Giuseppe Lauretti
Rime - seconda parte
All ’amico Arnaldo Silvaggi Certo tu potrai dir: “Lungi da gli occhi, il mio Lauretti mi dimenticò”. Ma io ti giuro, prono a’ tuoi ginocchi che fin ch’io viva, questo esser non può, non venne meno né verrà nel cuore pe’l caro Arnaldo mio l ’antico amore.
Ma io men vivo, amico, in un deserto, in mezzo a gente che non mi comprende, e pien di noia, e d’ogni cosa incerto, passo la vita mia tra balze orrende: e invece di pensare a’ miei bisogni, folle qual sempre fui, vivo di sogni.
L’altr’anno qui da me venne una fata, che sol leniva in parte le mie pene; ora il fero destin me l ’ha rubata, e fanne altrui felice in altre arene, ell ’era bella, e del sapere amante, e parlavamo insieme d’Omero e Dante.
In vece sua poi venne un tal Monforte: un giovane prestante e d’alto core, con cui stato sarei insino a morte, ma non curava molto il suo valore, poiché, fatto la scuola, eccolo a Villa appresso, forse, a qualche Logistilla…
Mentr’io voluto avrei più d’una volta ch’ei m’onorasse di sua compagnia; se questa voglia fosse savia o stolta, giudica tu che sai la mente mia: poi ch’io ragiono ognor di versi e prose, né mai di cose frivole e noiose.
Ma un giorno anch’egli al suo paterno suolo, pieno d’alte speranze il piè drizzava; e novamente addolorato e solo, tra queste orride balze mi lasciava col mio fero pensier che mi tormenta e morte appresta dispietata e lenta.
Or vedi, amico, quant’avrei caro, essere teco alquanto in compagnia; ché sol così potrei scordar l ’amaro tedio infinito de la vita mia; e carbellar così la cruda fiera, con l ’amicizia tua cara e sincera.
Non già che amante io sia come gli sciocchi, di molto chiasso, oppur d’onor mondano: questo lo giuro per quei due begli occhi de l ’amor tuo, per la tua bianca mano; pochi, ma veri amici io bramerei, in erma villa, e pago appien sarei. Al maresciallo Pietro Badoglio Se non ci dié la sorte, come guerrier con l ’armi, cader pugnando per la patria terra, facciamo almeno guerra col l ’onda edace di roventi carmi che non val meno del pugnar da forte.
Padre, so che disdegni ogni mondan rumore, pur prego di gradir questo mio carme che dettò a l ’alma mia ira e dolore. Padre, non fia mai pace, ma guerra orrenda e d’ira, fin che ne l ’Itala terra un discendente d’Attila respira.
Ei con l ’imbelle sangue paghi le violate vergini e le rapite sostanze a i figli ed a le madri inermi esalando l ’infame anima a Dite. Essi perenne fonte furon de’ nostri mali, e lo saranno ancor se un dì la fronte di novo contro noi potranno alzare.
Dunque ci fia di scuola, sia la moderna che l ’antica istoria: sia una buona volta, col ferro e con la face arsa e distrutta da’ fondamenti suoi Germania tutta.
Come l ’antico popolo d’Etruria, piombi nel buio eterno ogni memoria, e sepolto con lui resti ogni ingiuria.
Noi fummo per costoro un popol degno - qual si suol dir,- da basto e da bastone,- e in verità, siam giunti ad un tal segno, da far quasi a noi stessi compassione; ora non più; in alto il brando e il core: si vendichi la patria e in un l ’onore.
Ché quando pur fia spento l ’ultimo italo cuore, combatteran per noi i martiri di Spielberg e di Belfiore.
Riprenderanno le distrutte forme, ritornerà Santor di Santarosa ch’ora nel grembo di Sfacteria dorme.
Rifiorirà d’eroi la primavera, e tu sopra d’ognun primeggerai ch’or dormi in pace nella tua Caprera. A se stessoCredeva il Lauretti, -con la nomina sua di partigiano,- rifarsi da i disastri de la guerra; ma c’è rimasto col sedere in terra, ch’è quanto dire:- Con le mosche in mano-… Ché per qualche malizia non ben nota, passò da combattente a patriota. Al Sig. Luigi Bonomo Sindaco di Villa S. Stefano A te, Bonomo, un canto di lode io voglio dire, né l ’umile tributo, spero, vorrai sgradire.
A te che questa mia si misera contrada, facesti co’ tuoi meriti dono di luce e strada.
Che tutti giorni vedesi di macchine gremita che danno a queste genti una novella vita.
Si taccia de’ tuoi meriti, l ’invido detrattore: te sprona amor del prossimo e de la patria onore.
Anch’io, facendo il bene, spesso raccolsi ingiuria, poiché di gente ingrata non fu giammai penuria.
Por mente a falsi detti al savio non conviene ma impavido e sereno seguir la via del bene.
Prego di non sdegnare quest’umil canto mio, che non ad ozio imbelle a me donava Iddio.
Ché s’io non mi do vanto d’essere un letterato, ma un buon agricoltore dei campi innamorato.
Pure non son digiuno di peregrini studi, ch’io cimentai l ’ingegno su le più dure incudi.
Né qual cultor de’ campi io debba aver rossore, se tu, mio biondo Apollo, ti festi un di pastore.
Se fonte d’ogni bene è ciò che’l suol produce, ed è l ’unica via ch’al vero ben conduce.
