m u n t à n u, sm.: frantoio per olive. (La descrizione che segue è basata su osservazioni personali ed impressioni ricavate quando, da ragazzo, mi sono trovato a passar del tempo nel frantoio dei Panfili al basso di via Lata; perciò, errata corrige. Per le varie voci usate qui nel testo relative al processo della molitura, v. Lessico, passim.) Dopo l'abolizione dei feudi nello Stato della Chiesa nel 1816, si ebbe nelle terre delle ex baronie dei Colonna nel Basso Lazio una forte espansione di attività imprenditoriali agricole private, che nel nostro territorio si concentrò nello sviluppo dell'olivicoltura sui terreni diboscati di mezza costa, seguita poi dall'apertura di frantoi, muntani, padronali gestiti per conto proprio dai nuovi proprietari per assicurarsi il controllo di produzione, trasformazione e smercio del loro prodotto oleario. Tra i gruppi familiari paesani che si dedicarono fine secolo a questa attività redditizia furono i Bonomo, i Mantella, i Jorio Carlone e poc'altri. Questi frantoi padronali erano aperti anche a piccoli produttori indipendenti in regime di concorrenza. La natura stagionale della raccolta delle olive, che si protraeva durante tutto l'inverno secondo la maturazione delle varie qualità di questo frutto, ed il processo della sua trasformazione in olio, richiedeva una organizzazione capitalistica di mezzi di produzione ed un bracciantato stagionale che spesso veniva anche utilizzato per la coltivazione degli ulivi, la manutenzione delle spurtèlla, terrazzamenti, e la raccolta e trasporto del frutto ai frantoi, lavoro questo generalmente riservato alle donne. Per il frantoio occorreva prima di tutto un ambiente assai spazioso ed arieggiato nel quale si potevano condurre le varie operazioni di molitura, estrazione dell'olio, avere a portata di mano i servizi ausiliari, e allo stesso tempo spazio per gli addetti ai lavori, le donne che portavano le olive da macinare e quelle che aspettavano di caricarsi l'olio da portarsi a casa, ed altre persone che venivano ed andavano. A ripensarci più in là negli anni, questi frantoi con le volte alte, i vari ardegni, le funi, attrezzi e utensili attaccati ai muri anneriti dal fumo e dagli anni, il chiaroscuro dell'ambiente con la gente che in esso si muoveva, le ampie fusciacche di macalötti, ragnatele, che ciondolavano, dall'alto e la sempre presente edicola della dolce Madonna rischiarata dal lumino ad olio, richiamavano nell ' immaginazione le atmosferiche incisioni delle carceri del Piranesi. Quando il coltivatore portava le proprie olive per la-molitura al muntànu, se ne misurava la quantità, v. mpòsta, e si stabiliva, quanto, olio era dovuto al cliente, meno la parte da dare come pagamento al padrone. Le olive venivano prima sciacquate, dopo di che si attendeva il turno per la macinatura. Il frantoio vero e proprio era situato in un angolo fuori mano dove un cavalluccio bendato faceva girotondo da mattina a sera intorno al grosso cilindro di pietra della base della macina, leggermente concava per facilitare la frantumazione delle olive; su di essa rotava la pesante mola tirata dal cavallo. Gli addetti a questa fase dell'operazione, uno da una parte uno dall'altra, oltre a dare di tanto in tanto una scudisciata al povero ronzino solo per sfizio, alimentavano la macina con le olive rimestandole con una paletta di legno per riportarle sotto la pietra molare, lavorando in alternanza a ciascun passaggio del cavallo. Ottenuta la giusta molitura, la pasta delle olive veniva raschiata dal fondo della macina, raccolta ed insaccata nelle spòrte, fiscoli di fibre di stràmma di lavorazione paesana, le quali venivano quindi portate a posare sulla piastra del torchio a vite che torreggiava nel centro del muntànu sì da dare ampio spazio di movimento agli operai addetti alla sprescjatùra. Due uomini robusti, a torso nudo e con fazzoletto rosso al collo per assorbire lo scorrere del sudore dal viso, azionavano la pesante stanga della torchiatura uno spingendola l'altro tirandola in sincronia, e retrocedendo al punto d'inizio ad ogni scatto del cricco; e quando la pressione diventava più dura, con il sudore che colava