Feste e tradizioni religiose
Nei comuni del Lazio, dal medioevo fino al 1800, il calendario includeva circa 60 festività di osservazione generale, altre di devozione locale, oltre alle domeniche. Nei paesi ad economia agricola, le feste coincidevano con le attività stagionali delle colture, e molte di esse discendevano direttamente da riti religiosi precristiani.
Tale era infatti la processione delle Rogazioni maggiori che si teneva a S. Stefano il 25 aprile in coincidenza con la festa di S. Marco, con la quale si impetrava l'aiuto divino per le colture dei campi e per gli animali, celebrazione che si ricollegava direttamente alle Robigalia romane. La processione partiva dalla chiesa al canto delle litanie dei santi, dirigendosi verso la cappelletta dedicata a S. Marco nella contrada omonima, con i chierichetti inquadrati dietro il crocifero, ciascuno dei quali portava una lunga canna con la punta foggiata a croce, alla quale erano legati rametti di pennetella, l'odorosa nepitella. Giunti alla cono, dell'Evangelista, l'arciprete intonava le invocazioni rogatorie e aspergeva con l'acqua benedetta la valle e la montagna.
Altra processione propiziatoria era quella che si teneva quando l'arsura minacciava le colture, con l'antica statua della Madonna dell'Acqua. Anche i riti popolari che accompagnavano la festa di S. Giovanni il 24 giugno erano di diretta discendenza dagli antichi riti lustrali, con uomini e donne che recitando una filastrocca si facevano la croce a vicenda con un garofano bagnato nell'acqua santa per farsi comari e compari di S. Giovanni.
Tra le feste caratteristiche di S. Stefano ancora osservate sono quelle di S. Antonio Abate, S. Sebastiano e S. Rocco, che avevano per scopo la richiesta di protezione contro malattie; per S. Antonio si raccoglieva legna per fare il fuoco ("focaraccio") in piazza, che veniva benedetto, e dal quale ognuno si portava a casa qualche brace per guardarsi da varie malattie ed in particolare dalla erpete zoster, il « fuoco di S. Antonio »; S. Sebastiano era ancor, prima di S. Rocco, protettore contro la peste e malattie respiratorie.
Il 15 agosto si svolge la processione in onore di SS.ma Maria Assunta
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Forse il periodo più religiosamente intenso era quello della Settimana Santa, durante la quale si aveva una sublimazione di massa delle pene e dei dolori umani nella passione e morte di Gesù Cristo. Alla pazza gioia del Carnevale che vedeva gente d'ogni ceto riversarsi per le strade ed entrare anche nelle case, mascherata e camuffata nelle maniere più goffe nello spirito dei saturnali, seguiva la quaresima con le via crucis, le prediche ed altri riti penitenziali.
La grande commemorazione della passione e morte del Cristo incominciava la sera di Mercoledì Santo quando, legate le campane e coperte tutte le immagini sacre, i ragazzi facevano il giro del paese, chiamando con le loro voci stentoree e i rumorosi tricchi-tracche e raganelle la gente alla chiesa per l'ufficio delle tenebre cantato dai canonici; nella chiesa nuda rischiarata appena dalle quindici candele della bercia tenebrae davanti l'altare, il canto delle lamentazioni di Geremia e dei salmi penitenziali creavano un atmosfera di intensa drammaticità.
Nel pomeriggio di Giovedì Santo si osservava la commemorazione dell'ultima cena di Gesù, e nell'anacronismo tipico alla tradizione popolare, l'esposizione della Eucaristia veniva confusa con quella del Cristo morto. Nello spazio tra i due altari della navata in cornu epistolae si addobbava la cappella del sepolcro con drappi, luci, vasi e cassette folti di pallidi fili d'erba fatta crescere nel buio delle cantine; la processione del Cristo nella bara usciva dalla sacrestia annunziata dai tricchi-tracche dei chierichetti e dalla nuvola d'incenso che precedeva l'arciprete in piviale con l'ostensorio, sotto il baldacchino; lo accoglievano i canti sacri della popolazione, non senza il pianto delle donne al passare del Cristo morto, che poi veniva depositato nella cappella del sepolcro dove veniva esposto anche il SS.mo Sacramento all'adorazione dei fedeli.
