malcauti impiaga. O voi che spesso a far con donne avete, ad esser cauti assai certo apprendete.
A Jone..(*) inviandole alcune rime.
Quando Jone gentil, tu leggerai, queste, del core dolci fantasie, son certo, bella Jone che dirai: -Ove pescaste tante bizzarrie ?-
Ma tu ben sai che dal primo istante Ch’io ti conobbi da quel dì t’amai, e innamorato dei tuoi rari pregi, quale cosa divina io t’adorai.
Ma queste mie parole, Jone mia, non ti potranno mai ridire il vero; facil non è, d ’un tormentato cuore, conoscer sempre l ’intimo pensiero.
(*) Jone morì a 16 anni e le rime andarono smarrite. *** Con l ’ali d ’oro della fantasia, ti vengo a visitare, o pargoletto; ti tengo forte sul mio cuore stretto e ti copro di baci, o bimba mia.
Tu mi sorridi con la bocca pia, vispa e gentile come passeretta, e quel sorriso tuo, bell ’angioletta, empie il mio cor d ’amore e d ’armonia.
Quando del genitor sovra i ginocchi come vaga farfalla scherzerai, ed ei si specchierà ne’ tuoi begli occhi, digli, bimbetta mia, quant’ io t’amai.
E tu bimbetta mia, fino alla morte pegno di pace e amor tra noi sarai. E se invidiosa non mi fia la sorte, quanto cara mi sei conoscerai. I vampiriO voi che non avete senso alcun di pietà né in petto un core, e sol vi compiacete spietatamente de l’uman dolore; sì, voi che ci trattate come bestie da soma, peggio che non faceva pur co’ suoi schiavi Roma; un poco, deh, pensate, che un giorno non lontano potranno fare a voi come voi fate; da poi che la fortuna, come vedete, fa come la luna. Multos in parvo Maturi erano i fati; ed il Sabaudo sire, dai lunghi baffi schiaffeggianti al vento, disse:- Qui convien vincere o morire-, e ne la pugna si scagliò repente. Indi in prove di guerra a cento a cento mostrò de gli avi suoi senno ed ardire. E un giorno, oh fausto giorno, su Teano, col re, l ’eroe nizzardo s’ incontrò, ed al cospetto di que’ prodi eroi “ saluto il re d’Italia” alto gridò: e per l ’ausonie valli il grido altero, al par d’un’eco immenso riecheggiò. Udir quel grido l ’assonnate genti stanche da tempo sotto l ’oppressore, ed a falange, da i quattro venti, accorser sotto al patrio Tricolore. Stretti intorno al Re, guerrieri e vati, volti a le patrie memorande imprese, sgominaron d’Italia i potentati, vendicando così tutte l ’offese. Libera alfin da la straniera soma l ’Italia tutta, gridò:- A Roma, a Roma-. Qui rallentato al suo cavallo il freno, soggiunse:- Qui ci siamo e resteremo-. Sonetti. Ad alcuni criticiSe invece di midolla piene l ’ossa, signori critici miei, di scienza avete, ditemi, chi fu pria la messa o il prete, la piccola campana oppur la grossa?
Perché la rapa per traverso ingrossa, e crescer lungo il ravanel si vede: l ’un forte e l ’altro dolce; or qui potete signor critici cari, aver gran possa.
E mi direte ancor perché gli Ebrei son differenti da’ Samaritani assai più de gl ’Inglesi e Cananei.
Da poi che i vostri ingegni sovrumani s’alzano tanto a vol da noi plebei, che già toccate il cielo con le mani. A mia madre. 1912 Dolenti note che da un cor sgorgate pien di tristezza e di malinconia, su le ginocchia della mamma mia, un lieto augurio del Natal portate.
E allor che vi sarete domandate donde venite, qual sorte v’invia, voi, per risposta di quel che desia, un bacio ardente su la fronte date.
Con quell ’affetto che nel cor io sento; e quel sol bacio le dirà più cose che non mille parol gettate al vento.
