da "FIGHTING PAISANO" di ALFONSO FELICI Parte I 1 | ||||||
[ Ringraziamenti | Prefazione ] |
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I vocaboli in dialetto santostefanese sono stati scritti rispettando il metodo adottato per la realizzazione del dizionario dialettale di Aleandro ed Emanuele Amadio e Pino Leo. Per chiunque voglia consultarlo il sito internet è www.villasantostefano.com |
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Gli anni acerbi.
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Sono nato fra i canti del popolo, che danno caratteristiche particolari a questa Ciociaria, terra che ha dato i natali ad uomini illustri quali Cicerone, Caio Mario, Vipsanio Agrippa (1), Giuseppe Cesari detto <<II Cavalier d'Arpino>>, San Tommaso d'Aquino e, nei tempi moderni, al maresciallo d'Italia Rodolfo Graziani. Il mio paese, Villa Santo Stefano, si trova nel basso Lazio. E' arrampicato su una collina brulla; fu feudo dei Colonna, dominio dei Papi e, come vuole la leggenda, fu distrutto e raso al suolo per ben sette volte. Da questa conca lussureggiante cinta dai monti Lepini, dagli Aurunci, dal monte Gemma e dal monte Cacume, che custodiscono i campi fecondati dalle acque del fiume Amaseno e gli uliveti del monte Siserno, si leva la voce del contadinello, calzato di ciocia, che canta gli stornelli e le nenie più belle delle contrade, al quale fa eco la contadinella, raccoglitrice di olive. È questo il segreto dell'arte popolare e dell'immediatezza del sentimento che avvince prepotentemente l'animo. E nel fascino della spontanea fantasia popolare che ritrovo i ricordi più teneri della mia fanciullezza. Sono nato cinque mesi dopo la scomparsa di mio padre, morto a Roma nell'ospedale del Policlinico per una grave malattia. Mia madre mi raccontò dopo molti anni che, recatasi a Roma mentre era incinta di me, volle assisterlo fino all'ultimo, dormendo nei corridoi di quell'ospedale con l'aiuto delle Suore della Carità. Quando la salma di mio padre fu portata all'obitorio, lei lo vegliò e lo salutò per l'ultima volta senza poter assistere ai funerali, che non vi furono per mancanza di mezzi finanziari. Seguì a piedi e da sola il carro funebre fino al Verano, assistendo alla benedizione del sacerdote prima che lo seppellissero in una fossa comune. Lei, subito dopo, ripartì alla volta di Ceccano prendendo il treno alla stazione Termini, sconsolata ed afflitta per la grave perdita. Alla stazione di Ceccano scese dal treno e si avviò a piedi, per la scarsa presenza dei mezzi di trasporto. Comprò un grosso cocomero e se lo pose in testa per portarlo ai figli, lasciati soli per alcuni giorni. A passi lenti camminò sul ciglio della strada per raggiungere il paese quando, a <<Grutte>> (2)., vicino ad una fornace di calce, trovò <<z'M'liucc 'Biasiòl '>> (3) che tornava a Villa S. Stefano con la sua <<baròzza>> (4). Questo buon uomo, la fece salire, e la portò in paese con il suo cocomero che distribuì in grosse fette ai miei fratelli e sorelle. Qualche tempo dopo mia madre, assistita da za Rosa, la mammana del paese, mi diede alla luce. Era la notte del 23 gennaio 1923. Purtroppo per i dispiaceri avuti aveva poco latte, ma a tale scopo sopperì <<za Rosa d'Cinta>> che, avendo partorito qualche giorno prima sua figlia Antonia, mi allattò generosamente. Erano passati già sette anni dal giorno della mia nascita, ed erano sette anni che mia madre lavorava più sodo che mai per tenere insieme la nidiata di figli. Mia madre era Filotea Colini e sposò mio padre Alfonso, di Giuliano di Roma, già vedovo e con due figlie, Maria ed Adele, con il quale ebbe oltre a me, altri tre figli: Alfredo, Antonio e Giuseppe.
