Villa S. Stefano ricorda… |
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L'amico Vincenzo Tranelli, nell'articolo "Il palazzo del Principe", narra la storia del Palazzo Colonna che fa bella mostra di se in piazza Umberto I e che, tra qualche mese, sarà restituito alla nostra comunità dopo una completa ed adeguata ristrutturazione. Il racconto di Tranelli, ricco di riferimenti storici, ci riporta agli anni tra il 1780 e 1820. Al tempo, infatti, don Filippo dei principi Colonna era, per diritto feudale, proprietario dell’unico frantoio, dove i santostefanesi erano obbligati a macinare le proprie olive.
"… Il vecchio e piccolo frantoio, composto da una stanza, (Piazza del Mercato n. 10) che a metà del ‘700 utilizzava anche un vano di proprietà dei Passio …", divenuto inadeguato, fu sostituito con un nuovo fabbricato"… costruito nella piazza davanti alla Porta, negli anni ‘80 del ‘700 …". Era, per l’epoca, un frantoio grande e moderno, con "… muri ben stabiliti ed imbiancati …" dotato di ambienti per la lavorazione delle olive, della cisterna per l’acqua, della stalla e di una "… chiavica …" per lo smaltimento dell’ "…acqua lorda…". A seguito degli avvenimenti politico-sociali (Repubblica Giacobina 1798, avvento dei francesi 1809) e dopo lunghi contenziosi con i Colonna, furono aperti a Villa S. Stefano altri due frantoi. Nel 1798 fu don Giuseppe Bonomo ad attivare un proprio "montano" ( 1 ), nella parte alta di via della Rocca, (nei locali, oggi, di proprietà del dott. Tranelli, per averli acquistati dagli eredi Bonomo); l’altro fu aperto in via Lata, n. 27 (già via dell’Ospedale), da don Luigi Lucarini, passato successivamente alla famiglia Panfili. Altri frantoi, furono attivati nell’Ottocento; ricordiamo quello nello scantinato del palazzo di Mons. Felici di Giuliano di Roma, acquistato in seguito da za Loreta Mantèlla; vi si entrava attraverso una stradina (oggi via del Fossato n. 2). Da qualche anno questo locale è stato rimodernato ed adibito a servizio di ristorazione. Da via della Fontana, (l’odierna via del Santuario, civico 3) si aveva accesso al frantoio, di z’ Pipp’ Mantèlla ( 2 ), posto nel sotterraneo del proprio palazzo che sorge al lato di Piazza Umberto 1°, attualmente il locale è utilizzato a magazzino. Da non dimenticare "i m’ntan’ za Bricida" ( 3 ), (già dei genitori del futuro Cardinale Iorio), che si apriva al civico 4 di Vicolo Stretto, tra via della Rocca e largo Gorizia. Guido e Alfredo Iorio nostre preziose "fonti di notizie", raccontano che da giovani, con il mastro muratore Ascenzo Iorio, (zio di Guido e padre di Alfredo) mentre recuperavano materiale di risulta, di un fabbricato diruto nei paraggi della Portella, trovarono una macina in pietra; Un certo z’ Rocco, persona già all’epoca, avanzata negli anni, disse loro che "anticamente in quel posto c’era un montano". Non abbiamo altre notizie in merito, ma l’indicazione di "Vicolo del Montano", tuttora leggibile su una vecchia ceramica stradale, ci conferma la possibile esistenza di un frantoio. Il racconto degli anziani e la tradizione popolare, vuole che i due ruderi, tra loro contrapposti, appena visibili, al di sopra del cimitero, in contrada Ferraro e Falcone, denominati Casetta del Marchese e Casetta bruciata siano stati locali adibiti alla lavorazione delle olive sul posto. Agli inizi del ‘900, in paese c’erano sei frantoi: quello del Principe, dei Bonomo (sor Matteo), quello ex Lucarini gestito dai Panfili (sor Ottavio), e quelli di za Loreta di z’ Pipp’ e di za Bricida. Nella metà degli anni ’30, Bonomo Gino, "sor Checco", tornato dall’America, installò in Via Roma, un moderno frantoio, alimentato con corrente elettrica. Nel dopoguerra, intorno agli anni cinquanta, erano attivi solo i frantoi di sor Luigi, (Bonomo) sor Saruccio (Panfili) e sor Checco che, utilizzando l’elettricità, avevano ridotto i tempi di lavorazione ottimizzando la produzione e qualità dell’olio. Gli altri, superati nella tecnologia, lavorarono, saltuariamente, ancora per qualche anno. Il frantoio dei Panfili rimase in attività fino agli inizi degli anni ‘70, mentre quello di Bonomo la cessò negli anni ‘80. Il montano di sor Checco, rimasto chiuso per diversi anni, ha ripreso l’attività con Francesco Fiumara che, dopo averlo acquistato, lo ha completamente ristrutturato e modernizzato sia nei locali che nelle attrezzature. Rimane, oggi, questa, l’unica testimonianza della lunga e ricca tradizione frantoiana del nostro paese. La quantità e la qualità dei nostri uliveti, l’esposizione assolata e il clima particolarmente favorevole, hanno sempre permesso un’ottima