Ditel che tutto nel mio cor è spento, che gravan l ’alma mia cure penose, ma pur che viva lei sono contento. S’io t’amo ?… 1Chi lo potrebbe dir quant’io t’amai, diva beltà che mi rapisti il core!… Per te canti non vili io meditai e scrissi come mi dettava amore.
Per te mill ’altre donne io disprezzai, a te serbando immacolato il core. Per qual mancanza, dunque, io meritai l ’implacabil tuo sdegno e il tuo livore?
Torna, deh, torna, e col tuo dolce incanto sgombra dal petto mio la ria bufera: rasciuga tu su le mie ciglia il pianto.
E come sol, la mia mortal carriera rischiara, e allieta il mio novello canto che il duol fa denso di caligin nera.
S’io t’amo ?… 2Ardentemente, immensamente io t’amo; t’amo qual donna mai fù amata al mondo, e notte e giorno dal mio cor profondo il tuo bel nome sospirando chiamo.
Rapito, intanto, come augello in ramo che tesse il nido suo lieto e giocondo a te il mio canto vola, e un verocondo pensier ti reca e dice quant’io t’amo.
Accetta, o cara, il giovanile ingegno ch’io ti consacro, e questo ardente core, come il più bello e prezïoso pegno
che dar ti posso del mio grande amore; ma di gradirlo, deh, dammene un segno, se veramente m’ami, o caro fiore.
S’io t’amo ?… 3 Quando l ’april ritorna e col tepore palpiti novi e nova vita infonde, dimmi, non sembran palpitar d ’amore fin l ’aure, le piante, i sassi e l ’onde ?
E da la terra fino al Creatore salir un inno d ’armonie gioconde, che mille petti con lo stesso ardore sciolgono a gara tra vezzose fronde ?
Noi soli, dunque, chiamerem peccato questa divina, eterna melodia; questa possente fiamma del creato
che l ’universo regge e l ’alma indìa ? Finché di respirar ci sarà dato, amiam senz’arrossir, fanciulla pia. Marianna D’AmbrogioIo ti ricordo ancor Marianna bella; ne le convalli di Montalto erbose, cogliemmo insieme margherite, anemoni, rose selvagge e fragole odorose; candida l ’alma avevi, ed il bel cuore, eri di quelle valli il più bel fiore. Ancora al petto mio non era nata la voglia di cantare - odio e amore- da poi che al fianco tuo mia bionda fata, ignoto a l ’alma mia era il dolore. Ricordo ancora il dì che insiem cercando nidi andavam per quelle chiostre ombrose, e mentre gli occhi in alto ambo levando in un glicine da le rame annose, cerulo immane serpe ch’iva spiando tenere tortorelle ivi nascose, venne a cadere quasi a’ nostri piedi, io t’abbracciai ed a fuggir mi diedi. Né m’arrestai tanto che a salvamento io ti condussi su l ’erboso prato; e per la gioia d’averti salvata più baci diedi su la fronte amata. Fummo divisi. Oh sorte, oh fato rio !.. Tu più non rivedesti il caro amico !.. Ed io, Marianna mia, da te lontano, quale digiun leone o un capriolo o due giovani amanti a i primi baci, mi volsi su le carte a cercar fama. S’accumularon poi lustri su lustri, e novella di te non seppi mai ma le tue fresche rose ed i ligustri del caro volto tuo non obliai. Ma più de lo spirar, più de la fama io sol di rivederti in terra anélo; ma se impossibil fia questa mia brama, addio, Marianna, arrivederci in cielo. A Clarice Questo povero cor dirti dovria che tristi sonni, che sospiri ardenti, faccio, pensando a te, Clarice mia, ma tu, di tanto, non ne sai niente!…
Qual fera mai, qual rupe non avria pietà del mio dolor, de’ miei tormenti; ma per dispetto, la mia sorte ria, ti vieta di udire i miei lamenti.
Meglio così; ed io, anima bella, prego che tu l ’ignori eternamente e non ne possa udir giammai novella.
Io ti rivedo in sogno assai sovente, ma quando poi mi desto e non ti trovo lingua ridir non può il dolor ch’io provo. I falsi filantropi. Molti signori ho scritto in una lista, gran cianciatori di filantropia; mentre, per dire il ver, non san che sia, e sol pel ventre lor fanno tal vista.