I o nacqui cinque mesi dopo la morte di mio padre e mia madre, per <<arrabb 'uà>> (5) la sua memoria, mi chiamò Alfonso. Mio padre era un falegname. Emigrò negli Stati Uniti per cercare migliore fortuna lasciando mia madre sola con i figli quasi tutti in tenera età. Egli lavorò prima nelle profonde miniere carbonifere di Wilkes Barre in Pennsylvania e dopo, trasferitesi a Cohoes, nello Stato di New York, trovò lavoro nelle ferrovie della Railoads Mohawk-Hudson, come addetto alla segatura delle traversine di legno da porre sotto i binari della linea Albany-New York. Questo lavoro gli diede l'opportunità di guadagnare bene e, non appena divenne cittadino americano, pensò di trasferire la sua famiglia negli Stati Uniti. Questo, però, non avvenne perché si ammalò per una grave infezione ai polmoni, contratta nelle miniere dove aveva lavorato. Rientrato in Italia, dopo qualche anno morì. Con la sua morte cominciò a perseguitarci la miseria perché, a causa del fallimento della Banca di S. Antonio, avevamo perso tutti i suoi risparmi americani.Mia madre era una donna silenziosa e dagli occhi tristi, lavava i panni dei ricchi del paese ed io la seguivo <<agl'riu'>> (6), 1'aiutavo a piegare le lenzuola asciugate sulle fratte sotto il sole. Mangiavamo quel poco che si riusciva ad avere: <<i'fallon ' >> (7), <<i' p'mp'tòr'>> (8), <<l' c’picc'>> (9), <<l'cannel'>> (10). Finivamo i nostri miseri pasti con <<i m'rìch' >> (11), <<l' mela>> (12), >> <<l' pera>> (13) che trovavamo in campagna. Durante il giorno io catturavo rane, granchi e uccelli che mangiavamo per cena. La sera ci avviavamo verso casa e mia madre, di solito, portava in testa una <<canestra>> (14) piena di panni lavati, ed io la seguivo con un fagotto più piccolo. Durante il tragitto le guardavo quel cesto in testa e ricordavo che, quand'ero piccolo, lei mi ci metteva dentro e mi portava a casa dal <<Pantaniglio>> (15) per non farmi stancare. Arrivati al Santuario della Madonna dello Spirito Santo lei si fermava a pregare ed io accendevo una candelina votiva da <<du' bócchi' >> (16). Un'altra sosta la facevamo alla Madonna delle Grazie, per riposarci prima di affrontare la grande salita che portava alla <<Portèlla>> (17). Nel 1928 morì mia sorella Maria a causa della malaria, contratta nelle Paludi Pontine dove andava a lavorare. In quelle zone tanti nostri paesani piantavano il granturco. Dopo la raccolta, le pannocchie venivano caricate sulle <<barozze>>, portate in paese e scaricate alla <<Pòrta>> (18) da dove, durante la notte, si vedeva, in lontananza, il bagliore delle lanterne di questi carri, che si avvicinavano lentamente al paese. I miei fratelli lasciarono molto presto la nostra casa. Alfredo e Giuseppe andarono a Roma per trovare lavoro, mentre Antonio abbracciò la vita monastica ritirandosi nel Convento dei Frati Minori di Roccasecca d'Arce. Mia sorella Adele raggiunse mia zia Marietta ad Anzio e iniziò a lavorare nell'Ospizio marino, mentre io rimasi con mia madre. I miei fratelli da sn.: Alfredo, Antonio e Giuseppe La notte restavo solo in casa perché lei era impegnata ad assistere gnora Peppina, anziana madre di don Amasio (19), che abitava vicino a noi. Spesso la notte mi svegliavo e, non vedendo mia madre accanto a me, andavo a bussare alla porta dell'abitazione del parroco svegliando tutti. Per questo motivo decisero di farmi dormire ai piedi del suo lettino che aveva nella camera di gnora Peppina. Purtroppo in quella camera si dormiva poco a causa delle continue richieste della vecchia e per i bisogni corporali che doveva soddisfare durante la notte. Stanco di questi <<disturbi notturni>>, decisi di tornare a casa mia e dormire beatamente nel comodo letto che prima dividevo con i miei fratelli.
Crescendo, insieme al mio caro amico Aldo Spaziani, anch'egli affamato come me, trovavamo il modo di rimediare qualche <<bòcco>> (20) prelevando dalla <<zazà>> (21) dei fratelli Palombo, che tornava da Frosinone, una cassa di legno restituita vuota dalla figlia di Orietta, Nevina Ruggeri, che gestiva l'albergo <<Bellavista>>. Orietta riempiva di nuovo la cassa con cibarie caserecce quali salsicce, uova, polli, galline e caciotte che Nevina utilizzava nel suo ristorante. Questo servizio veniva ricompensato da Orietta con una mancia di quattro soldi. Tutti i ragazzi si affollavano davanti alla corriera per afferrare la cassa, ma Aldo ed io, che lavoravamo in coppia, riuscivamo sempre ad arrivare per primi e così prendevamo la mancia che dividevamo in due. Per arrotondare le nostre entrate attendevamo sempre che za Marietta (22), <<la sacrestana>>, ci chiamasse a suonare le campane per le messe e per i vespri, ci pagava, infatti, con mezza lira ogni suonata. Durante le