loro per tutto il corpo, i torchiatori si davano lena con un ritmico urlo di "òh-jé" ad ogni scatto dell'ingranaggio che echeggiava sotto le volte alte al di sopra del trambusto generale di gente e d'altre attività in corso. L'olio che scorreva dal torchio veniva raccolto con i puzzunétti, ampi ramaioli di rame, e versato negli àgnuli per la separazione, attraverso affioramento, dell'olio dall'acqua di vegetazione. L'olio vergine che veniva a galla, raccolto con le gnàppe, era riposto nelle mesùre dove lo si lasciava sprugljà, cioè a purgarsi. Si passava quindi ad una seconda pressa, più lenta,ed onerosa, della pasta di olive rimasta nei fiscoli, e poi anche ad una terza ricavandone olio meno fine. Finita la pressa e messo l'olio nei vari recipienti secondo l'ordine della sprescjatùra, si passava a far risórija la materia oleosa rimasta nel fondame degli àgnuli versando in questi ampi vasi acqua bollente che era sempre pronta sopra le fornacette addossate al muro ed alimentate dai capimorti oleosi di passate spremiture, lo si acculléu e metteva da parte a purgarsi anche questo nelle apposite mesùre. I liquidi residuati negli àgnuli venivano poi fatti defluire attraverso fossatelli scavati nel pavimento dell'opificio nel purgatòriju in fondo al locale che consisteva di due vasche a dislivello dove le acque oleose si lasciavano a purgare, e quando il liquido oleoso si era stabilito a galla, veniva fatto defluire nella vasca inferiore attraverso uno sportelletto per ricavarne la mòrca ed oli per altri usi. Ogni quindici giorni si apriva la chiusa di fondo del purgatorio facendo scolare l'àqua ténta verso i fossati a valle. Finito il lavoro, ai clienti che avevano portate le proprie olive al frantoio veniva misurata e consegnata sotto i propri occhi la pattuita quantità d'olio, meno la quota dovuta al padrone del frantoio, che.veniva riposta nelle grandi gjàre di terracotta nell'attiguo magazzino per poi essere venduto localmente o messo in commercio. Oltre all'olio, il cliente riceveva la porzione che gli spettava di mòrchia ed uno strònu di capimorti per ogni mpòsta d’ öglju. I capimorti, vuotati dai fiscoli, erano ottimi da ardere al fuoco e le loro ceneri, ricche in potassa, erano molto ricercate per la confezione del sapone casalingo. Ma il frantoio, oltre alla sua funzione primaria ed essenziale per l'alimentazione, aveva anche una utilità ambientale sociale. Dato che i lavori nei muntàni si svolgevano durante la stagione invernale, lo spazio del locale ed il caldo che vi si godeva per via dei vari fuochi necessari alla lavorazione, vi attirava un buon numero di persone, benestanti oziosi, signorotti boriosi, studentucci saccenti, famigliari ed amici del padrone e qualche bighellone professionale dei quali non ne mancavano in paese a far chiacchiere e sfuggire al freddo ed all'umido di fuori; questi si aggiungevano agli addetti ai lavori, clienti, fémmene alla giornata che portavano le olive a macinare o aspettavano per carijà le mesùre d'olio pronte per la consegna a domicilio. Cosi d'inverno ju muntànu veniva a prendere il posto delle brumose piazze e strade come centri di rapporti umani e sociali, mentre le varie fasi del lavoro continuavano ininterrotte. Si ammazzava il tempo come meglio si poteva in chiacchiere, racconti, pettegolezzi, scherzando e argomentando con gli operai ed inservienti che negli intervalli di lavoro si sedevano alla bene o meglio sopra sgabellefti o per terra a fare uno spuntino di pane, cacio, cipolla e magari qualche mùccicu di zazzìcchja risciacquandosi la gola con lunghi sorsi di vino. Non mancava nemmeno qualche incipiente alterco fra le donne, e neanche lazzi e modeste ed immodeste galanterie scambiatesi quando uno dei maschi dava mano a qualche femmina per aiutarla a caricarsi o scaricarsi dei pesi sul capo; tutto nel pieno ardore vitale della commedia umana. (Lat. molendarius , da molere).

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Dal "Lessico Paesano": dialetto, storia, vita, tradizioni ed usanze del popolo di Villa S. Stefano di Arthur Iorio

www.villasantostefano.com

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