A sentirli parlar, Pietro o Battista ti paion, o altri di tal compagnia; mentre nel turpe cor, ne l ’alma trista, chiudon altro velen; ahi vil genìa !…
Ma se un dì verrà che’l tetro velo si squarcerà, di questa plebe vile, e sopra voi la giust’ira del cielo
cada, vedrassi ben cangiare stile. Se poi non mentirà ‘l gran dio di Delo, i gemiti s’udran da Battro a Tile. … 1917. Come potesti mai, dolce sorella, lasciar la cara madre e’l suol natìo, per segregarti sola in una cella premendo in petto ogni gentil desio ?
Di fronte, o cara, a la natura bella, esser meglio potevi accetta a Dio, che nel silenzio di romita cella, ove t’ha spinta questo mondo rio.
Oh quante volte, in mezzo a lo quallore del tetro chiostro, ne sarai pentita !… E’l tuo gentile e giovanile cuore,
stillerà sangue da la sua ferita ! Ed io sarò straziato dal dolore per non poterti dare alcuna aita. Il fanfarone Seppi da quell ’amico che tu sai, che sei così valente in poesia, tanto che con celeste melodia, cose stupende componendo vai.
Io scrivere così, non spero mai, che no’l comporta l ’umil musa mia; e specie poi, con sì dolce armonia, come dal Muzzi tu saper mi fai…
Ma ti saranno troppo delicate, mentre a nessuno le vuoi far vedere codeste rime tue tanto lodate !…
Ma se ti devo dire il mio parere, io credo che saranno spacconate, proprio da pari tuo, mio caro sere. … Ad una ritrosa. Quando la fresca tua purpurea rosa cader sfiorita innanti ti vedrai, del grande affetto mio sarai bramosa e d’averlo sprezzato ti dorrai.
Non più superba, mia bella ritrosa, davanti agli occhi miei tu passerai, ma con la fronte china e pensierosa, né tua beltà rifiorirà più mai.
E d’avermi deriso e disprezzato ti sentirai attanagliare il cuore; e ripensando al bel tempo passato,
tardi t’accorgerai del grande errore. Ma tutto allor per te sarà cambiato, fuori che’l non ricordo e il non dolore. Per le nozze di Maria Mancini e Agostino Rispoli. 1942 Mentr’eri assorta in bei pensier d’amore, febbre crudel le belle membra avvolse, sì che le vaghe nozze tue distolse e velò del tuo volto il bel candore.
Ma surse a far le tue vendette Amore che col fratello Imene assai si dolse: egli quella crudele in fuga volse e rese al tuo bel volto il suo splendore.
Ed or ch’è giunto il giorno desïato, il ciel, coppia gentil, felice renda e sparga fiori al vostro novo stato.
Giustizia e onestà vi scaldi il petto, e un caro bimbo a novo amor v’accenda, ché senza bimbi, amor non è perfetto. VotiO rondinelle che per l ’aria a volo milioni di insetti divorate, quando su l ’umil mio tetto passate scordo per la letizia ogni mio duolo.
Oh quanto in questo caro italo suolo giungete care, or che ritornate ! Uccelletti di Dio, che ci narrate dei nostri cari sotto straneo polo?
Deh pria d’abbandonar l ’itale sponde faccian ritorno tutti al suol natìo, e propizie sian loro l ’aure e l ’onde.
E se l ’Eterno assente il voto mio, spento alfin nei cuori l ’odio e l’ire regni fraterna pace in avvenire. A Don Giuseppe Conti di Cascina Cappellano di Pianosa 19-03-1918
Come nel rifiorir de la natura, ritorna vita e gioia in ogni core, e con un dolce palpitio d’amore sorride il ciel, la valle e la pianura.
Così sorrida a Lei questo bel giorno pien di letizia e di novella speme; viver cent’anni lieto, ed ogni bene Dio le conceda in questo rio soggiorno.
E a me sia dato a lungo di restare in queste valli a la fresca verzura, e qui tra fiori, fronde ed aria pura canori augelli udir lieti cantare.