feste pasquali, invece, annunciavamo le cerimonie in chiesa con il <<tricchi' tracchi'>> (23) girando per il paese gridando: <<Alla Messa>>. Stefano, il fratello di Aldo, aveva una grancassa artigianale formata da tanti martelli di legno che producevano un gran fracasso. Il venerdì Santo si rappresentavano in chiesa le treore <<d'Ila 'ngònia>> (24), con Gesù e i <<ballatrun>> (25). Durante la serata aveva luogo la processione con Gesù morto sulla bara, seguito dalla Madonna con l'abito nero, San Giovanni e la Maddalena. Alla processione partecipavano i <<babbalòtt'>> (26) vestiti con un lungo saio nero e con la testa ed il volto coperto da un cappuccio, che portavano una croce sulle spalle e trascinavano pesanti catene legate ai piedi. Un giorno del 1932 Fracassino Iorio, conosciuto da tutti come Ferrante, stava trasportando con il suo asino, chiamato Piccione, una soma di legna nella contrada <<Urizia>> (27). Ad un tratto una zampa dell'asino affondò nel terreno formando una buca che subito, ai presenti, destò il sospetto di un serio problema. Furono avvisate le autorità locali che a loro volta interessarono quelle provinciali. Immediatamente furono disposti sopralluoghi ed ispezioni tecnico-geologiche. Alcuni tecnici si calarono attraverso questo buco scoprendo che un'ampia parte del sottosuolo di quella zona, sulla quale erano costruiti diversi edifici (28), era sgrottato naturalmente. Immediatamente il quartiere fu evacuato arrecando molto disagio alle famiglie rimaste senza casa. Dopo breve tempo alcune abitazioni che, a causa di questo fenomeno, erano rimaste gravemente lesionate furono abbattute e le macerie scaricate all'interno della voragine. Vennero gli operatori dell'Istituto Nazionale Luce che inscenarono una fasulla corsa alla salvezza. Ci fecero correre fra le macerie con fagotti e sedie, mentre i soccorritori venivano in nostro aiuto. Io, in questa messa in scena, mi salvai grazie all'aiuto di <<Pippo Marziuccia>>, <<za R'chetta >> , <<'Nnà Maria>> e di Arcangelo Gabrielli, detto <<M'lleggia>> (29). Successivamente, gli altri fabbricati dichiarati inagibili, furono demoliti o consolidati. Di quel nucleo di case non restò che uno spiazzo, oggi denominato <<Largo Gorizia>>, comunemente conosciuto come <<case spallate>>. Con prontezza gli organi statali si diedero da fare e fu elaborato un piano per la costruzione di alcuni fabbricati <<'ngima alla Vigna>> (30) e, in due anni, gli aventi diritto andarono ad abitare nelle nuove case. Io, nel frattempo, frequentavo con profìtto le scuole elementari e, a detta dei miei insegnanti, ero bravissimo in italiano, lettura, temi, disegno e geografìa ma <<zoppicavo>> in aritmetica. Le cinque classi elementari le ho frequentate con la maestra Giovanna Criscione, sostituita per brevi periodi dal maestro Giuseppe Ruggeri, dalla maestra Carmela Castrogiovanni, dalla maestra Vittoria Bonomo, dalla maestra Tina Muggeo, dal maestro Vincenzo Sorcinelli e dalla moglie Giovanna Mancinelli. Di loro ricordo le bacchettate sulle mani e i castighi di fronte alla lavagna, messi alla gogna, davanti agli altri scolari. Devo riconoscere che in fondo erano bravi insegnanti ma, purtroppo, dovevano sopportare le nostre marachelle ed ovviamente reagire con severità. I miei compagni di scuola erano: Filiberto Bravo, Elio Iorio, Pino Titi, Antonio Mastrangeli, Antonio Toppetta, Angelo Leo (N'ne), Antonio Palombo ('Ntoni' d' Cand'ta), Antonio Leo ('Ntòni' Fasan' ), Giuseppe Prepi, Nuccio Planera, Armando Bonomo, Benito Lucidi, Iorio Domenico di Massimo, Maria Bonomo (Maria L'uira), Romea Palombo, Antonia Pantoli (sorella di latte), Amorina Lucarini e le altre di cui mi sfugge il nome. Insieme a noi c'erano i ripetenti Antonio Palladini, Gaetano Iorio, Antonio Fiocco (Z'non'), Sarina Iorio, Maria Bartoli, Maria Leo ('a longa), Filomena Lucarini (Saracar '). Una volta, durante una forte alluvione, fuggimmo da scuola in mezzo ad una piena di fango, pietre ed arbusti. Riuscimmo a salvarci dall'acqua alta, che scendeva dalla discesa di San Sebastiano e portava via galline, gatti e tutto quello che trovava sul suo cammino, grazie all'aiuto di alcuni uomini, fra cui mio fratello Alfredo. La Porta era diventata una palude di sassi, alberelli e pezzi di legno, perché <<i' ghiau'còtt'>> (31) si era otturato. Fu un disastro che lasciò il segno. In paese, in alcuni periodi dell'anno, arrivavano <<i' c'nciar'>>, <<I' stròl'ch'e>> e <<i' struppi'>> (32), che camminavano su ginocchiere di legno e attraversavano i vicoli chiedendo le elemosine. I bambini più piccoli scappavano dalla paura verso le loro mamme. Queste, infatti, ogni volta che volevano evitare che i bambini si avvicinassero in qualche posto pericoloso oppure facessero capricci, li intimorivano dicendo: <<ess ' i' struppi'!!