E lo sapeva un giorno il vecchio Pandolfini, che della villa il pregio narrava ai nipotini.
Dappoi che tutto langue se il campo incolto giace, e in casa senza pane non può regnar la pace.
Tu di Latona figlio, il più grazioso Dio, il suon de la tua cetra concedi al verso mio.
Fa che con aureo carme io canti il bello, il vero, e mi sollevi sempre dall ’umile sentiero
E tu, Signor magnanimo, segui l ’impresa ria, e lascia che i tuoi meriti canti la musa mia. A Giovanni Cirella Son venti e sette ormai giri di sole ch’io venni in queste valli ad abitare, gentile amico mio, ove il mio cuore ricominciò di nuovo a palpitare; e qui, tra gioie poche e affanni tanti, sciolsi a l ’aure amiche inni sonanti.
Ma gl’inni miei, al par de’ miei dolori, ignoti sono a questa brava gente, che preferisce un piatto di spaghetti a tutti gl ’inni miei ed i sonetti.
Ma di ciò non mi cal: io n’ho abbastanza; essi piacciono tanto al mio Bovieri e al mio caro Gigin con la sua ganza. Bovieri li sa sí bene recitare
da penetrarne il senso più profondo; né mè’ lettor di lui potrei trovare, io credo, se girassi tutto il mondo. E piaceranno a voi, io vo’ sperare, gentile amico, Giovanni Cirella, sarto di Sparanisi, anima bella.
Ché da quel dì che l ’amicizia il core per voi mi prese, sempre io vi stimai, pel più gentile ed ottimo signore, né questa stima verrà men, giammai. Contro l ’usanza del bellettoVorrei saper perché, donne e donzelle, il volto di belletto impiastricciate; io non so dirvi quanto orror mi fate con quei colori su le labbra belle.
Io credo che volete farvi scudo, a i baci insidiosi de gli amanti, ché con color sì sporchi e nauseanti dolce riso non val, né petto ignudo.
Ma voi siete purtroppo abituate, (donne belle e gentili che voi siete,) a fare queste ed altre mascherate, e sotto i baffi poi ve la ridete. Il cacciatore Domenico Lauretti… trovato morto nel fosso d’Acquaviva il 17 gennaio 1964 Quando la luna splendein valle d’Amaseno, nel fosso d’Acquaviva un’ombra mesta appar.
Ed una voce arcana che par venir sotterra, in suono di lamento s’ode così parlar:
- O voi codarda gente che il ver tutti sapete, una paura imbelle dunque vi fa tacer ?…
Voi ne le notti insonne un serpe a manco lato, vi morderà implacato: non vi farà dormir.
Finché non rivelate quel che mi dié la morte, entro le vostre porte pace non vi sarà.
Così sarà di quei che si fan protettori di quell’infame mostro (1) che qui mi trucidò.
Che dopo avermi ucciso mi tempestò di calci, e del mio sangue intriso nel fosso mi gettò.
Oh figli miei, oh padre, è morta la giustizia: tutto è mister!.. pel misero figlio non v’è pietà!
Ma no… quel ch’io sospiro forse sta maturando; forse verrà tremenda quando più tarderà.
Iddio non paga il sabato: ei mi vendicherà; la sua giustizia tarda, ma non potrà mancar.-
Tu dici bene, o martire, ma la giustizia dorme; e intanto il tuo carnefice è sempre in libertà.
Già più d’un maligno parla di corruzione, dunque, gatta ci cova!… Che stanno ad aspettar?
Il padre di tua moglie, l ’altro giorno - di sera - con una sua brigata fece la sbicchierata
in segno di letizia: perché già crede morta del tutto la giustizia: tutto finito già!…
Ma quando tutto tace, noi non riposeremo: se non si muove il cielo, l ’inferno smuoveremo.
(1) CXCIII
Un delinquente, mostro di natura, seduttore di donne ed omicida, sentina vile, cumol di sporcizia, si trova alfine in mano alla giustizia.
( CLXXXVIII ) Benedetto sia tu, mansueto armento; sia benedetto l ’aere che respiri: lungi ti sian ognor le nevi e i venti, né infestin morbi rei tue bianche lane. Ma un’aura dolce, un tepidetto sole rivesta ovunque d’uno eterno verde di fresche erbette e d’odorosi fiori. Lanoso armento, i tuoi dolci amori il ciel secondi, e rigogliosa e bella ogni anno cresca la belante prole. E a me sia dato viver quietamente presso di voi, a le bell ’ombre amene di queste valli, ché mi son più care d’ogni tesor, d’ogni più caro bene; così ch’altro non chiedo al viver mio che, lungi da i tumulti de le genti, tra voi spirar serenamente in pace.
FINE seconda parte
Giuseppe Lauretti morì il 12 aprile 1979.
Una nota. Con queste poesie non si esaurisce il suo repertorio, ma lascio uno spazio aperto, a disposizione di parenti, amici e tutti coloro che avendolo conosciuto più a fondo, volessero aggiungere altre notizie valide affinché l ’opera di un poeta non vada dimenticata.
Da parte mia vi saluto alla sua maniera… Fanciullo fui e, della vita, mai pensavo ché vi fosser sì gran guai, che circondavan mé fanciullo, ancora, nel mio bel sogno della prima aurora.
Ma non sempre fanciul resta chi nasce e, divenuto adulto, pur conosce il mondo ch’è sì largo ed accoglie a penar su di sé tal fragil foglie. Eleuterio De Vincenzo
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