Così tra l ’ombre de’ paterni monti, vita novella il core e il verso avrà, e il caro nome di Giuseppe Conti dolce ricordo sempre mi sarà. Ad Antonio Felici di V.S.Stefano, poeta futurista. 1943 (La nuova tirannia sta sempre in tema e sempre è cruda tirannia che trema. L.A.)
Tu mi dicesti ch’io scrivessi a Parri qualche ode esortativa, oppur canzone; ma vò pensando che bisogno d’arri, un buon destrier non ha, né di sperone; che s’egli avesse, poi, il mal restìo, guarir non lo potrebbe altri che Dio.
Del resto ce lo disse il vecchio Omero: l ’uomo perde metà del suo cervello dal dì che si fa servo, or dunque intero né pur Parri l ’avrà, amico bello; da poi che i fati avari ed inumani, ci fér schiavi d’Inglesi e Americani.
Per questo credo, bene o mal ch’ei faccia, egli segue il voler del suo padrone, che gli stà sempre a’ panni e lo minaccia di farlo sobbalzar dal seggiolone. Perciò fia meglio di lasciarlo ire ed aspettare ove l ’andrà a finire.
Ora di queste cose caro amico, io sono così stucco e sconcertato, che più che versi, credi, il ver ti dico, vorrei un bravo nerbo inarsicciato, per darlo di ragione sulle schiene di tante in vista uman togate iene. Alla maestra Di Iorio Viola di Alatri, ( 1941 ) Signora Viola, tu mi chiedi un canto, e ad altri già donasti il tuo bel cuore !.. Come poss’io affrontar un tema tanto gentil, senza destar l ’altrui livore ?
Cara più che la luce a gli occhi miei, sospir de l ’alma mia, mio caro fiore, così, se fossi mia, io canterei, e scriverei per te canti d’amore.
Vorrei cantare la tua chioma bella, che per le spalle e l ’adorato seno, ti scende effusa in graziose anella: spettacolo celeste e non terreno.
Né tu pur rimarresti inonorata soave bocca, dove il cieco sire, di mele infuse le sue frecce scocca a danno d’ogni amante ed a martire.
Ma dove lascio voi, occhi lucenti, che’l core di dolcezza inebriate ? Sebbene debbo dire: siete sovente il primo strazio d’alme innamorate !
Ohimé, mentr’io trasfondo in vane rime i tuoi gran pregi di che altera vai, lungi ten voli; e per farmi morire, di rivederti un dì speme non dai !..
Deh, non volere più, Viola mia, ch’io di te canti sempre a bocca asciutta; mandami almen d’Alatri un grosso bacio ché la mia vita rassereni tutta.
Ahi !… spinto da l ’ardito immaginare, m’avvedo ben, non senza meraviglia, che a l ’innocente mio dolce scherzare, pur troppo al mio destrier lentai la briglia.
Perciò, debbo affrettarmi a dichiarare che questo affetto mio per te somiglia a quel che serbo puro, immacolato, e chiudo in petto per mia bella figlia.
Questo vò’ dir, non qualche malizioso, di cui nel mondo non fù mai penuria, essendo del mio ben, forse invidioso, al tuo candido onor non faccia ingiuria. All ’amico Abilio Mancini 1942 In un boschetto fresco ed odoroso, non lungi, Abilio, a l ’umil tetto mio, ritorna ogni anno al suo nido natìo, un rusignol canoro e grazïoso.
Ivi, la notte e il dì, perennemente, salta di ramo in ramo gorgheggiando, dolce così che l ’anima si sente strugger d’amor a quel trillio ammirando.
In quell ’esilio di splendori e canti, ora che tutta la campagna è in fiore, tutto sorride d’un sorriso eterno che l ’alma indìa e intenerisce il cuore.
Riflettendovi sopra, amico mio, ad alto e ignoto ver m’apron la mente, e a dubitar de gli uomini e di Dio contro mia volontà spingon sovente.