>> , <<ess ' i' bòbb’!!>> (33). II sabato c'era il mercato alimentare e da Ceccano veniva un ambulante di nome Sisto che vendeva <<l' saragh'>> (34), baccalà e formaggi vari. Da Fondi venivano i venditori d'arance, di limoni e di <<marganat ' dolc'>> (35). Nelle botteghe del paese si vendevano le cioccolate con le figurine dei calciatori, che noi usavamo per giocare e scambiarci i doppioni. La vita di noi adolescenti trascorreva nella maniera più semplice, trovando sempre qualche attività per rompere la noia. Andavamo al <<cretaro>> (36) dietro la chiesa di S. Sebastiano per procurarci la creta, che scavavamo con le mani da un burrone. Con questa creta ognuno di noi creava pupazzi, statuine di santi che, fatti seccare al sole, portava in casa per formare un Calvario con relativo Cristo in croce, i ladroni, la Madonna, San Giovanni, la Maddalena e soldati romani, oppure un presepio col Bambinello, la Madonna, San Giuseppe, il bue, l'asinello e le pecorelle che mettevamo in mostra su un tavolino. Era il frutto della nostra fantasia e noi ci tenevamo a mostrarli a chi capitava in casa. Fra i giochi c'era sempre il lancio dei sassi verso i compagni che procuravano teste rotte e i relativi litigi fra i genitori. Io ruppi la testa a Pino Titi, Augusto Lucarini <<G'r'man'>>, Ennio Marafiota e Armandino Iorio di Vincenzina <<'a 'ccanes'>>. Questa portò il figlio alla caserma dei carabinieri a Giuliano di Roma per denunciarmi, ma intervenne don Amasio che riappacificò le nostre madri. Una volta ebbi la peggio quando Clemo Toppetta mi ruppe un dente, e fu sempre don Amasio a fare da paciere. Quando dovevamo fare il vaccino contro il vaiolo era un dramma, ma il dottor Matteo Bonomo (37) aveva escogitato un piano. Dopo l'incisione al braccio regalava a tutti una caramella o una liquirizia a scelta. <<Za L'reta Mantèlla>>, nella sua bottega, vendeva pane e mortadella. La pagnottella costava mezza lira; io mettevo da parte ogni soldo che rimediavo e, appena raggiunto la mezza lira, andavo a comprare la pagnottella che portavo in casa dividendola con i miei. A scuola si usava distribuire l'olio di fegato di merluzzo ad ogni scolaro, ma tutti erano disgustati per il forte sapore di pesce. Noi lo ingoiavamo a malavoglia, ma poi eravamo contenti perché, per raddolcirci la bocca, ci veniva dato da mangiare un'arancia o una mela. La notte del dieci di dicembre era la festa della Madonna di Loreto. Durante la messa, noi ragazzi sparavamo con il carburo (38) e quasi sempre qualcuno rimaneva ferito alla fronte o ad una mano. Dalla campagna si udivano colpi di fucili e di doppiette sparati dai contadini e dai cacciatori. Era un'usanza che pian piano è scomparsa. I figli dei ricchi potevano permettersi i pattini con le rotelle a cuscinetti e comprarsi biciclette, mentre noi più poveri elemosinavamo un giro intomo alla piazza. Una volta, Renato Tambucci, mi permise di fare un giro ed io andai alle <<Mòl'>> (39) e tornai dopo un'ora. D'estate avevamo formato la <<banda della grandine>> che consisteva in un gruppo di affamati i quali, partendo dal paese e percorrendo in lungo e largo le campagne, rubavano frutta, cetrioli, cocomeri, meloni e <<tut'r'>> (40). Qualcuno sparava in aria con la doppietta ed era un fuggi fuggi per le fratte. Seguivano denunce ai carabinieri e forti multe che i nostri genitori dovevano pagare.
Alle volte, quando non sapevamo che fare, andavamo a dare fastidio alle ragazzette che giocavano <<agli'ambasciator '>>, a <<gir’tont>>, a <<madama D'rè >> e <<a bricc'ra>> (41) e, poiché le disturbavamo, eravamo inseguiti dalle madri infuriate armate di bastoni e scope. Spesso queste ragazzette c'invitavano a giocare alla <<casa>> (42). Il nostro ruolo era quello del <<marito>> che andava a lavorare; tornati dal lavoro trovavamo la cena pronta sui piatti di <<cuc'néll'ra>> (43) con sassetti, zeppetti e bucce d'arancia che le nostre <<mogli>> c'invitavano a mangiare. Noi, però, le obbligavamo ad andare a casa loro e a portarci pane, olive e frutta e il gioco diventava realtà. Questi generi alimentari le ragazzine li rubavano di nascosto e alle volte ci andava bene ma alle volte le loro mamme le sgridavano. Le mie vittime erano: Clara Iorio, Liliana Primotici, Italina Titi, nonché Perlina e <<'Nzina>> (le nipoti di zia Cleonice) e Lisetta Bonomo (Br’ schin'). Durante l'anno, andavamo ai pellegrinaggi di San Cataldo, alla Madonna della Civita, alla Santissima e a monte Cacume. Partivamo di notte da Villa Santo Stefano e arrivavamo di prima mattina a Supino, Gaeta o a Vallepietra. Quando si andava a Vallepietra, per la Santissima Trinità, lo stendardo lo portava Luigi Lolli