lùpupunàru , sm.: lupo mannaro, licantropo, versipelle. Nella tradizione santostefanese si credeva che l'uomo, ma non la donna, che nasceva alla mezzanotte di Natale, era destinato a essere ò lùpu ò cànu, e per questa sua arroganza a nascere alla stesso momento del Cristo, era destinato a doversi trasformare in lupo una volta l'anno. Questo aggancio della licantropia al calendario cristiano faceva parte degli adattamenti sincretistici per spiegare, in chiave delle nuove credenze, un fenomeno ben comune nelle antiche civiltà orientali e cioè la coesistenza nella natura umana di due forze avverse, il bene ed il male, dell'uomo metà angelo e metà demonio, della luce e del buio; era questo "l'omo-bestia" del Belli. Questa metamorfosi che incarnava un concetto filosofico insito nella psiche della razza umana non era solo frutto di superstizione, ma anche effetto di una malattia convulsiva che prendeva l'uomo così segnato durante certe notti di plenilunio. E quando costui sentiva l'aberrazione psichica entrargli nel corpo, scendeva di soppiatto dal letto e correva verso la fontana Ila Sàucja dove, spogliatisi completamente, se utréua cioè voltolava nel fango che lì non mancava mai, mentre dalla pelle gli spuntavano i peli lupini. Diventato uomo-lupo, risaliva in paese ansimante su quattro zampe ululando penosamente inseguito da una canea infernale di cani randagi, correndo su e giù per le vie ed i vicoli del paese, mentre la gente si teneva rificcata in casa con i portoni serrati a guardare la scena dietro le persiane chiuse, come capitò una volta anche a me, per paura di essere sbranati. Unico modo di por fine a questa terribile malattia o maledizione che fosse era, cosa pericolosissima, affrontare il lupo mannaro durante il parossismo della sua bestialità e cavargli con ferro aguzzo una goccia di sangue dal corpo. Ci fu più di qualche parente pietoso che ebbe la temerarietà di confrontare il versipelle per strada, tizzone rovente in una mano per difesa e un lungo spiedo nell'altra, per effettuare la guarigione, con perenne gratitudine del congiunto e della parentela. Si raccontava come un lùpupunàru in cerca di guarigione si presentasse una sera all'uscio della propria casa e cacciato il muso nella gattaiola cercava di far voce umana implorando che qualcuno lo ferisse; e con la famiglia atterrita nella cucina, costui rimase lì tra l'ululare e piangere, finché uno dei congiunti ebbe il coraggio di afferrare lo spiedo dal focolare e forargli la guancia, ridando cosi al disgraziato tutte le qualità d'uomo. Ho espresso spesso il mio giudizio sulla continuità storico-sociale tra le popolazioni dei nostri paesi d'oggi e quelle che un paio di millenni addietro circa vissero in queste terre e valli quando vi sorgevano i pagi romani. Eccone una testimonianza, che cito parafrasandola, nel racconto di un commensale durante la cena di Trimalcione nel Satyricon di Petronio Arbitro. Si noti l'attualità con la situazione sopra descritta nel nostro paese. "Dovendomi mettere in viaggio, narrava costui, chiesi ad un altro inquilino dello albergo, un militare fortis tamquam orcus di accompagnarmi per un tratto di strada. C'incamminammo al primo cantar del gallo con una luna piena che sembrava esser giorno. Ad un tratto, il mio compagno sostò ed incominciò a togliersi le vesti ammucchiandole sul ciglio della strada e poi completamente nudo come era ci si mise a pisciare tutt'intorno. Fu allora che mi resi conto che costui si stava trasformando in lupo, e mi sentii intirizzire dal terrore con un gelido sudore che mi colava fra le palle, mentre l'anima mi risaliva su per il naso quasi fosse per uscirmi dal corpo; e quando costui fu tutto coperto di peli, fuggì ululando nella boscaglia. Riavutomi dalla gran paura, mi diressi verso la fattoria di Melissa che non era troppo distante, e raggiuntala, m'incontrai con l'amica che mi correva incontro a raccontarmi ancora tremante come durante la notte un gran lupo aveva sfondato l'ovile ed aveva scannate tutte le pecore peggio di un macellaio. Fortunatamente, aggiunse, uno degli schiavi accorsi riuscì a ferire il lupo al collo con una lancia e a metterlo in fuga. Rientrato in albergo, trovai il mio compagno di strada steso sopra il letto come un bue abbattuto mentre un medico gli curava la ferita al collo. Mi resi allora conto che costui era un versipelle, un lupo mannaro." Questa storia insegna che le circostanze della vita possono cambiare, ma la natura dell'uomo resta immutabile, e ciò a scapito di tutte le scienze e tecnologie che il tantillus homo moderno può vantare. (Etim. complicata: Lat. aureo lupus e vernacolo hominarius in combutta con l'aggettivazione del Ger. mann, essere umano, che nella parlata soldatesca barbarica di Roma era diventato mannarius. I romani nella loro praticità chiamavano questi tipi soggetti a metamorfosi psicosomatica versipellis, come scrive Petronio; anche Plinio il Vecchio, Naturalis historia viii-22, fa riferimento a "homines in lupos verti. Per il racconto di sopra, v.: Satyricon, lxii).
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