E grido:- Oh gregge uman, tu che ti vanti per la più alta e nobile fattura, dimmi s’intra il più vil de gli animali più infelice di te v’è creatura-. Alla maestra Pierina Trapani 1943 Io dissi il vero tutta la mia vita, e lo dirò, per dio, fino a la tomba, ei viene su dal cor con voce ardita, e come tuono e folgore rimbomba, e tu, nipote mia, un po’ lo sai, quanti piacer per lui io rinunciai.
Stanco di piallar casse e tavolini, il signor Tropposale s’è ficcato in certo buco co’ scarabocchini; e d’essere un gran ché s’è figurato, poiché, tra gli armadi e tra le casse, fe’, da bambino, anche la terza classe.
E tu, Pierina mia con lunghi studi, con la brava patente al cassettino, per impiegarti, ancor convien che sudi!.. Né vale maledire il tuo destino; perché, piccina mia, se non lo sai, gl ’impieghi fûr de gli asin sempremai.
E se il signor Colucci direttore, più presto a’ tuoi bisogni non rimedia, io certo ne morrò di crepacuore, e tu, mia cara, ne morrai d’inedia: perciò, gli manderai questi miei versi; ed ho fiducia che non saran persi.
Poich’egl ’è un grande galantuomo vero, più che moderno, de la stampa antica; comprenderà di certo il mio pensiero, e se fortuna non ci fia nemica, speriamo ch’egli pensi ad ogni costo, ed al più presto, procurarti un posto.
Ringrazio ancora Vittoria Bonomo d’esser stata con te tanto gentile, e un dì vo’ dedicarle un bravo tomo de’ versi miei, se non avralli a vile. Insomma, ognor sarò riconoscente a chiunque ti soccorra immantinente. L’aviatore caduto sui monti Lepini ( 19-12-1943 ) O tu che sali sopra questo monte, alma gentile, generoso cuore; china su questo tumulo la fronte né ti partire senza dargli un fiore; che a chi lontan da la sua patria muore, sarà dono gentil anche un sol fiore.
Io, oltre ai fiori, ti darò il mio canto, martire invitto, eroe americano, io che raccolsi le tue membra e accanto qui le deposi al tuo aeroplano; ma sopraggiunse dal paese un prete, e negò a l ’ossa tue quassù la quiete.
Quel sacerdote mi rapì tue spoglie, per seppellirle giù nel cimitero; e così fù che contro le mie voglie, restò deluso anche il mio pensiero. Sotto l ’Italo ciel riposa in pace e rispetti tua fama il tempo edace. A Vincenzo Bovieri ( 1944 ) Che val, Bovieri, rinnovar gli eroi de la più grande Italia o d’altre età, se gl ’Italiani dal settembre in poi, sono in letargo ? Chi li desterà ?
Io, riandando agli anni miei più belli, sento bellici istinti in mé destar, e pien di sdegno grido:- O miei fratelli, andiam l ’onta d’Italia a vendicar-.
Ma nessun m’ode: il mio grido è inane; troppo profondo è il sonno ed il torpor, né squillare di trombe e di campane, potrìa dal sonno risvegliar costor.
Pur griderò con quanta lena ho in petto, tanto che alfin qualcun si desterà, il mio pensiero metterà ad effetto, e Italia tutta in armi sorgerà. Sulle rovine di Vallecorsa1944 Oh Vallecorsa, oh mie paterne mura, cuna di forti e laboriose genti; or cumol di rovine e sì squallenti che appena il guardo mio vi raffigura !…
Oh bella chiesa ove la nonna mia mé fanciulletto conducea sovente; allora vispo, gaio e impertinente, oh bella chiesa di Santa Maria !
Ora dorme laggiù nel cimitero col nonno mio la vecchiarella pia, e le rovine tue, Santa Maria, non sa, né de la patria il fato nero.
Ed io seduto qui su le macerie di questo primo mio nido d’amore, vo meditando su le uman miserie, e crudelmente mi si stringe il cuore. Alla signorina Giovanna Ficher. (1948)
Gentile amica, la tua bianca rosa che mi donasti, dono assai gentile, tra l ’amorose rime oggi riposa, ch’io scrissi a i tempi del mio primo aprile; allor che’l mio sentier tutt’era in fiore, né funestato avean ire e dolore.