che, essendo zoppicante, lo faceva andare su e giù tra le risate dei pellegrini. In questi pellegrinaggi si vedevano spesso persone che vomitavano strani oggetti, e ciò si attribuiva alla liberazione dalle fatture. A giugno andavamo a San Giovanni per celebrare la festa. Era un viavai di persone che si nominavano <<compari>> e <<comari>>. La prima animatrice era za Nunzia (44) che coronava le <<comari>> con una corona di <<u'tabio>> (45). Sul prato i signori mangiavano lumache e frittate bevendo vino e birre, sdraiati attorno ad una coperta. Dopo le gozzoviglie Aldo ed io, incaricati della pulizia, prendevamo gli avanzi lasciati sull'erba. Le nostre giornate e serate le passavamo sotto la <<la L'ja>> (46) e alla Porta. D'estate andavamo sempre scalzi o con i calzarotti e giocavamo a <<cavagli' l'ngu'>>, a <<salta la quaglia>> e a <<staccia>>. Quest'ultimo gioco consisteva nel lancio di un mattone che ne doveva abbattere un altro, chiamato <<l'cchitt'>>, che stava in piedi davanti ad una buchetta che conteneva figurine, bottoni, noccioli di pesca e di nespole sui quali scommettevamo. Sotto la Loggia, <<'ngima agi'm 'rigli'>> (47), si giocava a <<f’lm'nin'>> (48) oppure a carte. Quando pioveva ci rifugiavamo alle <<cantròcc'ra>> (49) e là, fra un tressette, un sette e mezzo o una scopa, passavamo le giornate. D'inverno i giochi cambiavano. Si giocava a <<picch’r’>> (50) e a <<ceppa>> (51). Dove ora sorge il monumento ai caduti, veniva scaricata la terra scavata nel cantiere dove stavano costruendo le case nuove. Noi, gettando acqua da sopra formavamo un solco e a turno scivolavamo fìno al fossato. Le volte che non avevamo l'acqua, per rendere scivoloso il percorso, usavamo la pipì. A Natale giocavamo a <<rasp >> puntando i soldi dentro un circolo per terra, la frase vincente era <<arma o lettera>> e si puntava <<testa o croce>>, quando nella caduta le due monete, da due soldi ciascuna chiamate <<cavalli>>, lanciate dal banchista, erano uguali si vinceva sulla figura che si era puntata. Si giocava anche a <<muro >> lanciando le monete contro il muro, la moneta più vicina vinceva tutto. Si giocava pure con palline di vetro o di coccio con il solito sistema delle monete. Di giorno si giocava alla <<guerra>> in piazza e, quando si catturava un prigioniero, si metteva davanti alla lapide dei caduti, mentre i nemici cercavano di liberarlo. La sera invece giocavamo ai <<briganti e guardie>> nascondendoci negli orti vicini inseguiti dai carabinieri chiamati <<strappun’>>. Ma il gioco più bello era il <<giro>> di Santo Stefano. Partivamo dalla piazza correndo e schiamazzando per tutti i vicoli dell'abitato. Molte volte venivamo rimproverati dalle donne che recitavano il Rosario, sedute sui gradini di San Pietro (52), della Portella e della <<preta cautata>>. Giocavamo con le <<ròzz'ch'>> (53), prese dai conconi di rame che avevamo in casa, e con un manubrio rudimentale, li facevamo scorrere girando nella piazza. Non stavamo mai fermi e tutti i giorni andavamo per i boschi, per i campi ed in montagna per cercare i funghi, gli asparagi, <<l' m'rtia>>, <<i' strugli'>>, <<l' pera uesp'>>, <<I' ta'f'n'>>, <<l'c'rasa pent'>>, <<i spin'sant'>>,<<i card'llucc'>>, <<i c’ciar'gli'd' p'z'racu'>> (54) e al fiume Amaseno andavamo a prendere i granchi di fosso e a pescare le rane ed i pesci. Aldo ed io eravamo sempre i primi quando si trattava di mangiare. C'era l'usanza, nel giorno della Virtù (55), di essere invitati da za'Nngèl'ca <<Maschion'>> a mangiare la polenta o pasta e fagioli. Seguiva poi la festa di S. Antonio Abate dove za Margarita <<Maièlla>> donava le pagnottelle. Quel giorno si accendeva un gran fuoco in piazza in onore del santo. A giugno gnora Ortènzia offriva altre pagnottelle in onore di S. Antonio di Padova. Andavamo a colpo sicuro quando c'erano le prime Comunioni e le Cresime. Ci recavamo in tutte le case dove c'era qualche bambino, o bambina, che doveva fare la prima comunione e lì ci venivano offerti biscotti, ciambelle e pizze dolci. Capitava, ogni tanto, che questi ragazzi, prima di fare la comunione, si abbuffassero con tutto quel ben di Dio e, non potendo più prendere il sacramento, i genitori arrabbiati non festeggiavano. Ricordo che due di questi furono Italo Bonomo e Alberto De Filippi, <<Manc'nella>>, fratello di Stefano e Lorenzo. Non mancavano mai ai matrimoni, dove i parenti degli sposi gettavano confetti e soldi davanti la chiesa e noi gridavamo: <<A musci'!!, a musci'!!>> (56). La mia famiglia viveva in accordo con il vicinato. Za Nunzia era la grande animatrice delle feste religiose della zona. Preparava sempre un altare davanti alla chiesa di San Pietro dove si fermava don Amasio con l'Ostensorio per benedire la gente.