Nella lunga vigilia notturna, gente andava e gente veniva, mentre i chierichetti cadevano addormentati sulle cassapanche della sagrestia; e poi, verso le due del mattino, si radunavano alcuni uomini che indossato sacco con cingolo ai fianchi, prendevano la grande croce del Calvario e uscivano seguiti dai chierichetti, per fare il giro del paese cantando a distesa lo Stabat Mater per le strade deserte. Il Venerdì Santo, aveva luogo la sacra rappresentazione della morte di Nostro Signore detta popolarmente l'Agonia. Anticamente essa si svolgeva al di sopra della chiesa di S. Sebastiano nella contrada detta appunto alle Croci del Calvario; venne poi spostata all'interno della chiesa e quindi nella chiesa parrocchiale. Si costruiva un'impalcatura al di sopra dell'altare che poi si copriva con frasche d'alloro per simulare il Calvario, sopra il quale si alzavano le croci con il Cristo e i due ladroni, e sotto di esse la Madonna Addolorata, la Maddalena e S. Giovanni, mentre alcuni soldati romani di cartapesta facevano la guardia.
Il mastro falegname che aveva curato la messinscena provvedeva anche agli effetti scenici, tuoni e lampi, utilizzando grancassa, cimbali e luci. Le tre ore dell'agonia di Nostro Signore si svolgevano, a partire da mezzogiorno, in un'alternazione di canti e di prediche nelle quali si commentavano le sette ultime parole di Gesù sulla croce; erano tre ore fortemente drammatiche per i fedeli stipati nella chiesa abbrunita, ma sul palco del coro si vivevano momenti teatrali con i tenori e baritoni paesani che si facevano concorrenza negli assoli.
Completatasi la tragedia, il mastro della messinscena, come un deus ex machina, inscenava la deposizione, dalla croce, ed il Cristo schiodato andava ad adagiarsi sulle braccia protese della madre, che poi cominciava la discesa dal Calvario seguita da Giovanni e dalla Maddalena. L'ultima scena di questo sacro spettacolo si svolgeva a sera con la processione del Cristo morto, nella bara, per le vie del paese; più che una processione era un corteo funebre rischiarato da lanternoni e torce a vento con la popolazione che cantava le antiche laudi nelle quali si enumeravano le offese ed obbrobri fatti a Gesù confessando la propria colpa: « Sono stato io l'ingrato, Gesù mio perdono pietà ». Caratteristica di questa processione era la tradizionale partecipazione di alcuni capifamiglia in sacco nero, corda e cappuccio calato sul viso, ciascuno dei quali portava una croce a spalla e, legato alla caviglia, un pesante fascio di catene che trascinate a ritmo lento sull'acciottolato evocavano i colpi della sferza sulle spalle di Gesù Cristo.
La passione del Cristo faceva vibrare corde simpatetiche nella coscienza del popolo che in essa ritrovava un riflesso della sua vita terrena. Ma la tragedia ha un suo limite, e dopo la catarsi, brilla la gioia. Di buon'ora, la mattina del Sabato Santo, nelle case era tutto un rompere ed un battere d'uova, mischiar di farina e zucchero e grattugiare di limoni per le tradizionali pizze dolci, ciambelle; e tra tutta questa attività ed i profumi di cannella, anice, noce moscata ed altri, si scioglievano le campane, e dalla morte veniva nuova vita. Nel pomeriggio l'arciprete incominciava la benedizione delle case con un seguito di chierichetti che si avvicendavano a portargli a casa i panieri colmi d'uova.
Era così arrivata anche la grande Pasqua e il giorno di Pasquetta c'era chi andava a far scampagnate fuori porta.
Arturo Jorio