Ed ivi rimarrà, memoria cara, de l ’amicizia tua, fanciulla pia; poiché sovente, obliar l ’amara noia, mi fece, de la mia vita ria; ed oh, stare potessi a’ tuoi ginocchi, adorando il tuo viso e i tuoi begli occhi !.
E dei miei canti attingere l ’altezza sognata sempre,e, non raggiunta mai; ché la bontà, congiunta a la bellezza, fu sempre nel mio cor possente assai: or che sarebbe, se tu, vago fiore, scaldassi con la fiamma de l ’amore ?
Ma tanta grazia non c’è data in sorte !… Necessità te spinge ad altre arene… e a me per sempre chiuderà le porte di rivederti più, mio solo bene ! E morirò lontan, né tu saprai quanto feci per TE, quanto t’amai !… Vita nova(1952) Sessantasette volte gli arboscelli, vidi spogliarsi e rivestirsi, e in breve su questa fronte questi miei capelli farsi più radi e divenir di neve. E sebben io non curi questi né quelli, pure qualche amarezza il cor riceve: poiché non sempre la filosofia basta a frenar la nostra fantasia.
Più d’una volta l ’Eutanasia bella, sinceramente a’ giorni miei chiamai; né saprei dir, per quale avversa stella, ad avere pietà non scese mai. Ora non prego più neppure quella che ponga fine a’ miei terreni guai. Ed a miglior sentir volte le piante, me la rido di tutto e tiro innante. Al professore Luigi Begozzi (1953)
Fra quanti vidi mai ne la mia vita, caro Begozzi mio , certo voi siete il più cortese; e immagine gradita ne la mia mente impresso ognor sarete.
E felice sarei se a voi da presso passar potessi il breve viver mio; da poi ch’io v’amo assai più di me stesso, e d’esser sempre insieme avrei desìo.
Ma poi che tanto non c’è dato in sorte, nessun ci vieta di poterci amare; e fin che il ciel non ci aprirà le porte, il poterci a vicenda confortare.
Ma ciò fia poco. A gli animi infelici, a cui altro gioir qui fu negato, sempre fu caro, tra lontani amici, conversndo far fronte al comun fato.
Or da queste scoscese erme pendici, vi vengo col pensiero a visitare, e la Vallicchia, e tutti gli altri amici, vi prego in nome mio di salutare.
Ed a voi un caro cordïale addio su l ’ali de l ’ardito immaginare, vi mando dal profondo del cuor mio che fin ch’io viva non vi può scordare.
Conservatevi a’ buoni, a un avvenire di verità, di libertà, di amore; ch’io non dispero poter conseguire, temprando a incude adamantina il core. Al professore Luigi Begozzi ( 24 Luglio 1953 )
Mentre tu corri verso ignote plaghe, per vacui mar e sconosciuta gente, anch’io ti seguo con le ardenti e vaghe mie fantasie del core e della mente; e ignoti mari vò solcando anch’io su l’ali d’or del fervido desio.
E prego e prego che propizio i venti ti sian tornando ne la patria terra, e pien di nuova lena e d’ardimenti indire a questa ciurma eterna guerra: questa che sotto mansueto manto, ha ogni legge, e la giustizia, infranto. A Vincenzo TanziniVoi dite sempre ch’io sto tanto bene; che mi lamento sempre a tortamente; perché voi non sapete le mie pene, e che di queste non v’importa niente.
Ora del mal presente io vi vó dire, se mi vorrete alquanto orecchio dare, cose che vi faranno inorridire, tanto che appien non le potrò narrare,
Riarso è il suolo, screpolato, fesso, tanto che ti bisogna, nel camminare aprir ben gli occhi, se non vuoi, spesso, entro quelle fessure il pié ficcare.
Poi quando il sole a mezzo corso sale, e taccion per incanto augelli e venti, intorno a te non odi che cicale noiose tanto che morir ti senti.
E se ti metti un poco a sonnecchiare, uno sciame di mosche incautamente t’assale intorno, e ti vuol punzecchiare a tuo dispetto, prepotentemente.