Sotto <<agl' sp'rt'>> vicino casa mia, abitava Giuseppe Bonomo, detto <<Pepp' poc'>>, e ricordo che una volta, in disaccordo con la commissione delle festività di San Rocco, per ripicca non volle fare l'offerta per avere i ceci, e portò in piazza la sua pignatta, con questi legumi, accese un fuoco con la propria legna e curò di persona la cottura dei ceci. Don Amasio benedisse, con la reliquia del santo, le caldaie e quindi anche la pignatta di Peppe che se ne tomo a casa con i suoi ceci in barba al comitato. Tutti i paesani commentarono con ilarità questa sua presa di posizione. Al vicolo Belvedere abitava la famiglia detta <<Ghiurla>>, formata da Ernesto, la moglie ed una miriade di figli. Emesto allietava il quartiere cantando gli stornelli popolari accompagnandosi con il suo organetto e spesso suonava nelle serate da ballo nella casa di Pasqualina <<Qu'cc'lon'>>. Era simpatico ma sempre ubriaco e spendeva i soldi della pensione, della prima guerra mondiale, nella cantina di Marietta C'ncett'. La moglie, armata di un bastone, andava sempre a riprenderlo imprecando contro Marietta che lo faceva ubriacare <<spillandogli>> i soldi. Mia madre mi diceva sempre di non fermarmi davanti alla cantina di Marietta quando andavo a trovare mio cugino Ermanno. Era la cantina più malfamata, sempre piena di ubriachi che a turno andavano ad orinare all'angolo dov'era sistemato un <<pisciaturo>>, che emanava una puzza asfissiante. Marietta giocava con gli avventori quando mancava il quarto uomo nelle partite a scopa e bestemmiava insieme a loro. Fuori era sempre seduto il marito di Marietta, Cencio <<Ranfacan'>> che riparava le reti usate per pescare nel fiume Amaseno. Suonava il basso nella banda musicale, ed era buffo vedere le sue guance rosse, sormontate da lunghi baffoni, che si gonfiavano smisuratamente mentre soffiava nello strumento. Vicino casa mia abitava Eusebio Bravo sposato, con la vedova Ausilia Perlini. Era claudicante e in estate vestiva sempre di bianco. Era un intelligente scrivano e svolgeva pratiche notarili, di legge e di qualsiasi altro ramo. La sua casa era un viavai di persone che cercavano consigli da lui, valente autodidatta. Soprattutto d'estate si sentivano le martellate sull'incudine di Stefano, <<Mart'ilitt>>, che faceva il fabbroferraio. Disturbava le pennichelle pomeridiane del vicinato e veniva sempre rimproverato da Baldassarre Panfìli, ufficiale postale, che non sopportava il rumore durante il suo lavoro al telegrafo. Sotto <<agl' sp'rt'>> di Via San Pietro arrotondava lo stipendio, facendo il calzolaio, Gigi Anticoli <<Chiarelli >> che era anche messo comunale. Spesso imprecava contro le persone che gli portavano a riparare le scarpe troppo vecchie, e diceva: <<p'rché no' l' s' portat' a M'calin'>> (57). Sulla cimasa della sua casa, Arcangelo <<M'lleggia>>, si esibiva con canti arrangiati da lui come: <<uola uola, an'ma mia, a cavagli 'anà c'cala, app’llata a nà ramata, d' c'rasa d' raffaiun' >>. Questi versi dialettali li cantava sulle arie di canzoni religiose. Un'altra nostra vicina di casa era gnora Gina <<Marella>> che, un giorno, mi trovò con mio fratello Giuseppe mentre armeggiavamo con una lunga canna nella sua cisterna per acchiappare <<'a marong'ca>> (58). Molte volte andavo con il mio amico Italo Bonomo nell'orto del nonno Pippo, alla fontana della Sauce, a mangiare fichi e pesche. Mentre la nonna Luisetta raccoglieva i cetrioli, che avrebbe poi venduto, noi toglievamo dalle cipolle cresciute i tubi con il ciuffetto di semi e, dopo averli spuntati, facevamo una specie di zampogna che produceva un suono di trombetta quando ci soffiavamo dentro. Con questi <<strumenti>> avevamo formato nel quartiere una banda musicale e andavamo per i vicoli strombazzando. Spesso andavamo a bere l'acqua nella <<r'cciòla>> (59) di <<za T'rèsa Cacasangu'>>, il cui nipote Luigino allevava un falco. Ci divertivamo a guardare il continuo andirivieni del rapace che catturava serpi, lucertole e topi che riponeva nel suo nido, dentro una buca vicino la finestra. A Villa c'erano cinque forni: quello di zia Vittoriuccia alla Rocca, di za Margarita Maièlla <<agi C'gn'rar'>>, di gnora Peppina alla <<Urizia>>, di gnora Ortensia in Via Gentili e di za Candida alla <<P'rtèlla>>. Una cosa molto interessante era la preparazione per la cottura del pane da parte di za Candida e delle fìglie Geppa, Vincenza e Mariannina, che gestivano il forno di gnora Ida. La mattina molto presto za Candida, o le figlie, impartivano le disposizioni alle <<u'c'tar>> (60) che si erano prenotate per la cottura del pane. Le chiamavano dalla strada gridando: <<mitt'a recent'!