produzione d’olio di oliva. Prima dell’avvento dell’elettricità, l’energia necessaria alla lavorazione era fornita da animali (cavalli, asini, e muli) per il movimento della macina e dalla forza muscolare del " m’ntanar’ " ( 4 ) per il sollevamento del torchio. Dopo la molitura, che durava molte ore, data la lentezza dell’animale trainante, la pasta veniva insaccata nelle "spòrt’l’ " ( 5 ) che messe in colonna, venivano compresse con il torchio. La "composta" ( 6 ) era ripetutamente bagnata con getti di acqua prelevata con " i’ p’zz’nett’ " ( 7 ) da una enorme caldaia, sotto la quale un bel fuoco di legna provvedeva a scaldarla. La spremitura, misto di acqua e olio, finiva in un tino posto al disotto del torchio e successivamente, travasata in un altro più grande dove si iniziava la raccolta dell’olio. Il montanaro, impugnando con la destra " i gnapp’ " ( 8 ) raccoglieva, con abilità, le grosse chiazze di olio, galleggianti sull’acqua, disegnando sulla superficie di questa delle spirali. Il mignolo, immerso nella mistura, seguiva le volute della mano, favorendo la separazione dell’olio, Con la sinistra teneva un recipiente, della capacità di un litro, che, non appena riempito, lo vuotava " agl’ d’cal’tr’ " ( 9 ) e questi alla "M’sura" ( 10 ). Verso la fine della raccolta, si affondava una frasca per portare a galla le ultime particelle d’olio. La perizia del montanaro si evidenziava nel raccogliere le gocce, sempre più piccole, separate dall’acqua. Il proprietario delle olive, dopo aver seguito tutte le fasi della lavorazione, si faceva più accorto, perché, in questo momento, si accertava " a resa " ( 11 ). Il montanaro per il pagamento del servizio, tratteneva "la decima" ( 12 ). Ai piedi del tino, c’era una "pignata" ( 13 ) nella quale veniva versata la regalia in olio che il cliente offriva alla "toccarina" ( 14 ) per il lavoro svolto. I frantoi, oggi, più tecnologici e più igienici, ci garantiscono un olio, certamente migliore, ma non sono più i frantoi della nostra adolescenza. " I m’ntan’ d’ na’ uòta ", erano sempre ubicati in scantinati bui e umidi con pareti scalcinate, annerite dal fumo; vi si respirava un’aria, satura di vapore misto al profumo dell’olio nuovo, temperata, appena, dal calore della "Fornèlla" ( 15 ). Attorno a questa, si svolgevano le "c’mmartaziun’ " ( 16 ) a base di " pan’ a bruscqu’ e marz’llin’, zazzicchi’ e pan’ panunt" ( 17 ). L’atmosfera gioiosa, soprattutto se la resa " steua à i bèn’ " ( 18 ), era rallegrata dai pettegolezzi e dalle malignità sui clienti degli altri frantoi.
In questi due secoli, nei nostri frantoi, si sono succeduti vari montanari. Noi, ricordiamo solo alcuni che coincidono con il tempo della nostra infanzia: Gabriele, Vincenzo, Amerigo, Celestino, Alessio, Michele, Ennio, Nuccio. Ricca di aneddoti era la rivalità nata tra i fratelli Amerigo ed Ennio, che curavano "gli interessi" dei cugini Sor Luigi e Sor Checco. Ci tornano in mente le toccarine: Elvira, Filomena, Giuseppina, Assunta, Maria, Amorina, Flavia. Particolarmente cara rimane, per Giovanni Bonomo, la figura di "za’ Luira". Per la nostra economia, la coltura dell’ulivo, è stata considerevole, quasi come lo è, oggi l’allevamento della bufala; la vendita dell’olio, infatti, contribuiva in maniera sostanziosa al reddito dei proprietari di oliveti. Tra questi ricordiamo " z’ Giòtt’ " (Luigi De Filippi) che, con la sua esuberante personalità, ha caratterizzato un’epoca del nostro paese. Famosa è rimasta una sua "massima": "S’ gli aucat’ ieun’ bon’, s’ gli sarìa miss’ Crist’, cà s’à fatt’ qundannà senza". Classica testimonianza di saggezza contadina. Nelle fredde e uggiose giornate d’inverno, ricurvo, avvolto nella sua mantèlla, con il copricapo calato sugli occhi, attraversava la piazza a capo di lunga teoria di donne, vestite di scuro, che portavano in testa " i’ strun’ " ( 19 ) ricolmi delle sue olive, da macinare. Molte cose abbiamo raccontato e molte ve ne avremmo raccontate se l’editore ci avesse concesso più spazio. Vogliamo terminare, facendo nostro un consiglio suggerito da una mattonella decorativa appesa al frantoio di sor Luigi: "Se sei servito male dillo a noi, se sei servito bene dillo agli altri". Allo stesso modo: "Se questo racconto non vi è piaciuto ditelo a noi, se vi è piaciuto, fatelo leggere agli altri ".
dicembre 2007 In contemporanea con "La Voce di Villa" - Notiziario a cura dell'Amministrazione Comunale di Villa Santo Stefano
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vedi anche di Arturo Iorio estratto da il "Lessico": muntànu
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