Né alcun riposo si può aver giammai, neppur ne l ’ore che la notte imbruna; poiché non mancherà di darti guai qualche zanzara querula, importuna.
Queste son le delizie, amico mio, ch’io provo in questi lunghi giorni afosi; da cui vi salvi eternamente Iddio, e vi congeda ognor miglior riposi. … A se stesso …Lo so, lo so, questa cervice altera, ad ogni servitù schiva e ribelle, non più vedrete in su la tarda sera, su questa rupe, o pie virginee stelle; poiché tra breve la benigna morte, a miglior vita m’aprirà le porte.
Libero e nudo spirto, alzerò il volo per l ’etere seren lieto in sembiante, oppur m’aggirerò tacito e solo intra queste dorate amiche piante: e se tal premio mi serbò la sorte, vieni, chiudi quest’occhi, amica morte.
Desia chi vuole celestiali ebbrezze, contemplazioni eterne in ciel co’ santi; creda chi vuole a simili sciocchezze, sogni d’inferno e delirar d’amanti; ché in queste erme convalli mi contento udir de gli augelletti il pio lamento. Ad Angelo CompagnoniTu che di santa intolleranza armato Scagli vèr l ’oppressor detti roventi, e sei così meritamente amato da queste oppresse angariate genti, seguita, invitto cor, l ’impresa via, né ti distolga sorte fausta o ria.
E vincerem, se colei che m’ispira non mi fa velo agli occhi ed alla mente: avanti tutti con la stessa mira a l ’alta mèta coraggiosamente; e in mezzo ai lutti, le vendette e l ’ire, splenderà pure il sol de l ’avvenire.
E come il sol risplenderà l ’idea di verità, di libertà, d’amore, che da tempo vacheggia la mia dea, inorridita de l ’uman dolore; e accesa di pietà, d’impeti santi, gridi a gli oppressi:-Avanti oppressi avanti- L’ultimo bacio di mia madre ( 1956 ) Giacea la veneranda mia genitrice da più mesi in letto senza potersi muovere né proferire un detto.
Un dì, solo con lei, fisso la contemplavo addolorato, ed ecco ch’una lacrima scese sul viso amato.
Con impeto d’amore, la man le presi stretta e la baciai, e il bacio essa mi rese che non avrò più mai !… Al professore Luigi Begozzi L’orologino tuo che mi donasti non ne vuol più saper di camminare; ed io non ho danaro che mi basti per farmelo di nuovo riaggiustare.
Tu che fosti con me sempre cortese, che tante volte ancor m’hai consolato, sostieni ancora queste po’ di spese, e ne sarai da Dio rinumerato.
Poiché tra le disgrazie de la vita, per colmo di sventura io son poeta; né trovo alcuno che mi porga aìta in questa mia povertà segreta.
Anzi dirò di più: talor m’avvenne ch’altri chiedesse a me qualche favore, e non potendo farglielo, sostenne e mi trattò d’avaro e senza cuore.
Ma tu, signore, mi conosci appieno, e sai, ben certo, che non so mentire; poiché, se ne potessi fare a meno, non ti starei di certo a infastidire. A Vincenzo Tanzini( 1957 ) Mentr’io legando col pieghevol salcio marito a l ’olmo la panpinea vite, e piego con la mano il docil tralcio ch’uve darà vistose e saporite; forse tu giochi con la palla al calcio, - o in opere più dure e men gradite,- travagliandoti andrai co’ tuoi soldati ne l ’esercizio de’ tuoi carri-armati.
Poi vien la sera; allor molto da fare avrai per queste mie curiose rime se le vuoi tutte dattilografare. Tu no avrai finite ancor le prime che un altro fascio ten vedrai arrivare. Sì che fin d’ora l ’alma mia ti esprime i sensi della mia riconoscenza per questa tua longamine pazienza.
Prego, però, non affannarti tanto, ché la fretta non fé mai cosa buona; ed è questo un proverbio, giusto e santo, è in bocca,- si può dir,- d’ogni persona. E anch’io potrò pur riposarmi alquanto, e se la speme mia non mi canzona, la prima volta che ci rivedremo, di quel che si può far discorreremo.
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