>> (metti a bollire l'acqua); più tardi, dopo un'ora: <<ammassa!>> (impasta il pane), quindi: <<mitt'a crescia!>> (metti il pane a crescere); dopo due ore: <<'ntavia!>> (prepara le pagnotte) ed infine, poco dopo: <<a infornà!>> (porta il pane al forno). Le pagnotte erano messe in un <<capizz' >> (61) coperto con <<la mantèlla>> (62) e portate al forno. Ogni cliente poneva sulla pagnotta o <<'ngima agl' fallon'>> (63) un segno di riconoscimento; mia madre metteva uno zeppetto all'insù. Arrivata l'estate, a luglio, iniziava la trebbiatura. Noi ragazzi andavamo a curiosare nelle aie dove le trebbiatrici, manovrate a mano dai macchinisti, erano riempite con i fasci di grano dove i denti, fissati ad un cilindro, giravano velocemente frantumando le spighe. Era un lavoro estenuante per le donne che <<scamavano>> (64) con le forcine alzando le spighe al vento dopo aver tolto la paglia, con le pale poi era eliminata la <<cama>> (65) dal frumento che quindi veniva insaccato. Era una festa vedere le massaie preparare il pranzo agli operai. Vedendoci invitavano anche noi a mangiare e bere l'acqua fresca ai <<agl' cucumi'gl'>> (66). Torindo Biasini rivoluzionò tutto comprando una trebbiatrice a motore che separava il grano dalla paglia e questo, del tutto pulito, veniva insaccato in un lato. La dimostrazione della trebbiatura avvenne in pubblico, a Piazza Umberto I, e decretò la fine delle trebbiatrici a mano. Di bricconate ne combinavo parecchie. Una volta mia madre mi portò da za Marietta Bravo, una sarta, dalla quale doveva per farsi cucire una gonna. Questa sarta allevava i porcellini d'india e li teneva in uno spazio della cucina, circondati da una rete metallica. Io li osservavo e, preso dalla voglia di toccarli, involontariamente aprii l'uscita della rete ed una cinquantina di porcellini si sparpagliarono, uscendo dalla porta della casa precipitandosi per le scale, per strada. Fu un parapiglia per riprenderli a forza di erba depositata nelle gabbiette che za Marietta aveva per l'emergenza. Mia madre mi diede un sacco di botte! La radio era stata inventata da Guglielmo Marconi ma a Villa Santo Stefano non ce n'erano fino a quando, Stefano Planera, comprò una e tutti noi ragazzi lo pregavamo per farci sentire una partita di calcio o gli arrivi del Giro d'Italia commentati da Niccolò Carosio. Le notizie sullo sport le sapevamo tramite il giornale sportivo <<II Littoriale>>, che Pasqualino <<G 'ggiòtt '>> (67) ci portava da Frosinone e noi ce lo passavamo riducendolo in brandelli. In seguito, con la radio comprata dall'Opera Nazionale del Dopolavoro che aveva la sede dove c'era una volta il bar di za Jòla, potemmo seguire a volontà tutti gli avvenimenti sportivi. Nel paese non avevamo mai visto un film. Avevamo sentito parlare e raccontare da quelli che andavano a Roma. Rimanevamo incantati nel sentire le storie dei film e degli attori e attrici che li interpretavano. I nomi degli attori più famosi erano Armando Falconi, Elsa Merlini, Isa Miranda, Petrolini, Luigi Trenker ed i comici Charlot, Ridolini, Angelo Musco. Una sera Manlio Sarandrea, che andava spesso a Roma e vedeva dai quattro ai cinque film al giorno, ce ne raccontò più di venti. Alla fine venne il giorno che il Ministero della Cultura Popolare fece proiettare, in Piazza Umberto I, il film propagandistico <<Camicia Nera>>, diretto da Alessandro Blasetti. La Piazza era gremita di gente per vedere il primo film della loro vita. Alfredo Anticoli fiutò l'affare ed andò a Roma, alla Colombo Cinematografica, e affittò dei film di seconda categoria che proiettò prima nel garage di suo padre (l'attuale locale dell'Ufficio Postale), e dopo nella sala incompiuta della Casa del Fascio, ovviamente a mezza lira a spettacolo. Così conoscemmo Tom Mix, Ken Maynard, Gene Autry nei loro avventurosi film di cow boys. In seguito, nelle feste patronali, i film venivano proiettati gratis in piazza. Bisogna dare atto all'iniziativa di Alfredo se abbiamo potuto vedere questi film, anche se interrotti dalle continue rotture delle vecchie pellicole. Ci faceva vedere film come <<Santarellina>>, <<Le dodici mamme>>, <<Tarzan>>, <<Maciste>> ed i primi lavori di Totò.
