j a, sf. var. nguníja. Sacra rappresentazione dell'agonia e morte di Nostro Signore Gesù Cristo tenuta il Venerdì Santo di ogni anno, prima nella chiesa di San Sebastiano, poi in quella parrocchiale. La commemorazione delle Tre Ore di agonia di Gesù sul Calvario era il momento più sacro del calendario religioso ed umano del paese anche perché, tra tutte le ricorrenze sacre, questa era quella nella quale il popolo tendeva ad immedesimarsi e riconoscersi nelle sofferenze del Cristo uomo, come specchio della loro realtà giornaliera. Il Gesù dell'Anguníja era uomo di sangue ed ossa come loro; quello della Resurrezione esulava dalle loro esperienze, anche se rifulgeva come un mitico eroe che aveva conquistata la morte. Dopo la lunga veglia del giovedì al Santo Sepolcro, la luce del mattino veniva a schiarire il giorno più mesto dell'anno. Tutto era lutto e dolore, sia nella vita esterna che in quella intima dell'anima, della psiche come si direbbe oggi; le chiese erano spoglie, disadorne, gli altari nudi, le sacre immagini coperte di veli paonazzi; il sacerdote in paramenti neri celebrava una messa che non era poi messa perché non c'era la consacrazione. Si leggevano le profezie e quindi il Passio di San Giovanni Evangelista, e mentre si procedeva alla adorazione della Croce, nel vuoto del tempio diventato quasi un sepolcro si viveva quello che era forse il tratto più drammatico di tutta la liturgia cattolica, quale era quello degli accorati rimproveri che Gesù lanciava a coloro per i quali tanto aveva fatto e che lo avevano portato alla passione e morte. Noi giovani cantori appollaiati sopra il palco dell'organo scartabellavamo pesanti libroni seicenteschi e divisi in due cori cantavamo gli Improperia: "Popolo mio, cosa ti ho fatto? Ti liberai dalla schiavitù d'Egitto, e tu hai approntata la croce al tuo salvatore... Ti protessi per quarant'anni nel deserto... Afflissi l'Egitto con la morte dei figli primogeniti... Sconfissi per te il re dei Cananei... E tu mi hai percosso il capo con la canna... Mi hai schiaffeggiato e sferzato con flagelli... Mi hai dato da bere fiele ed aceto... Ti diedi lo scettro reale, e tu mi hai posto sul capo una corona di spini... Ti ho esaltato ai massimi onori, e tu mi hai appeso sul patibolo della croce... Che altro avrei dovuto fare per te?... Popule meus, quid feci tibi Popolo mio. cosa ti ho fatto?" E negli intervalli tra i rimproveri, sempre in due cori, si cantava il Trisagion in greco ed in latino, come di rito: "Santo Dio... Santo potente... Santo immortale abbi misericordia di noi. "Aghios o Theós. Aghios ischyrós. Aghios athànatos elèison imas." Queste emozionanti cerimonie che si svolgevano nella mattinata del Venerdì Santo sono da tempo scomparse dal rituale della chiesa cattolica aggiornata al mondo moderno. Terminati questi riti, verso le ore undici, i ragazzi incominciavano a fare il primo dei tre giri per le strade del paese con gran fragore di raganelle e tricche tracche a chiamare i fedeli alla celebrazione delle Tre Ore dell'Agonia. Coloro che in mattinata erano scesi nelle campagne per jí a richèta alle ujöstja si affrettavano a rientrare in paese, e presto dal basso della Portella, dal Cegneraro, da San Pietro e dalla Urizzia la gente risaliva lentamente verso la chiesa di San Sebastiano, nella contrada detta anticamente delle Croci del Calvario, per la sacra rappresentazione dell'Agonia. Sull'impalcatura fitta di frasche di alloro che simulava il Golgota si alzava la croce con il Cristo crocefisso ed affiancata da quelle dei ballatruni, i due ladroni, sotto le quali erano le statue della Madonna Addolorata, Santa Maria Maddalena e San Giovanni; qua e là erano le sagome di cartapesta di soldati romani in guardia. La sacra rappresentazione durante la quale ciascuna delle Sette Ultime Parole veniva commentata con pezzi musicali dal coro e solisti di cantanti paesani sul palco dell'organo e quindi dall'oratoria del predicatore dal pulpito, si apriva con il funebre "In duro tronco infame..." e continuava per tre ore di trenodie e prediche fino alla tragica risoluzione finale, quando Domenico la Luna intonava con voce chiara ed accorata l'aria finale della tragedia "L'alta impresa è già finita..." mentre il popolo piangeva profusamente. (Lat. agonium, vittima sacrificale).a n g u n í
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