1. Ammiraglio e uomo politico romano (ca. 63-12 a.C.). 2. Periferia a sud di Ceccano, ove ancora oggi è visibile il rudere del fornace. 3. Fiocco Amelio Primo di Biagio. 4. Carro agricolo in legno trainato da una coppia di buoi. 5. Nei paesi si usava mettere ad un neonato il nome di una persona cara defunta. 6. Sorgente con lavatoio pubblico, nelle vicinanze del Santuario della Madonna dello Spirito Santo. 7. Pane fatto con la farina di granoturco. 8. Pomodori. 9. Varietà di cipolla. 10. Erbe acquatiche tipiche. 11. Le more. 12. Le mele. 13. Le pere. 14. Cesto di vimini 15. Zona agricola del paese 16. Dieci centesimi di Lira. 17.Porta secondaria a valle del paese dalla quale partiva la strada che portava in campagna. 18. Piazza principale del paese, odierna <<Piazza Umberto I>>. Fino alla metà degli anni '50 la nostra campagna non era abitata, anche per la mancamza di strade carrabili. Per questo motivo le derrate venivano immagazzinate in paese. 19. Monsignor Amasio Bonomi, il don Bosco di Villa Santo Stefano, che dedicò la sua vita all'educazione religiosa, civile e patriottica della gioventù. 20. Soldo 21. Pullman Fiat <<Quindici Ter>> della ditta autoservizi F.lli Palombo di Villa S. Stefano 22. Maria Domenica Olivieri. 23. Strumento rumoroso in legno a volte con un battente in ferro, utilizzato nella settimana per sostituire il suono di campanelli e campane durante le funzioni religiose. 24. L'Agonia. 25. I due ladroni crocifissi insieme a Gesù Cristo. : 26. membro di una confraternita locale chiamata <<della buona morte>>. 27. Vecchio quartiere ebraico. 28. La zona era parte integrante del centro storico. 29. Personaggi noti del paese. 30. Vigna. Zona che si trova nella parte alta del paese. 31. Fogna principale. 32. Gli stracciaroli, le zingare e gli storpi. 33. Questa espressione richiama l'immagine di un uomo incappucciato. 34. Salacche. 35. Melograni dolci 36. Cava dicreta. 37. Questi fu per un decennio amministratore del comune di Villa S.Stefano e per trent'anni medico condotto 38. Si faceva una piccola buca per terra e vi si metteva la saliva di più ragazzi; sopra la saliva si posava una scaglia di carburo e subito si copriva con un barattolo di latta vuoto con sopra un piccolo foro che un ragazzo teneva otturato con un dito. Dopo qualche secondo, si toglieva il dito e un altro ragazzo avvicinava al foro un pezzo di carta acceso, incastrato in una canna. Il gas sprigionatesi dentro il barattolo, a contatto con la fiamma, lo faceva esplodere e saltare in aria oltre cinque-sei metri. 39. La Mola è una località presso il fiume Amaseno dove si trovava un molino. 40. Pannocchie. 41. Giochi ormai scomparsi. 42. Si simulava la vita familiare. 43. Cocci di piatti. 44. Questa era una donna di chiesa e dedita al sociale. La generosità di za Nunzia la potevano sprezzare anche i pisterzani che, venendo a Villa per la festa di San Rocco, potevano dissetarsi davanti la chiesa dove la donna metteva un concone con l'acqua e il ramaiolo per farli bere 45. Vitalba. 46. Loggia. Portico dal quale si accede all'intemo del paese. 47. Sedili in pietra che sono posti su un lato della Loggia. 48. Ancora oggi sotto la pioggia, sopra i sedili di pietra, sono incisi alcuni filetti. 49. Corridoi angusti e generalmente bui o antri di vecchie case abbandonate. 50. Trottola tozza e artigianale che si faceva girare con un pezzo di corda >>zagaglia>>. 51. Per questo gioco si utilizzavano delle piccole barre di ferro che venivano lanciate in una buca di fango; vinceva chi riusciva a far conficcare la barra dritta nel terreno e ad eliminare le altre. 52. Zona del centro storico che prende il nome da una chiesa che non fu mai portata a termine, nel cui sito fu realizzata da don Amasio, una palestra per educare i giovani allo sport. 53. Cerchi di ferro che sostenevano i bordi delle conche e conconi. 54. Varietà di frutta, bacche e germogli. 55. Giorni particolari scelti per fare opere di beneficenza. 56. Espressione che indicava che il lancio di confetti o soldi era scarso (è moscio!). 57. Un altro calzolaio arrangiaticcio 58. Piccolo mostriciattolo immaginario inventato dagli adulti, per non far sporgere i bambini nei pozzi e nelle cisterne. 59. Piccolo orcio di terracotta. 60. Massaie che avevano prenotato la cottura del pane nel forno pubblico (dare voce). 61. Recipiente di legno bordato quadrangolare. 62. Tela ruvida tessuta al telaio con avanzi di lana di vari colori, tipo panno ebraico. 63. Pane fatto con la farina di mais. 64. Pulivano. 65. Pula. 66. Recipiente di coccio, piccolo orcio. 67. Pasquale Biasini figlio Luigi - acceso tifoso della Lazio.
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Parte I Gli anni acerbi | Vita di paese| Don Amasio l'educatore|In cerca di lavoro al canto di "Giovinezza"| Sognando un futuro migliore |
agosto 2004
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